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Aldo Bonomi: “Nel post-Covid la smart city diventerà smart land”

INTERVISTA AD ALDO BONOMI, sociologo e fondatore di Aaster – “Il Covid ci riporterà al modello rinascimentale, all’Italia delle 100 città e al rapporto stretto tra città e territorio” – “Si ridisegneranno gli spazi urbani ma anche le reti, i trasporti, le piattaforme produttive, con uno spostamento dal centro alla periferia che ci cambierà la vita”.

Aldo Bonomi: “Nel post-Covid la smart city diventerà smart land”

“Il Covid ci riporterà al modello rinascimentale, all’Italia delle 100 città, al rapporto stretto tra città e territorio. O meglio, per dirla con lo storico Fernand Braudel, al rapporto funzionale tra la ricca città e la florida campagna”. A commentare i nuovi paradigmi di vita sociale ed economica italiana in tempi di coronavirus è il sociologo Aldo Bonomi, fondatore del consorzio AASTER ed esperto di dinamiche territoriali urbane ed extra-urbane, oltre che docente universitario e collaboratore di diverse testate, tra cui il Sole 24 Ore per il quale cura da anni la rubrica “Microcosmi”. E’ stato proprio lui a teorizzare, ben prima dell’epidemia, la smart land come evoluzione della smart city, sull’esempio del Rinascimento italiano: “La stessa parola “Comune”, secondo un altro grande storico, Jacques Le Goff, è nata in Italia. Il modello post-Covid non saranno più le megalopoli ma si assisterà ad uno spostamento dal ‘pieno’ al ‘vuoto’, dal centro alla periferia. Il virus ci porterà a ridisegnare gli spazi urbani ma anche le reti, i trasporti, le piattaforme produttive”.

Professore, il Covid sta accelerando le dinamiche territoriali da Lei teorizzate?

“Se avessimo fatto questa intervista un anno fa, avremmo parlato di metropolizzazione, di città-Stato, di smart city. Ora invece sembra evidente che non c’è smart city senza smart land. Al centro dell’attenzione non c’è più il ‘pieno’ metropolitano ma anche il ‘vuoto’ del territorio circostante. C’è un intreccio tra la dimensione urbana e la dimensione territoriale. E non sto parlando solo di telelavorare dalla casa in campagna, quanto della riscoperta di una dimensione territoriale. Ad esempio nella stessa lotta al virus abbiamo visto l’importanza della medicina di prossimità, di una rete sanitaria orizzontale, alla veneta, e non troppo verticalizzata come quella lombarda. E poi abbiamo capito che il territorio è lo spazio del buon vivere, della qualità della vita, della green economy”.

Che cosa intende per ‘pieno’ e ‘vuoto’?

“Che il virus ci costringerà a ridisegnare le forme urbane. Il problema finora è stato nel ‘pieno’, nel ‘centro’, lì dove c’è tutto: in Francia il livello di allarme più alto è nell’Ile de France, la regione di Parigi. Nel territorio invece c’è invece un ‘vuoto’ di spazio, inteso non solo in senso demografico ma proprio di funzioni, di reti, di piattaforme produttive. Torneremo ad un modello che per l’Italia è familiare: quello del Rinascimento, dei piccoli Comuni, delle città di medie dimensioni, delle città-distretto, legate appunto alle attività economiche. Eviteremo le concentrazioni, preferendo la pluralità dei modelli abitativi e di sviluppo”.

Sta parlando di delocalizzazione?

“Non solo, non è quello il discorso. Si tratta di ridisegnare spazi urbani e modelli di convivenza. Per forza di cose, visto che abbiamo avuto molti problemi nel ‘pieno’, con i contagi e la crisi che hanno colpito duro, tenderemo a cercare il ‘vuoto’, con nuovi paradigmi che sono tutti da definire e che si potranno collegare al green new deal, ad esempio. Prevarrà la cultura del margine: il modello non saranno più le megalopoli ma la prossimità di risorse fondamentali come acqua, verde, aria pulita. Lo abbiamo visto anche quest’estate durante le vacanze: moltissimi italiani, molti più del solito, hanno scelto la montagna e la campagna”.

Non solo per le vacanze: dopo decenni di migrazioni dalla campagna alla città, sembra che la possibilità di lavorare da remoto stia invertendo la tendenza: si può parlare di contromigrazione?

