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Un ebook di Gianni Dragoni su Riva: “Ilva, il padrone delle ferriere”

Esce in questi giorni un ebook di Gianni Dragoni, inviato de “Il Sole 24 Ore”, su Riva e il suo impero siderurgico dal titolo “Ilva, il padrone delle ferriere” – L’editore è Chiarelettere – Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il capitolo che spiega come Riva conquistò l’Ilva quando l’Iri decise di cedere l’acciaio pubblico.

Un ebook di Gianni Dragoni su Riva: “Ilva, il padrone delle ferriere”

Sul piano economico l’acquisto dell’Ilva per Riva è stato un grande affare. Nel marzo del 1995 l’imprenditore milanese si aggiudica il pezzo pregiato dell’acciaio di Stato, una fornace che nei vent’anni precedenti ha bruciato circa 30.000 miliardi di vecchie lire, oltre 15 miliardi di euro, battendo la cordata capeggiata da Luigi Lucchini, l’imprenditore bresciano già presidente di Confindustria, alleato con un colosso, il gruppo statale francese Usinor Sacilor. Nei primi mesi del 1995 dunque è Riva che prevale, un po’ a sorpresa, sul blasone di Lucchini e dei suoi solidi alleati nella corsa al cuore dell’acciaio di Stato. Anche l’imprenditore milanese ha degli alleati nell’iniziativa, c’è la presenza temporanea di alcune banche (in particolare Cariplo, che dopo qualche anno confluisce in Banca Intesa) e ci sono tre soci industriali, azionisti di minoranza – il gruppo indiano Essar della famiglia Ruia, Nicola Amenduni delle Acciaierie Valbruna di Vicenza e l’industriale Luigi Fedele Farina con la Metalfar di Erba in provincia di Como – ma Riva ha la maggioranza assoluta.

L’imprenditore milanese ha fama di maestro nella produzione siderurgica. Nel 1954 ha fondato la prima società con il fratello minore Adriano, la Riva & C., è specializzato negli acciai lunghi, ottenuti fondendo il rottame di ferro nei forni elettrici e impiegati soprattutto per le costruzioni. È un settore piuttosto frammentato in aziende piccole e medie, in cui sono molto conosciuti i produttori bresciani, specializzati nel tondino per cemento armato. Il ragionier Riva è un industriale accorto, attento ai bilanci che riesce a chiudere in attivo, anche se all’epoca non è disponibile un bilancio consolidato che dia un’idea chiara dei numeri della sua intera attività, su cui Riva – così si racconta – tiene una contabilità quotidiana, con annotazioni su un quaderno a quadretti che porta sempre con sé. Ha già fatto shopping di aziende all’estero: in Spagna, poi in Francia, quindi in Belgio, fino all’ex Germania Est, dove in varie fasi ha comprato tre grandi fabbriche, vincendo la sfida in casa dei maestri dell’acciaio. «Sono bastati sei mesi per far capire ai tedeschi che gli italiani non sono solo venditori di cravatte o pizzaioli ma anche gente che sa fare l’acciaio» racconta con orgoglio. Riva non ama apparire in pubblico o sui giornali, e si irrita se lo si accomuna ai bresciani, i produttori suoi concorrenti nel tondino e nella vergella: arriva a scrivere una lettera ai giornali che lo avevano chiamato bresciano per precisare che lui è milanese purosangue.

Dall’agosto del 1988 Riva possiede la maggioranza delle Acciaierie di Cornigliano a Genova, un grande altoforno dalla storia travagliata, fonte di perdite continue sotto la gestione statale e divenuto profittevole una volta diventato privato. Riva se lo aggiudica dopo una difficile coabitazione tra privati e il gruppo pubblico Italsider nel consorzio Cogea, dove i privati avevano la gestione e lo Stato di fatto si accollava le perdite. Ma anche tra i privati era scoppiato un litigio, con dissidi in particolare tra Riva, Lucchini e un altro bresciano, Dario Leali.

L’altoforno genovese ha una capacità di produzione di circa un milione di tonnellate di acciaio grezzo all’anno. L’arrivo a Genova segna una svolta per l’imprenditore milanese. È la capitale dell’acciaio di Stato, della Finsider e dell’Italsider, aziende dissestate nei conti ma pur sempre gigantesche rispetto a quelle dei privati e dotate di impianti a ciclo integrale, che se ben gestite possono rendere profitti colossali e regalare un notevole vantaggio competitivo.

Il vero salto Riva lo farà con un’impresa che sembrava impossibile per le sue dimensioni familiari, aggiudicandosi il centro siderurgico di Taranto, capace di produrre a pieno regime fino a 12 milioni di tonnellate di acciaio all’anno con i suoi cinque altiforni. L’impianto di Taranto è il primo grande progetto di creare industria al Sud, la localizzazione viene decisa nel 1959 dall’ente che gestiva l’industria pubblica, l’Iri. Per preparare l’area vengono abbattuti 20.000 alberi di ulivo e antiche masserie, la produzione del primo altoforno comincia nel 1964.

