Condividi

ACCADDE OGGI – Lama, il sindacalista che ci manca: 25 anni fa l’addio

Venticinque anni fa moriva Luciano Lama, l’indimenticabile segretario generale della Cgil che ancora oggi molti rimpiangono per la sua linea unitaria e appassionatamente riformatrice che puntava a conciliare gli interessi dei lavoratori con l’interesse generale dell’Italia

ACCADDE OGGI – Lama, il sindacalista che ci manca: 25 anni fa l’addio

Venticinque anni or sono da oggi moriva a Roma, dopo una lunga malattia, Luciano Lama, il leader sindacale che ha segnato un’epoca, uno spartiacque, nella storia del movimento operario italiano. Giuseppe Di Vittorio che lo volle giovanissimo al suo fianco (come vice segretario della Confederazione), nel 1946, quando Lama era segretario di nomina CLN della Camera del Lavoro di Forli. In Cgil Lama ha attraversato quarant’anni di storia sindacale, riuscendo a rinnovarsi e ad adattarsi ai cambiamenti. Il curriculum sindacale di Luciano Lama ha finito per sottolineare l’ultimo e più importante incarico ricoperto: quello di segretario generale della Cgil. Lama ha svolto questo ruolo per circa 16 anni (dal 1970 al 1986) ed è in tale funzione che gli italiani lo hanno conosciuto. Ma prima di arrivare al vertice della Confederazione di Corso Italia, Lama – in precedenza – era stato per molti anni nella segreteria confederale; prima ancora, aveva trascorso qualche anno come leader della Fiom, dopo essere stato segretario generale dei chimici. Aveva lasciato la guida della confederazione, nell’ormai lontano 1986.

Poi era stato vice presidente del Senato (vicario di Giovanni Spadolini) e, prima di ritirarsi per la grave malattia che ne causò il decesso , sindaco di Amelia, dove aveva scelto, insieme alla famiglia, il suo ‘’buon ritiro. Ma se si vuole raccontare la storia del sindacato  diventa obbligatorio parlare di lui. Lama è il leader che ha imposto il sindacato tra i grandi protagonisti della vita del Paese e lo ha reso familiare agli italiani, al pari di ogni altra realtà appartenente alla loro normale quotidianità. Naturalmente, tali processi dipendevano da un complesso di fattori non tutti riconducibili al carisma e alla personalità di Lama. Anche lui, come tutti, era figlio del suo tempo. All’inizio degli anni ’70, quando Lama divenne segretario della Cgil, dietro la riscossa del sindacalismo confederale c’era lo strappo dell’autunno caldo (del 1969), con le sue conquiste immediate e di prospettiva e soprattutto con quel saldo rapporto di fiducia che il movimento sindacale era riuscito a stabilire con i lavoratori, ricavandone un prestigio ed una forza organizzativa senza precedenti.

Si era consumata, in quella fase, una devastante rottura di tutti gli equilibri, politici, economici e nei rapporti tra le classi sociali. Sembrava a portata di mano un profondo rivolgimento degli ordinamenti istituzionali. E ciò creava forti timori in molti settori della società italiana. Luciano Lama ebbe la capacità sia di garantire i lavoratori e di preservare la loro fiducia nell’azione riformista, graduale ed evolutiva del sindacato (contro tutte le suggestioni rivoluzionarie che poi sfociarono, come schegge impazzite, nella lotta armata e nel terrorismo che Lama contrastò con assoluta determinazione), sia di dare al Paese la certezza che la situazione era sotto controllo, in mano a persone responsabili e consapevoli, che non avrebbero permesso salti nel buio. Questo è un aspetto poco approfondito dell’azione di Luciano Lama. Si parla tanto , nel centenario della fondazione del Pc d’Italia (poi divenuto Pci) del ruolo di Palmiro Togliatti come protagonista, nell’immediato dopoguerra, di una  conversione istituzionale del Partito comunista all’interno delle regole democratiche. In verità, la linea di condotta del segretario comunista fu piena di ambiguità e di doppiezze; non c’è dubbio, però, che Togliatti fu il primo artefice di quella “lunga marcia” nel cuore dello Stato che consentì al suo partito di governare anche dall’opposizione.

Lama si trovò a cavallo di un altro passaggio delicato. Se Togliatti dovette convincere i partigiani a cedere le armi e a rimandare la rivoluzione, Lama, vent’anni dopo, si incaricò di riportare sulla terra quella classe operaia che, nel 1969, aveva dato l’assalto al cielo. Di  Lama –  comunista amendoliano, migliorista, moderato, riformista anche se lui preferiva definirsi ‘’riformatore’’ – si possono scrivere voluminose biografie ricche di esperienze e di episodi che, nel bene come nel male, hanno intessuto la storia del Paese nel secolo scorso. Fu soprattutto un convinto protagonista di un grande impegno unitario, non da solo, ma insieme con gli altri ‘’giganti’’ della sua epoca, appartenenti alla Cgil e alle altre confederazioni sindacali. Ed è proprio quell’impegno – portato avanti in anni in cui il mondo era diviso in due fin all’interno dei posti di lavoro e delle famiglie stesse – a dare testimonianza del profilo incomprensibilmente rinunciatario, degli attuali gruppi dirigenti sindacali, eredi inadeguati dei loro ‘’padri nobili’. 

