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Welfare tra Stato e mercato nell’era della globalizzazione

Nel suo nuovo libro “Il futuro non è un vicolo cieco” il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Franco Gallo, evidenzia la compressione dei diritti sociali nell’epoca della globalizzazione ma a mettere in crisi il Welfare è soprattutto la deriva degli Stati in costosi apparati burocratici

Welfare tra Stato e mercato nell’era della globalizzazione

Le idee contano. Da quando l’Illuminismo ci ha resi coscienti dell’incidenza delle filosofie nel progettare le azioni, sono le idee, nella loro contrapposizione dialettica e nel pluralismo degli interessi, ad influenzare i comportamenti: il Secolo delle Rivoluzioni (Inglesi, Americana, Francese) è generato dal pensiero politico dei moderni; Marx ha ispirato il sindacalismo, il marxismo-lenismo; Nietzsche il nichilismo e l’arte; Smith, Keynes, Hayek, Friedman le politiche economiche. 

Come uomini d’azione dobbiamo concorrere all’argomentazione che nella società sviluppa il pensiero comune, con la forza di ciascuno. Merito del professor Franco Gallo, nel recente saggio “Il futuro non è un vicolo cieco”,  edito da Sellerio, è di riflettere la sua esperienza professionale di studioso del fisco in principi di politica generale, con intensa sensibilità culturale. Ne abbiamo discusso nella recente presentazione del volume alla Luiss-Guido Carli con P. Baratta, A. Laterza, F. Locatelli, B. Tabacci, T. Treu, G. Visentini e l’autore del libro. 

Gallo argomenta la compressione dei diritti sociali del cittadino per effetto della globalizzazione: è la tesi che dà sistema alle riflessioni. Nella globalità dominano le regole del mercato che riducono, se non eliminano, la sovranità della legge nazionale nel configurare i diritti sociali. L’Europa non si è difesa dal primato del mercato, così concorrendo a fare dei diritti sociali un obiettivo secondario. In questo contesto di dominio del mercato si spiega il rafforzamento dell’interpretazione più tradizionale del diritto di proprietà, che invece nella protezione costituzionale andrebbe letto come diritto funzionale ai valori sociali

È conseguente la verifica della portata del principio costituzionale di capacità contributiva a fronte della proprietà, alla quale peraltro la giurisprudenza della Corte Costituzionale non ha riconosciuto valore assoluto di dogma. Da ultimo si discute del difficile bilanciamento tra diritti sociali e i vincoli all’equilibrio del bilancio dello Stato, recentemente rafforzati in attuazione di programmi comunitari. Viene così in primo piano l’insensibilità dell’ordinamento UE per i valori sociali che, al di là delle affermazioni di principio avanzate nei Trattati, restano condizionati dal vincolo del mercato: l’equilibrio di bilancio. 

Rilevo che in questa discussione i diritti sociali sono intesi come prestazioni configurate dallo Stato amministrazione, secondo l’impostazione avviata con il New Deal; consolidata nei paesi Atlantici nella filosofia di matrice keynesiana del welfare state, dell’economia mista, dell’economia sociale di mercato in Germania (Muller-Armanck e Ludwig Erhald). Ma non è questa la sola tecnica per organizzare il benessere individuale. 

Non è tanto il procedere delle economie nella globalizzazione che ha messo in crisi le esperienze del New Deal, quanto la loro stessa cristallizzazione in apparati burocratici costosi, incapaci di adattarsi all’evoluzione delle cose: ricordiamo la rivolta in California contro l’ipertrofico fisco; ricordiamo anche l’iper regolamentazione dei trasporti aerei, divenuta anacronistica, ed il successo della deregolamentazione (riregolamentazione) per la drastica riduzione dei prezzi. Sulle idee di Hayek, della società del Monte pellegrino, di Friedman, si promuovono le politiche della Thatcher e di Reagan per lo Stato minimo (“government is the problem”), riprese dagli stessi movimenti socialisti, dai laburisti inglesi. 