Per vendere l’ex Italsider di Taranto, nel 1993, il gruppo Iri guidato da Romano Prodi crea una nuova società, l’Ilva Laminati piani, ripulita dalla zavorra dei debiti, circa 7000 miliardi di vecchie lire che restano nella vecchia Ilva messa in liquidazione alla fine del 1993. In pratica questo è il modello della bad company, che verrà replicato nel 2008 dal governo Berlusconi con la divisione in due di Alitalia. All’Ilva Riva entra in possesso di un gruppo con impianti nuovi che in seguito al boom dei prezzi produce utili al ritmo di 100 miliardi di lire al mese: è il terzo produttore in Europa di laminati piani, dietro giganti quali la francese Usinor Sacilor e l’inglese British Steel. Per tutto questo Riva paga un prezzo di 1460 miliardi di lire «salvo conguaglio» stabilisce il contratto messo a punto dopo un serrato braccio di ferro con lo Stato venditore rappresentato dall’Iri, dove nel frattempo è tornato come presidente Michele Tedeschi. Dentro l’Ilva ci sono anche debiti finanziari netti per 1500 miliardi di lire, un indebitamento basso rispetto alle dimensioni della società, e il fatturato è di quasi 9000 miliardi di lire. Con l’acquisizione il gruppo Riva triplica la produzione e quadruplica il giro d’affari a circa 11.500 miliardi. «L’età del ferro non è mai finita» dice euforico l’industriale. In quel momento l’Ilva genera profitti per circa 100 miliardi di lire al mese, ha circa 17.300 dipendenti, gli impianti principali sono a Taranto, Novi Ligure e Genova. Più che di età del ferro, si dovrebbe parlare di età dell’oro. Ma Riva non è soddisfatto.

Oltre agli interventi sull’occupazione, tra riduzione dell’organico e le manovre che abbiamo visto per piegare chi resiste, come l’isolamento nella palazzina Laf, lancia un’offensiva contro l’Iri chiedendo uno sconto di circa 800 miliardi, invocando soprattutto problemi ambientali, cioè la necessità di adeguare gli impianti con investimenti nell’ecologia per ridurre l’inquinamento. In questo braccio di ferro, a metà del 1996 Riva sospende anche il pagamento del «conguaglio forfettario» di 228,66 miliardi dovuto all’Iri, secondo il contratto, per i profitti accumulati nei primi 98 giorni del 1995, quando la società era ancora dello Stato, utili rimasti però dentro l’azienda privatizzata. La controversia è affidata a un collegio arbitrale composto da tre giuristi. Riva sceglie come proprio arbitro Guido Rossi, il professore, ex senatore della Sinistra indipendente e già presidente della Consob. L’Iri designa Gustavo Visentini, figlio del famoso ex ministro delle Finanze Bruno Visentini. Il presidente del collegio è un avvocato milanese esperto di diritto penale societario, il professor Alberto Crespi.

Il verdetto arbitrale del 2000 stabilisce che Riva deve pagare poco più di 180 miliardi di lire: il prezzo complessivo pagato per l’Ilva sale così dai 1460 miliardi «salvo conguaglio» stabiliti nel contratto a 1649 miliardi di lire, circa 852 milioni di euro. In apparenza l’imprenditore viene «condannato» a pagare, dunque è perdente nell’arbitrato. Il verdetto in realtà gli è favorevole, anche se non viene accolta la sua richiesta di uno sconto di 800 miliardi che aveva suscitato scalpore. E l’Iri, dove il direttore generale è Pietro Ciucci, attuale presidente dell’Anas e amministratore delegato della società Stretto di Messina, resta con un palmo di naso.

Per capire l’affare realizzato dall’acquirente con l’Ilva è bene guardare al bilancio consolidato della Fire finanziaria, all’epoca società capogruppo della famiglia Riva. Nel 1995, l’anno dell’acquisizione dell’Ilva, l’utile consolidato corrente prima delle tasse e di proventi e oneri straordinari esplode a 2240 miliardi di lire, rispetto ai 157 miliardi del 1994.1 L’utile netto del gruppo sale da 112 a 1842 miliardi di lire. Dunque il balzo dei profitti per Riva è in larghissima parte determinato dall’ingresso nel gruppo Fire dell’Ilva, azienda in quel momento molto redditizia. Anche considerando ipotetici miglioramenti di gestione legati al nuovo proprietario privato, non si può pensare che un colosso come quello di Taranto abbia potuto cambiare marcia in poche settimane. Dunque la ricchezza in più di Riva viene portata in dote dall’Ilva, eppure il nuovo proprietario ingaggia una durissima guerra dell’acciaio con l’Iri per pagare di meno gli impianti allo Stato. E alla fine il verdetto è più favorevole a lui che al venditore.

Alla fine del 1994, pochi mesi prima di conquistare l’Ilva, Riva compra dall’Iri un’altra azienda, la Terni Acciai inossidabili, con sede nella città umbra, di cui fa parte anche lo stabilimento di Torino. Insieme alla Falck e all’imprenditore Luigi Agarini, Riva è in una cordata guidata dalla tedesca Krupp attraverso la società Kai Italia Srl (curiosa l’assonanza con il nome della futura cordata dei patrioti che nel 2008 comprerà la polpa dell’Alitalia, la Cai), ma la coabitazione è breve. Alla fine del 1995 Riva cede la sua partecipazione al gruppo tedesco, poi assorbito dalla Thyssen. Anche in questo caso con l’Iri c’è una contesa sul prezzo. I nuovi proprietari reclamano uno sconto di 100 miliardi di lire, alla fine devono pagarne 20, oltre ai 600 miliardi del prezzo concordato. Ma l’affare vero lo fanno i compratori.

A sentire Riva, invece, con la privatizzazione dell’Ilva lo Stato ci avrebbe guadagnato: «Pago mediamente 500 miliardi di tasse all’anno, che fanno 2500 negli ultimi cinque anni. La siderurgia pubblica nel precedente quinquennio ne aveva persi 5300. Non mi sembra che lo Stato abbia fatto un brutto affare a cedermi l’Ilva, che ora controllo all’87 per cento» (Mauro Castelli,Riva, la dynasty del signore dell’acciaio, «Il Sole 24 Ore», 29 gennaio 2000).

1) Dati riportati dall’annuario 1996 di R&S (Mediobanca).

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