Lama ricorreva, spesso, a  metafore per spiegare la sua opinione. Parlava della sindrome di Tecoppa, un personaggio che pretendeva dal proprio avversario la più assoluta immobilità per poterlo infilzare comodamente. C’era, infatti, un “comune sentire” dei militanti comunisti, secondo il quale partner ed alleati erano giudicati “unitari”, nella misura in cui convenivano sulle loro scelte. Per Lama, invece, i “diversi da noi” esprimevano delle posizioni legittime, con le quali occorreva misurarsi paritariamente. Guai, dunque, a fare dei processi alle intenzioni degli interlocutori; bisognava avere per i loro meccanismi decisionali il medesimo rispetto che si pretendeva per i propri. La mediazione, per lui, era il sale della politica: quando insieme a Bettino Craxi volle commemorare Pietro Nenni alla sua scomparsa, si diffuse a lungo sul concetto caro al leader defunto di politique d’abord, il contrario del dogmatismo. Per Lama la mediazione doveva essere una sintesi ragionevole tra diversi punti di vista tutti egualmente rispettabili e senza pretese di egemonia. E l’unità della Cgil, poi, era un presupposto essenziale per un rapporto positivo anche con la Cisl e la Uil. Fu, però, a metà degli anni ’80, che l’organizzazione corse dei rischi gravissimi sul piano della tenuta unitaria.

Lama riuscì a sventarli, grazie anche all’aiuto dei suoi “aggiunti” socialisti: Agostino Marianetti (un grande dirigente purtroppo dimenticato e scomparso di recente), prima, e Ottaviano Del Turco, poi. Il passaggio critico della vita della Confederazione riguardò la vicenda, anch’essa archiviata, della c.d. scala mobile, un automatismo retributivo che contribuì a fare esplodere l’inflazione, a devastare le retribuzioni, a sconvolgere le gerarchie professionali, a determinare  un egualitarismo innaturale che ferì a morte il potere del sindacato come “autorità salariale”. E che mise a dura prova non solo l’unità sindacale, ma anche l’unità stessa della Cgil. Furono due anni terribili. Iniziarono nel febbraio del 1984 con il famoso “decreto di S. Valentino”, il provvedimento con cui il Governo Craxi intervenne sulla dinamica della scala mobile; l’anno successivo si svolse la battaglia referendaria promossa (e persa) dal Pci per l’abrogazione del decreto convertito in legge. Ambedue queste sfide – che spaccarono il Parlamento e la sinistra – si combatterono ad ogni livello nel Paese, ma la prima linea attraversava la Cgil, in cui le componenti (comunista e socialista) vivevano da “separate in casa”.

Tutto sommato, la costituzione materiale della Confederazione funzionò anche in quei mesi di assoluto black out. Quando, contro ogni aspettativa (a prova dell’esistenza di un paese migliore della sua classe politica) vinsero nettamente i No, il contraccolpo in Cgil fu pesante. Ma Lama impedì che il sindacato s’inviluppasse nelle polemiche e riprese in mano la situazione interna, riannodando nello stesso tempo, i rapporti con le altre confederazioni sindacali. E’ nei momenti particolarmente difficili che si misura la grandezza di un leader. Del resto, la grandezza dei leader è determinata dagli eventi che sono chiamati ad affrontare. Lama era nato a Gambettola il 14 ottobre del 1921 (quest’anno ricorre il centenario). Si era laureato in Scienze sociali a Firenze con Piero Calamandrei. Aveva partecipato alla seconda guerra mondiale. Dopo l’8 settembre del 1943 era passato nelle file della Resistenza nella sua Romagna, assumendo per la sua esperienza militare un ruolo di comando nelle Brigate Garibaldi ed insieme agli Alleati aveva partecipato alla liberazione di Forlì. Socialista della corrente fusionista era passato ben presto al Pci. 

Nella riunione del Partito in cui si decise, nel 1970, chi dovesse sostituire Agostino Novella (il successore di Di Vittorio, una personalità poco brillante ma che svolse un ruolo importante in un passaggio cruciale della vita della Cgil guidandola fuori dall’isolamento in cui era stata confinata dopo le scissioni) fu proprio Novella a proporre Luciano Lama anziché Rinaldo Scheda, anch’esso un personaggio storico ingiustamente dimenticato, che non si riprese mai da quella sconfitta. Scheda era  certamente preferito dall’apparato sindacale comunista, mentre Lama era pur sempre un amendoliano, quindi un ‘’destro’’. È significativa la motivazione della scelta compiuta da Novella: Lama sapeva tenere una propria  linea, anche in circostanze difficili;  mentre Scheda era più influenzabile dal contesto esterno  e dalle situazioni contingenti. A me l’idea che la leadership di una grande organizzazione si scegliesse in base a questi criteri mi rende ancora fiero di avervi appartenuto insieme a maestri di questa tempra e di aver imparato da loro.

Commenta