Non necessariamente lo Stato deve organizzarsi in sociale per soddisfare il diritto individuale al benessere; ne viene soddisfatto, anche, e meglio, nell’organizzazione dell’economia in mercato. La tecnica del mercato può essere adeguata, se non superiore; vari espedienti correggono le ineliminabili sperequazioni di ricchezza, quali l’imposta negativa, il reddito di cittadinanza, l’erogazione di denaro che lascia al genitore la libertà di scegliere il percorso scolastico o all’individuo di scegliere la propria assicurazione sanitaria. 

Sennonché due principali fraintendimenti hanno deviato la pratica del mercato dagli intenti teorici della sua filosofia. Ci spieghiamo le critiche di chi oggi imputa al mercato il sacrificio dei diritti sociali e, ancor pima, del depauperamento delle classi medie, per la compressione dei salari. Il mercato è stato inteso come situazione data in natura, non come creatura del diritto nazionale, da prolungare nell’internazionale o nel globale: è accaduto negli Usa, a Londra, ma per il peso dell’anglosassone nel globale l’idea si è imposta nella cultura occidentale e ne ha condizionato le economie, sia pure con diversa intensità nei settori europei più protetti. 

La cosiddetta deregolamentazione si è diffusa al punto di influenzare anche gli interventi delle autorità del mercato che si sono orientate per interpretazioni decisamente restrittive della loro missione, permettendo fenomeni elusivi, che maggiore rigore avrebbe circoscritto (es. fondi monetari). Invece il mercato è creazione del diritto. Per accrescere i ricavi l’impresa è pronta a prevaricare e tende al monopolio come la sua condizione naturale; il monopolio trasfigura il mercato per la collusione di poteri che, meno astretti alla concorrenza, acquistano la forza di straripare nel politico. Non basta garantire la libertà d’intrapresa e di consumo, la proprietà, la trasparenza. 

Il mercato va regolato con sofisticato diritto privato e adeguata protezione giurisdizionale; va imposto all’impresa con l’autorità del diritto pubblico; va ponderato secondo settori: il lavoro e le relazioni sociali trovano così accentuato lo squilibrio dei contraenti da giustificare interventi graduali di contrattazione collettiva. Soprattutto, ed è il secondo malinteso, anche la finanza è stata intesa come attività suscettibile di essere lasciata alla libertà naturale del mercato. Lo sarebbe se non avesse la potenzialità di generare moneta, che soltanto nelle concezioni radicali si vorrebbe anch’essa affidata alle transazioni private, sottratta alla sovranità politica dello Stato.

La finanza, la banca, con il credito creano, trasmettono, diffondono potere d’acquisto, cioè moneta. Soppressi vincoli e paratie, anche internazionali (movimento dei capitali), che la costringevano al servizio dell’investimento nell’economia reale, da strumento di scambio nell’economia reale la finanza è divenuta anche, e soprattutto, strumento di speculazione: di spostamento di ricchezza, non di creazione di nuova ricchezza. Gli studiosi che hanno approfondito le vicende spiegano la recente crisi del 2008 principalmente nelle innovazioni sopravvenute nell’ordinamento Usa in seguito alla deregolamentazione della finanza: 
– la banca universale, ormai finanziata nell’interbancario anziché con depositi; 
– i prodotti integrati; 
– la loro cartolarizzazione; 
– i derivati.

Il sistema genera nella finanza un’inutile e costosa burocrazia privata; il mercato degenera in oligarchia. Ricordiamo: la monarchia, l’aristocrazia, la repubblica ed il loro degenerare in tirannide, oligarchia, democrazia (populismo). Per l’economista la ipertrofia finanziaria globale ha creato disuguaglianza nei nostri paesi, comprimendo i salari e quindi la domanda; per lo storico della società, ha diffuso la ribellione delle classi medie e i movimenti elettorali nei paesi di democrazia (A. Tooze). 

