Condividi

ACCADDE OGGI – Lo Statuto dei lavoratori ha 50 anni

Il 20 maggio del 1970 la Camera dei deputati approvava in via definitiva la legge 300, passata alla storia come lo Statuto dei lavoratori, progetto avviato dal ministro socialista del Lavoro Brodolini e concluso dal ministro democristiano Donat Cattin con la preziosa consulenza del giuslavorista Gino Giugni

ACCADDE OGGI – Lo Statuto dei lavoratori ha 50 anni

In questa giornata, esattamente cinquant’anni  or sono, la Camera dei deputati approvava in via definitiva la legge n.300/1970, passata alla storia dei rapporti civili e sociali e delle relazioni industriali, con il nome di Statuto dei lavoratori.

Lo Statuto, aveva iniziato l’iter legislativo al Senato (per la cronaca, la Camera Alta, che ha rischiato di essere abolita per ‘’semplificare le istituzioni’,’ è sempre stata nell’Italia repubblicana la principale protagonista nel varo delle leggi più significative). In via definitiva il provvedimento venne approvato dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra – DC, PSI e PSDI unificati nel PSU, PRI – con l’aggiunta del PLI, al tempo all’opposizione); si orientarono per l’astensione PCI, PSIUP e MSI e si registrarono dieci voti contrari, provenienti non si sa da chi. Essendo il quorum della maggioranza assoluta alla Camera di 316 voti, la maggioranza relativa che consentiva comunque l’approvazione della legge, fu resa possibile dall’astensione delle opposizioni, a partire dai gruppi più consistenti della sinistra.

L’esito del voto sta a dimostrare che – nel dibattito che preparò e accompagnò il percorso legislativo di una legge che nei decenni futuri fu santificata proprio dalle sinistre e dalle organizzazioni sindacali – esistevano delle divergenze di impostazione. Una parte della sinistra non vedeva di buon occhio l’impronta innovativa di una legislazione di sostegno delle organizzazioni sindacali. Soprattutto la Cgil, sotto l’influsso delle teorie dei giuslavoristi della scuola dei ‘’costituzionalisti’’ di Ugo Natoli (fondatore della storica Rivista giuridica del lavoro, vicina alla Confederazione di Corso d’Italia), ritenevano che dovessero essere riconosciuti i diritti dei lavoratori nel luogo di lavoro, non solo quelli sindacali, ma anche quelli politici. A loro Gino Giugni che era stato il principale protagonista dell’iniziativa fin da quando il ministro socialista Giacomo Brodolini lo aveva nominato, prima di  morire nel luglio del 1969, presidente di  una commissione incaricata di predisporre un testo.

Era stato poi il democristiano Carlo Donat Cattin, succeduto a Brodolini, a portare a termine il progetto, sia pure con la determinate assistenza di Gino Giugni, che era stato riconfermato da Donat Cattin come capo dell’Ufficio legislativo del Dicastero.

Si ricorda un apprezzamento critico di Giugni nei confronti delle richieste di coloro che insistevano per introdurre nell’articolato anche i c.d. diritti politici dei lavoratori: “Ognuno è libero di leggere il quotidiano che desidera, ma non può farlo durante l’orario di lavoro“. È pur vero che per quanto riguarda il ‘’Titolo II Delle libertà sindacali’’ la legge n.300 in pratica recepiva quanto era stato conquistato delle federazioni di metalmeccanici nello storico rinnovo contrattuale del 1969, in pieno ‘’autunno caldo’’ (anche se la sottoscrizione avvenne pochi giorni prima di Natale). Ed era in questa parte della legge il cuore della legislazione promozionale, in quanto i diritti venivano riconosciuti in generale alle organizzazioni sindacali esterne (diritto di assemblea in orario di lavoro, locali, affissioni, distribuzione del materiale sindacale all’intero dell’azienda, contributi sindacai, accesso dei patronati, aspettativa e permessi per dirigenti sindacali, ecc.) al posto di lavoro e attraverso questa intermediazione, ricadevano sui lavoratori. Il pezzo pregiato della legislazione promozionale si trovava nell’articolo 28 che attribuiva al sindacato il ricorso al giudice per chiedere la cessazione di un comportamento antisindacale ad opera del datore di lavoro. Ma la bandiera dello Statuto è stato per decenni l’articolo 18 “reintegrazione nel posto di lavoro’”, che introduceva, in via generale, salvo che nelle piccolo imprese, una normativa di tutela reale in caso di licenziamento giudicato  illegittimo.

Per cambiare questo articolo è stata combattuta una sorta di guerra civile, attraverso referendum con effetto abrogativo o estensivo, scioperi ‘’generalissimi’’, manifestazioni epocali, mentre qualche vittima innocente è finita sul selciato crivellata di colpi di pistola. Oggi lo stesso articolo è stato novellato in sede di legge n.92 del 2012. Poi con il dlgs n. 23 del 2015 (nel quadro del jobs act) è stato introdotto in materia di licenziamento illegittimo un diverso regime, parallelo e non sostitutivo della disciplina generale del articolo 18 novellato, ma più flessibile: il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, che può essere applicato  unicamente agli assunti a partire dal 7 marzo del 2015.

Volendo approfondire il discorso con onestà intellettuale si potrebbero condividere, tra tutti gli interessati, alcune modifiche, oltre a quelle, importanti, già apportate: all’articolo 4  sui controlli audiovisivi, all’artico 13 a proposito della liberalizzazione di taluni criteri dell’esercizio dello ius variandi e dei loro effetti. Ma la modifica più radicale è stata apportata – per via referendaria – all’articolo 19. Ne è derivata la demolizione dei criteri intorno ai quali il sistema sindacale aveva trovato un equilibrio sostanziale ed un profilo giuridico, corredato dal sostegno della legge, alle grandi questioni della rappresentanza e della rappresentatività, al di fuori da quanto disponeva l’articolo 39 Cost.

Si trattava, in pratica, di una tautologia: la premessa riconosceva il diritto di istituire RSA alle organizzazioni firmatarie dei contratti  in quanto maggiormente rappresentative. Ma quali erano i criteri che davano diritto all’attribuzione di una maggiore rappresentatività? Era sufficiente che quelle associazioni sindacali stipulassero i contratti collettivi. In breve: io sindacato sono maggiormente rappresentativo perché sottoscrivo i contratti collettivi, ma posso farlo proprio perché sono maggiormente rappresentativo. Siamo ancora fermi a questo punto, salvo l’introduzione di un altro avverbio di modo per definire la rappresentatività: comparativamente. Ed è difficile uscirne senza far ritorno alle origini: a dare applicazione all’articolo 39 della Costituzione dopo averlo  resuscitato dal sepolcro riportando così indietro di decenni  l’assetto delle relazioni industriali. 

Commenta