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Amazon è ormai un conglomerato ma è anche un monopolio?

Con 20 società controllate che operano in 10 diversi comparti a seguito di 78 acquisizioni, Amazon ha riportato alla luce un genere di società che sembrava scomparso: il conglomerato. Ma l’Antitrust si domanda se nelle sue attività si configuri o no una presenza monopolistica e la discussione è più aperta che mai

20 società controllate, 78 acquisizioni, 10 differenti comparti: benvenuti nel parco di Amazon 

Nella scorsa settimana abbiamo visto quanto sia controverso il dibattito sulla natura monopolistica di Amazon. Per il momento il giudizio è sospeso e appare improbabile ogni tipo di intervento governativo almeno negli Stati Uniti, mentre in Europa il discorso potrebbe essere diverso. Un maggiore consenso si riscontra invece nel classificare Amazon come un conglomerato di attività molto diversificate. Non proprio un conglomerato industriale classico, ma un conglomerato di tipo nuovo con caratteristiche peculiari riscontrabili anche in Alphabet, la società madre di Google e di altre 12 società controllate. 

Conglomerato è una parola che terrorizza gli analisti e gli investitori tanti sono gli esempi nel passato e anche nel presente (vedi General Electric, Siemens o i conglomerati media) di inefficienze, sprechi, inerzie operative e capitalizzazione stagnante delle imprese che si sono trasformate in un conglomerato tramite acquisizioni o estensioni delle proprie attività ad ambiti molto diversi tra loro e non sinergicamente connessi. 

Amazon opera direttamente o attraverso le sue 20 società controllate in almeno 10 differenti comparti: commercio al dettaglio, servizi internet, media, videogiochi, logistica, spaziale, finanza, domotica e robotica, agroalimentare, finanza, mercato del lavoro. Eppure stranamente sta ricevendo un consenso stupefacente dagli analisti e dagli investitori. Un consenso che non ha precedenti nella sua storia ventennale, ma ne ha pochi anche nella serie storica delle imprese creatrici di valore. Hendrick Bessembinder, professore di finanza alla Università dell’Arizona, che aggiorna una propria lista sulle società che dal 1926 hanno creato maggiore valore per gli azionisti, ha collocato Amazon tra i 30 più grandi creatori di valore dicendo al New York Times che Amazon ha raggiunto questo status in un periodo di tempo impressionantemente breve. Bessembinder ha calcolato che le azioni di Amazon negli ultimi 15 anni sono incrementate di valore dell’8.200%, quando nello stesso periodo l’indice S&P 500 è cresciuto del 302%. Chi avesse investito 1000 dollari nel 2002 nelle azioni di Amazon, oggi se ne troverebbe 83.000. 

Amazon trova questo consenso perché gli investitori individuano in questa impresa un conglomerato dinamico o creativo completamente diverso dai conglomerati classici dell’era industriale. Forse è proprio quella del conglomerato la dimensione e la strada per creare valore duraturo. Andrew Ross Sorkin, il columnist finanziario del New York Times e autore del libro bestseller Too Big to Fail da cui è stato tratto anche l’omonimo film HBO, ci spiega sulle colonne del quotidiano di New York nella sua rubrica “Big Deal” il significato di questo tipo di conglomerato e le sue implicazioni economiche e sociali. 

Il ritorno dell’inefficiente 

Si pensava che i conglomerati fossero ormai estinti, ruderi del passato imprenditoriale delle economie sviluppate. Gli investitori, è stato detto e ridetto, vogliono società più piccole, flessibili e specializzate. Eppure oggi c’è Amazon. Proprio quando sembrava che i grandi palazzi imperiali fossero passati di moda (il ceo di General Electric, Jeffrey Immelt, è stato compianto dalla stampa dopo essersi dimesso in seguito alle pressioni degli azionisti) Amazon ha annunciato di avere acquisito Whole Foods per $13,4 miliardi. 

L’accordo lancerà Amazon nel settore dei supermercati reali, che sarà gestito insieme a una serie di attività diversificate: la vendita online di prodotti di ogni tipo, dall’elettronica al dentifricio, i pagamenti e il credito, il cloud computing, la produzione e la distribuzione di film e programmi televisivi, l’editoria, le spedizioni, le operazioni logistiche e tanto altro ancora. 

Di fatto, la fine dei conglomerati è soltanto una leggenda. Sono solo diventate più eleganti, con un tocco di Silicon Valley, e meno formali ai piani alti, con i dirigenti che girano per gli uffici in scarpette da ginnastica. Amazon è solo uno dei conglomerati della nuova economia. Alphabet, società madre di Google, ne è un altro esempio e anche Facebook è sul punto di diventarlo. 

Come è noto, Michael C. Jensen, professore emerito della Harvard Business School, ottenne ampi consensi quando constatò, negli anni ’70 e ’80, che conglomerati come RJR, proprietaria di marchi di tabacco, e Nabisco, un’impresa agroalimentare, sprecavano “miliardi a causa di spese improduttive e inefficienze organizzative”. 

Molto probabilmente lo stesso vale anche per gli odierni conglomerati tecnologici, che stanno spendendo, e spesso perdendo, decine di miliardi di dollari ogni anno in progetti e acquisizioni di tutti i tipi, le cui prospettive di successo sono una vera e propria scommessa. Tuttavia, gli investitori sembrano decisi a dare carta bianca a questi colossi in nome della crescita e dell’innovazione, almeno per ora. 

Il ciclo naturale dei conglomerati 

Se c’è una lezione da imparare dall’ultima generazione di conglomerati industriali è che la maggior parte di essi segue un ciclo naturale, che di solito inizia così: una società che sta avendo successo in un certo settore diventa un conglomerato investendo i suoi profitti nello sviluppo o nell’acquisizione di altre attività, prima quelle che le assomigliano di più, poi sempre più diverse, continuando a comprarne una dopo l’altra. 

