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Alfa Romeo di Arese: 30 anni fa arrivò la Fiat, oggi c’è un centro commerciale

La storia sindacale dell’Alfa di Arese è paradigmatica – Al contrario di quanto avvenne all’Alfa di Pomigliano, nella fabbrica automobilistica milanese la bassa produttività e l’antagonismo sindacale continuarono anche dopo il passaggio della proprietà dall’Iri alla Fiat e per Arese il declino divenne ineluttabile – Ecco come andò e perchè

Alfa Romeo di Arese: 30 anni fa arrivò la Fiat, oggi c’è un centro commerciale

Trenta anni fa, nel gennaio 1987, la Fiat acquisiva dalle Partecipazioni Statali l’azienda Alfa Romeo, con le sue due realtà storiche, l’Alfa di Arese e l’AlfaSud di Pomigliano d’Arco. Mentre i lavoratori ed il sindacato di Pomigliano accoglievano con favore il passaggio ( come disse allora il segretario del sindacato napoletano riprendendo un vecchio detto popolare “o Franza o Spagna purché se magna”), ad Arese si radicalizzava una opposizione sindacale alla paventata “omologazione” Fiat nelle relazioni sindacali di fabbrica, una opposizione che in pochi anni avrebbe portato al graduale spegnimento dello stabilimento, avvalorando la tesi di chi ritiene che una delle principali cause della scomparsa della grande industria nel nostro Paese sia stato proprio il sindacato stesso.

All’Alfa di Arese, come nelle altre grandi fabbriche di Milano, la Magneti Marelli, la OM, la Sit-Siemens o la Pirelli, a partire dagli anni settanta e sino ai primi anni ottanta, non passa anno che non vi sia una vertenza sindacale con le relative forme e dosi di conflittualità: picchetti, cortei interni, violenze sui capi. Un inferno che per molto tempo verrà sottovalutato o non percepito all’esterno dall’opinione pubblica e dalle forze politiche e sociali.

Per tutto questo tempo la conflittualità e l’antagonismo saranno i valori su cui si ispireranno i sindacalisti, i “signori dello sciopero” come furono definiti da un illustre giornalista. Il sistema di rappresentanza sindacale si baserà sui principi di democrazia diretta con i delegati, riuniti nel “consiglio di fabbrica”, eletti dai lavoratori del proprio gruppo omogeneo con procedure non formalizzate e molto approssimative (la pratica più diffusa era far girare sulle linee dei bigliettini su cui scrivere il nominativo da eleggere): il sindacato ufficiale provvedeva poi a dare loro la copertura legale (rappresentanti sindacali aziendali o membri dei direttivi provinciali) per poter fruire dei permessi retribuiti previsti dallo Statuto dei Lavoratori e dal Contratto Nazionale di categoria.

Al momento del passaggio in Fiat, ad Arese circa mille operai con la “copertura” di delegati, su un organico complessivo di !8.000 lavoratori, poteva fruire dei permessi sindacali retribuiti. Mentre le lotte operaie si inasprivano e gli scioperi si moltiplicavano, prendeva corpo anche ad Arese un altro dramma, il più grave di tutti, il terrorismo brigatista con attentati incendiari nei reparti di verniciatura e di carrozzatura oltre a gambizzazioni e sequestri di dirigenti: soltanto nel 1983 veniva debellata la colonna armata dell’Alfa.

L’esasperata conflittualità interna e un livello di bassissima produttività (35/40 punti percentuali in meno rispetto allo standard europeo), in una situazione strutturale di dimensioni e volumi insufficienti per sostenere la competitività internazionale, portano l’azienda Alfa Romeo, nel corso degli anni, ad una serie di bilanci negativi continuamente ripianati dallo Stato. A quel tempo si era soliti dire che ogni Alfa prodotta costasse al cittadino contribuente oltre un milione e mezzo di lire.

Per evitare il definitivo collasso la Finmeccanica, l’allora finanziaria dell’IRI per il settore meccanico, decide nel 1986 di privatizzare la sua controllata Alfa Romeo, le cui perdite in corso d’anno ammontavano ormai a circa il 18% del fatturato. A farsi avanti è l’americana Ford, interessata a rafforzare, anche con un insediamento produttivo, la propria posizione sul mercato italiano, che in quegli anni era il secondo mercato automobilistico europeo, rilevando la quota del 7 per cento dell’Alfa e contemporaneamente lanciare una sfida alla Fiat, leader del mercato nazionale con oltre il 60 per cento di quota, che non più tardi di un anno prima aveva tentato di acquisire la succursale europea della Ford stessa.

Il piano Ford, sostenuto dalla sinistra e dal sindacato milanesi, prevedeva di rilevare soltanto lo stabilimento di Arese, non avendo manifestato interesse allo stabilimento di Pomigliano, senza più prodotto e con oltre 4.000 operai sospesi a zero ore e a tempo indeterminato. È a fronte della presentazione del piano Ford che inizia una serie di pressioni del sindacato romano, di esponenti del PCI torinese, della Democrazia Cristiana campana affinché anche la Fiat presenti un piano di acquisizione dell’Alfa Romeo che salvaguardi l’intero complesso aziendale.

Nel novembre 1986 il CIPI, valutata la proposta Fiat, delibera, nell’interesse dell’economia nazionale, la cessione alla Fiat stessa dell’intero complesso aziendale facente capo all’Alfa Romeo, e cioè, oltre agli stabilimenti automobilistici di Arese e Pomigliano d’Arco, anche l’ex Arna di Avellino, la società Arveco di veicoli commerciali sempre a Pomigliano, e quelle componentistiche della Spica di Livorno e della Merisinter di Arzano in provincia di Napoli.

