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ACCADDE OGGI – 10 anni fa moriva Giugni, uno dei padri dello Statuto dei lavoratori

Gino Giugni, da grande giurista quale fu, diede dignità scientifica al diritto del lavoro e, da collaboratore dei ministri Brodolini e Donat Cattin, legò indissolubilmente il suo nome allo Statuto dei lavoratori del 1970

ACCADDE OGGI – 10 anni fa moriva Giugni, uno dei padri dello Statuto dei lavoratori

“Causa del malessere è la constatazione che la dogmatica e il formalismo dominanti erano del tutto inadatti ad una concezione del diritto come progetto politico. Se tale consapevolezza è motivo di frustrazione nella fase iniziale di «resistenza alla scienza giuridica», nella fase successiva si trasforma in un incentivo per restituire allo studio del diritto natura e finalità di una “scienza pratica” muovendo dalla premessa che «il diritto del lavoro non è scritto né nel libro V del codice civile né nella Costituzione»; o non soltanto lì. Per questo, sentirà «l’esigenza di ripartire dalle origini». Un’esigenza che Gino Giugni asseconda e soddisfa dissotterrando le radici del diritto del lavoro anche a costo di sotterrarsi nei ripostigli meno frequentati delle biblioteche e di sporcarsi le mani, scavando l’immenso giacimento di risorse che, «per lo più ignorato nelle aule universitarie e nei tomi giuridici», è il prodotto sedimentato dall’ininterrotto bricolage dell’autonomia negoziale collettiva”. Chi scrive è Umberto Romagnoli nel suo saggio “Giuristi del lavoro nel Novecento italiano. Profili” (Ediesse, 2018). È un brano del profilo di un altro Maestro, Gino Giugni, di cui il 4 ottobre ricorre il decennale della scomparsa.

Ho voluto citare questo brano di un testo che descrive, con lo stile impareggiabile di Romagnoli, la vita e le opere di Giugni e che merita di essere letto dalla prima all’ultima parola, soprattutto da chi come il sottoscritto conobbe, lavorò e fu amico e compagno di Gino. Il brano, infatti, coglie il senso della svolta che Giugni seppe imprimere al diritto del lavoro, conferendo dignità scientifica al diritto sindacale, prima di allora confinato nella terra di nessuno del de jure condendo.

La Costituzione repubblicana, all’articolo 39, aveva ripristinato la libertà sindacale, definendo i criteri della rappresentanza e della rappresentatività dei sindacati e stabilendo le modalità con cui essi, soggetti di diritto privato, fossero in grado di negoziare contratti – anch’essi di diritto comune – applicabili erga omnes. Sull’impianto complessivo dell’articolo 39 è rimasta, così, molta polvere del regime fascista.

Il legislatore costituzionale invero, essendosi trovato a gestire la transizione dal regime alla democrazia e avendo a che fare, in materia di lavoro, con un impianto consolidato fatto di norme concretamente applicate nelle aziende, si limitò in larga misura a riformulare l’ordinamento previgente alla luce dei sacri principi della libertà e della democrazia; e a immaginarne – non era facile per quei tempi – una concreta operatività ispirata al pluralismo. Ma è rimasta visibile la sua preoccupazione di rivisitare in altre forme le questioni che il modello corporativo, a suo modo, aveva affrontato e risolto.

Durante il fascismo i sindacati erano praticamente una branca della pubblica amministrazione. Nell’Italia democratica riprendevano piena libertà, ma continuava a sussistere il problema di conferire loro una personalità giuridica (ancorché) di diritto privato, sottoposta al solo requisito di uno statuto interno a base democratica, al fine di definirne una precisa identità, secondo quanto dettato dalla legge ordinaria che avrebbe dovuto applicare la norma costituzionale. L’ambito della categoria come riferimento della contrattazione a quel livello rimaneva centrale come lo era stato nel precedente contesto in forza di un pregiudizio ideologico divenuto norma (il corporativismo, appunto, come forma di organizzazione dello Stato).

Infine, il legislatore costituzionale era ossessionato dall’esigenza di individuare un meccanismo che, persino in un contesto di possibile pluralismo sindacale, consentisse di conferire un’efficacia erga omnes ai contratti collettivi. Ma per una serie di motivi – tra cui la rottura dell’unità sindacale stabilita dai partiti nel Patto di Roma all’indomani della caduta del fascismo – la legge ordinaria – che prevedeva la formazione di rappresentanze unitarie sulla base degli iscritti di ciascuna organizzazione – non venne mai varata.

Così il diritto sindacale era confinato in qualche dispensa che spiegava il disegno di legge del ministro di turno, mentre nel frattempo i contratti collettivi restavano confinati nell’ambito del diritto comune, come considerati tali validi solo per i datori e i lavoratori iscritti alle organizzazioni stipulanti. Fu Gino Giugni nel suo fondamentale saggio del 1960 “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” ad accorgersi che un ordinamento sindacale esisteva nella realtà e ad individuarne i capisaldi, spezzando l’immobilismo delle “speranze deluse” nell’attesa messianica dell’attuazione della norma costituzionale e aprendo così una nuova prospettiva per il diritto del lavoro.

Scriveva, allora, Giugni a proposito dell’attività contrattuale parole destinate a cambiare la storia: “Un’attività che si è svolta nel precario contesto della legge comune dei contratti, è risultata viziata da mille insufficienze, ma è nondimeno costitutiva di un valido patrimonio di esperienze di ‘diritto vivente’” Giugni non fu soltanto un giurista di vaglia, il fondatore della scuola di Bari, in collaborazione stretta con l’amico Federico Mancini e la sua scuola bolognese.

Nel ruolo di stretto collaboratore del ministro Giacomo Brodolini e di Carlo Donat Cattin, dopo la scomparsa del primo, legò il suo nome allo Statuto dei diritti dei lavoratori nel 1970, a ridosso dell’autunno caldo. Fu vittima di un attentato da parte delle Br dove fu ferito seriamente. Di sé diceva di non sapere se fosse un professore prestato alla politica o il contrario. Fu senatore del Psi per diverse legislature, presidente della Commissione Lavoro; poi, ministro del Lavoro del Governo Ciampi nel 1993, quando curò e sottoscrisse (insieme alle parti sociali) il Protocollo che regolava la contrattazione collettiva. Ma il merito principale del Maestro rimane quello di aver fondato il moderno diritto sindacale, mediante un’operazione di carattere culturale che ebbe il senso di una vera e propria rivoluzione copernicana.

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