Finché questa macchina funziona va tutto bene, ma quando una delle leve principali si rompe o si blocca, l’intera società si trova sotto pressione e gli azionisti cominciano a dire che le singole parti varrebbero di più singolarmente che insieme. “Guardate le società che sono diventate veramente grandi in tutto il mondo, i risultati sono quello che sono”, ha detto anni fa agli investitori Charles Thomas Munger, vicepresidente di Berkshire Hathaway, il conglomerato più grande al mondo. 

Il suo socio, l’ultraottantenne Warren Buffett, ha lasciato di stucco gli azionisti, dichiarandosi convinto che le azioni di Berkshire saliranno subito dopo la sua morte, perché la società sarà segmentata e quindi varrà di più. Buffett e Munger sono convinti che per Berkshire sia meglio rimanere intatta, ma Buffett pensa che gli investitori crederanno istintivamente il contrario. 

Che succederà ai nuovi conglomerati? 

Quando si tratta di Amazon (o di Alphabet o di un qualsiasi dei nuovi conglomerati), la questione è se ci sia qualcosa di intrinsecamente diverso in questo tipo di società, dal momento che hanno come base l’informazione digitale, soprattutto quando intraprendono progetti complessi come le catene di supermercati reali di alta qualità. 

In un’epoca di big data e intelligenza artificiale, c’è una reale affinità fra attività che appaiono così diverse? Può la direzione di una sola azienda essere in grado di gestire così tante attività? A che punto diventano troppo difficili da tenere sotto controllo? Uno dei dieci principi fondamentali di Google va contro il concetto di conglomerato: “È meglio fare una sola cosa e farla molto, molto bene”. 

Sorvolando sul fatto che una massima del genere si addiceva meglio a Google di dieci anni fa che all’Alphabet di oggi, di certo quest’idea non ha impedito alla società di allargarsi ampiamente oltre il motore di ricerca e la pubblicità. Alcuni progetti, fra cui Android, YouTube, Waimo, Nest Labs, le auto che si guidano da sole e i palloni aerostatici a elio, hanno avuto più successo di altri e la maggior parte di essi è stata accolta sotto l’ala di Google per mezzo di acquisizioni, a riprova di come l’azienda abbia investito gli enormi profitti della pubblicità per finanziare iniziative di ogni tipo. 

Anche Facebook sta allargando la sua offerta allo stesso modo. Ha comprato Instagram, WhatsApp e Oculus VR. Amazon ha acquistato ha acquistato Audible, Goodreads, Twitch, Grabiq e Whole Foods e altre 78 società in men0 20 anni. Per ora non ci sono segnali evidenti che questa tendenza alla diversificazione stia danneggiando Alphabet, Facebook o Amazon. 

Al contrario, un articolo uscito recentemente sul Yale Law Journal afferma in modo piuttosto convincente che Amazon abbia costruito quella che potrebbe essere la migliore “trappola economica per topi”, cioè un contesto immune al ciclo naturale dei conglomerati e anche dalla dalla concorrenza. 

L’autrice, Lina Khan, studiosa delle strutture del mercato e della concorrenza, afferma che Amazon ha creato un “mercato delle piattaforme” e che sfrutti le sue dimensioni per finanziare nuove attività proponendo prezzi spietatamente bassi. Scrive in proposito Lina Khan: “Questo tipo di economia incentiva le aziende a investire nella crescita, una strategia che è stata premiata dagli investitori. Se si parte da questo presupposto, i prezzi competitivi hanno perfettamente senso, sebbene siano considerati irrazionali e dunque inverosimili”. 

Rincarando la provocazione, l’autrice afferma che il ruolo di Amazon quale fornitore di beni e di servizi di cloud computing rappresenti un grosso svantaggio per gran parte della concorrenza. Scrive: “Questa doppia funzione consente alla piattaforma di sfruttare le informazioni raccolte sulle altre società al fine di ostacolarle”. 

Amazon e l’antitrust 

Le autorità di controllo (negli Stati Uniti, ma non in Europa) hanno smesso di dare noia ad Amazon per la sua politica di riduzione generale dei prezzi, poiché non si tratta di un monopolio naturale. “È possibile che i prezzi siano ‘troppo bassi’?”, dice il sito della Federal Trade Commission, “Ovviamente sì, ma non tanto spesso”. 

Sulla pagina in questione, l’agenzia spiega la posizione del governo in merito: “La decisione indipendente di un’impresa di abbassare i prezzi al di sotto dei suoi stessi costi non nuoce necessariamente alla concorrenza, anzi, potrebbe essere semplicemente lo specchio di una concorrenza particolarmente vigorosa”. 

Può anche darsi, ma nel caso di Amazon la società ha il potenziale per diventare così dominante in così tanti settori che il suo impatto potrebbe superare il semplice calo dei prezzi, potrebbe addirittura far chiudere le altre aziende. Se dovesse accadere, questa nuova generazione di conglomerati della Silicon Valley potrebbe diventare più potente e resiliente rispetto a quella del XX secolo. 

Se Amazon dovesse sfruttare Whole Foods, oltre agli altri profitti, per abbassare i prezzi al punto da mettere sul lastrico società come Walmart, con il suo milione e mezzo di dipendenti negli Stati Uniti, il risultato sarebbe forse positivo? O è semplicemente il decorso naturale del capitalismo? 

La visione del CEO di Amazon, Jeff Bezos, è chiara. L’uomo che sta costruendo il conglomerato più temibile del xxi secolo ha spiegato in questo modo la sua idea di concorrenza: “I vostri limiti sono le mie opportunità”.

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