Cosa fare? La crisi dell’economia mista (sociale) era irreversibile. Ma la sostituzione del mercato senza adeguate regole ha avviato processi di consolidamento e di concentrazione che, in grado di ridurre la concorrenza, vanificano lo stesso mercato, che è concorrenza. L’incoerenza della più severa disciplina europea della concorrenza nella dimensione globale del fenomeno ne spiega le proposte di modificazione, che rivelano la presa d’atto dell’orientamento oligopolistico dell’organizzazione dell’economia mondiale. Per rimediare siamo costretti a rivedere le regole, innanzitutto a livello internazionale per sfuggire alle tentazioni nazionalistiche dell’Amministrazione Usa (anche l’OMC è in stato di morte celebrale).

Ma è il ruolo della finanza che va drasticamente ripensato, come diceva il candidato Trump ormai di contrario orientamento. La finanza americana ha generato la crisi, ma ne è emersa vincitrice. Non soltanto la Federal Reserve ha dominato la crisi come prestatore di ultima istanza per il ruolo del dollaro nell’economia mondiale; le banche universali Usa hanno il primato sul sistema finanziario globale. Ma la vittoria potrà rivelarsi effimera: secondo autorevoli commentatori le ragioni della crisi sono tutt’ora presenti. Più in generale nella prospettiva della giustizia distributiva, esponenti del pensiero politico denunciano non soltanto l’attualità ma l’aggravamento delle distorsioni lamentate nella formazione e ripartizione della ricchezza. 

Nella opposta prospettiva, può anche essere che della filosofia del mercato radicale si siano a mano a mano appropriate forze che non assumono le diseguaglianze a disvalore; cui forse non dispiace vedere nella globalizzazione un’intesa tra oligarchi, sia pure di diversa specie. Se leggiamo Stiglitz (People, Power, and Profits) vediamo questa degenerazione nell’America del Governo repubblicano (per me con angoscia). 

L’Europa è nata come trattato economico; nell’unione monetaria e finanziaria sta raggiungendo il livello federale; si avvia all’unione politica. Ma il perseguimento dei valori enunciati nei primi articoli del Trattato, in altre parti, nella Convenzione sui diritti dell’uomo, sono di competenza degli Stati, sì sotto il controllo del consiglio europeo, tuttavia non abilitato ad interventi sostitutivi: può sanzionare, sino all’esclusione. I diritti sociali sono affidati agli Stati, anche con il supporto finanziario della Comunità; anche se questo dovesse ampliarsi con l’eventuale estensione del bilancio comune. Non vedo in questo, come Gallo, un limite allo sviluppo dell’Unione, poiché l’eccesso di integrazione potrebbe rivolgersi contro, sviluppando nelle Nazioni intenti alla Brexit. 

In questo contesto cosa possiamo dire dell’Italia, che è la preoccupazione di Gallo. L’alternativa all’Europa, ce la ricordava Ugo La Malfa, è l’autarchia dei Paesi africani delle rive del Mediterraneo; le nostre condizioni non ci consentono di guardare all’Inghilterra della brexit. L’Italia va gestita in Europa. Tuttavia la nostra incidenza sulla politica europea è assai inferiore al peso dell’Italia come popolazione ed economia. La risposta a F. Gallo è fare meglio nelle nostre dimensioni, che è tanta la sovranità che rimane disponibile; invece di chiuderci in un conservatorismo corporativo, dove ciascun corpo difende il proprio stare, con il risultato di sprechi nella gestione del Paese: perfino la politica di austerità diviene un’opportunità nel costringere a non sprecare risorse che non riusciamo a destinare a spese di investimento. 

Torniamo alla forza delle idee. Ben vengano le riflessioni individuali che stiamo svolgendo. Per altro verso soffriamo di scarsa elaborazione intellettuale collettiva delle vicende che ci contornano. La ricerca costa e poche sono le risorse che vi sono destinate: nelle università, nelle fondazioni, nelle istituzioni di ricerca delle rappresentanze politiche e sociali, nella stampa e pubblicistica che si vorrebbe avanzata. Questo stato delle cose non può che riflettersi accentuando la contingenza nella gestione della politica del Paese. 

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