“Non proprio, perché il fenomeno non riguarda solo le forme dell’abitare. Il punto non è banalmente quello di lasciare il centro per occupare gli spazi vuoti sul territorio. Non si tratta di dire “vado a vivere in campagna e faccio il telelavoro”. Si tratta proprio di ridisegnare le piattaforme produttive, ad esempio con la green economy, che sta creando nuovi modelli economici. Teniamo però sempre presente che le città continueranno ad avere un ruolo importante. Come diceva Braudel, si tratta di creare un legame tra la città ricca e la campagna florida”.

Lei in uno dei suoi libri ha già parlato di smart land come evoluzione della smart city e ne ha scelto come simbolo la Resurrezione di Piero della Francesca, esposta a Sansepolcro. Perché proprio quel quadro, e oggi la metafora sarebbe ancora attuale?

“Il dipinto di Piero della Francesca è la metafora potente del concetto di smart land perché sullo sfondo c’è la dimensione del paesaggio, fatto appunto di ‘vuoto’, e perché si trova a Sansepolcro, simbolo di quell’Italia fatta di tante piccole comunità operose. Sansepolcro non è la smart city, non è Roma o Firenze, ma è la smart land, ovvero uno dei tanti esempi di città ricca e campagna florida di quel periodo. L’opera è certamente ancora attuale, intanto perché si parla di ‘resurrezione’, che è quella alla quale ora dobbiamo ambire come Paese, nel ripartire dopo la pandemia. Tra l’altro il fatto che stiamo parlando di pittura e il periodo storico in questione ci riportano al concetto di Umanesimo digitale”.

La Resurrezione di Piero della Francesca

Che cosa intende?

“Siamo abituati a una tecnologia fatta di algoritmi, che rimane nelle mani di pochi colossi digitali. Sarebbe ora di far ‘atterrare’ questi strumenti, di fare in modo che il controllo su di essi sia diffuso e condiviso. Pensiamo ad esempio all’e-commerce: deve rimanere in mano solo all’astronave o è giusto che l’astronave atterri e il controllo dello strumento lentamente arrivi ai territori e alle comunità, che poi vi si adeguano?”.

Il Covid ha sdoganato lo smart working: secondo lei è solo un bene o questo crea anche controindicazioni nei rapporti sociali, familiari, e nel rapporto con l’ambiente domestico?

“Se viene inteso solo come telelavoro diventa un problema, perché crea alienazione e sfruttamento. Invece deve produrre senso e ricchezza, quindi essere interpretato come un nuovo modo di comunicare. Ma sul lavoro farei anche altre due riflessioni. Il Covid ci ha fatto scoprire la centralità dei lavoratori dell’ultimo miglio: durante il lockdown abbiamo capito il valore dei tecnici che manutenevano gli impianti di luce e gas, dei commessi dei supermercati, dei lavoratori della filiera alimentare, delle consegne a domicilio. E poi abbiamo finalmente realizzato che il welfare state non arriva dappertutto: in Italia c’è una filiera degli invisibili, della quale dovremmo iniziare ad occuparci”.

E la scuola, di cui tanto si parla in questi giorni?

“Le citerò un altro mio libro, sul capitalismo molecolare. A fronte del fordismo, che un secolo fa rappresentava il ‘pieno’, avevamo iniziato a riempire il ‘vuoto’: e quindi capannoni industriali che si allargavano nel territorio intorno alla città, e i cosiddetti distretti. Ora serve costruire distretti sociali evoluti, cioè spazi territoriali dove ci sono le scuole, dove ci sono i servizi, dove c’è il medico di base. Si tratta di creare quello che chiamerei welfare di comunità: una sfida epocale, per la quale andrebbe usata buona parte dei soldi del Recovery Fund”.

Per concludere, professore, una domanda ricorrente: secondo Lei il Covid ci sta rendendo una comunità migliore, come ci si auspicava mesi fa, o al contrario le difficoltà stanno facendo emergere gli individualismi?

“Per dirla con il filosofo Roberto Esposito, il virus ha reso evidente sui nostri corpi la polarizzazione communitas-immunitas. Polarità che abbiamo definito distanza sociale confondendo distanza fisica con la ‘voglia di comunità’, che anzi è aumentata. Sia nei suoi aspetti negativi (rancore, chiusura, rinserramento), ma anche per fortuna nelle polarità della comunità di cura, cioè medici, infermieri, volontariato, e nelle riflessioni su una comunità operosa, sul dibattito intorno alla ripartenza economica, che venga adeguata ai tempi della crisi ecologica e pandemica. Dalla alleanza tra cura ed operosità emergono tracce di speranza”.

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