Dopo una laboriosa trattativa, nel maggio 1987 la Fiat firma un accordo sindacale nazionale basato sulla logica dello scambio: l’azienda si impegna, con la realizzazione di un piano industriale di consolidamento e rilancio, ad eliminare negli stabilimenti ex Alfa la cassa integrazione e rioccupare il personale sospeso, mentre il sindacato nazionale dà il suo consenso alla definizione di norme che permettano di raggiungere un livello di produttività allineato a quelli delle altre industrie automobilistiche europee, oltre a una regolamentazione dei diritti sindacali e dei rapporti in azienda analoga a quella vigente negli altri stabilimenti Fiat.

L’accordo sindacale viene sottoposto al vaglio dei lavoratori tramite referendum: i lavoratori di Pomigliano e delle altre società acquisite lo approvano a larga maggioranza, mentre i lavoratori di Arese lo bocciano se pur di stretta misura. Il risultato di Arese rafforzerà l’atteggiamento contrario all’accordo nazionale del sindacato milanese, arroccato nella difesa del “diverso modo di fare l’automobile” attraverso i gruppi di produzione, che invece avevano rappresentato uno dei fattori del gap di produttività.

In massima parte infatti i differenziali di produttività connessi alla prestazione lavorativa erano imputabili alla organizzazione del lavoro, secondo la quale i tempi di lavoro applicati non erano quelli determinati da una metodologia scientifica, bensì quelli che di fatto venivano accettati dai lavoratori nel gruppo di produzione: in questo modo il gruppo di produzione con la produttività più bassa condizionava al ribasso la quantità di lavoro degli altri gruppi, creando l’effetto del convoglio lento che determina la velocità del treno.

L’atteggiamento conflittuale del sindacato di Arese resta dunque identico rispetto al passato. Continueranno gli scioperi contro l’applicazione dell’accordo nazionale, con i relativi corollari di cortei interni ed invasione di uffici. La cronaca registrerà anche momenti di tensione, che vedono protagonisti “delegati” sindacali, cui l’azienda risponde con alcuni licenziamenti disciplinari su cui si innescherà un intricatissimo contenzioso giudiziario, risolto solo dopo alcuni anni dalla Suprema Corte con la conferma dei licenziamenti stessi.

Alla strada maestra del confronto sindacale, il sindacato antagonista opterà per quella della autotutela e del ricorso alla Magistratura, con un comportamento che può essere riassunto, in modo sintetico, così: quando non accetto le regole del gioco mi faccio ragione da solo; se l’azienda mi sanziona ricorro al magistrato; se il magistrato mi dà torto è asservito alla Fiat; se il magistrato mi dà ragione è un atto di giustizia; se i magistrati di grado successivo mi danno torto allora esprimono un giudizio “politico”.

Su Arese si verifica infine anche l’ultimo scontro del PCI con la Fiat. I rapporti del Pci con la Fiat, dal secondo dopoguerra e sino al suo scioglimento, sono sempre stati caratterizzati da periodi, più o meno lunghi, di duro confronto e scontro: basti pensare all’isolamento degli attivisti comunisti nelle cosiddette “officine stella rossa” degli anni 50, al processo per le schedature “politiche” dei primi anni 70 o al sostegno dato nella vertenza dei 35 giorni dell’autunno 80 a chi propugnava l’occupazione di Mirafiori.

L’arrivo della Fiat ad Arese mette in crisi il ruolo dei rappresentanti della sezione del partito in fabbrica, abituati, nella gestione statale precedente, a dialogare “politicamente” con la struttura aziendale. A fine dicembre 1988, con una violenza inusitata (pari solo a quella lanciata dalla Fiom oltre vent’anni dopo) il PCI, nella sua ala operaista, sferra l’attacco alla Fiat, accusata di presunte violazioni delle libertà sindacali e di discriminazione all’Alfa di Arese.

Il Partito Comunista, partendo da alcuni casi dimostratisi successivamente infondati (tra cui uno riguardante il segretario della sezione di fabbrica) ma proposti all’opinione pubblica tramite i mass media (37 articoli in 20 giorni sull’Unità e una intera puntata di Samarcanda sulla RAI TV), orchestra una campagna di denuncia contro l’azienda accusandola di comportamento antisindacale. L’accusa specifica fu di discriminare gli iscritti al sindacato nella gestione della meritocrazia e di sollecitare le dimissioni dal sindacato offrendo aumenti di salario.

I dati emersi dall’ispezione ministeriale dimostrarono il contrario e la campagna stampa si concluse quando il Ministro del Lavoro dichiarò che non esisteva un disegno strategico di antisindacalità da parte dell’azienda. Questo complicato scenario politico-sindacale convinse peraltro la Fiat a desistere dal progetto di concentrare ad Arese la produzione delle vetture grandi dei suoi marchi (Alfa 164, Lancia Thema e Fiat Croma).

Ad Arese furono destinate le produzioni dei modelli fine serie (come la Y10) o di nicchia (come la Multipla a metano) sino agli inizi degli anni 2000 quando cessò ogni tipo di produzione. Oggi sull’area industriale di quella che fu una delle più grandi fabbriche italiane sorge uno dei maggiori centri commerciali d’Europa.

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