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Ucraina, appunti da un Paese che non c’è più

Nel libro “Ucraina 2009-2019. Appunti di un paese che non c’è più” , edito da goWare, lo studioso Stefano Grazioli fa il punto sulla deriva dell’ultimo decennio dell’ex repubblica sovietica dal naufragio della rivoluzione arancione all’ascesa alla presidenza del comico Zelensky – Ecco uno stralcio

Ucraina, appunti da un Paese che non c’è più

L’Ucraina è un punto delicatissimo del fragile scacchiere internazionale. Venti anni fa non era neppure una nazione e oggi, ci dice Stefano Grazioli, è un paese che non c’è più. Stefano Grazioli, autore del libro omonimo Ucraina 2009-2019. Appunti di un paese che non c’è più (goWare 2020), da oltre venti anni scrive di spazio postsovietico. Si tratta di paesi, come Russia e Ucraina, dove ha anche risieduto per lunghi periodi. Oggi Grazioli lavora in Germania e scrive di queste faccende per varie testate.

In questo libro ha raccolto e organizzato i suoi reportage sul paese dell’ex-cortina. Si tratta di interventi che coprono un periodo che va dal naufragio della rivoluzione arancione fino all’ascesa alla presidenza di Volodymyr Zelensky, un comico televisivo che imitava l’ex presidente Poroshenko. Grazioli offre un quadro preciso e analitico dell’ex-repubblica sovietica, oggi teatro di uno scontro per procura da parte delle maggiori potenze mondiali.

L’Ucraina può anche essere vista, sì come un paese sfortunato e martoriato, ma anche come un grande laboratorio del post-guerra fredda. Sembra che addirittura lo stesso avvenire della presidenza americana, nell’attuale e in prospettiva, dipenda da vicende avvenute in questo paese così lontano da Washington, ma così importante per Washington.

Dal volume di Grazioli offriamo ai nostri lettori un ampio stralcio dedicato all’”onda verde” che ha portato alla presidenza Volodymyr Zelensky e l’immaginario epilogo della questione Ucraina che l’autore ipotizza di descrivere nel 2034. Un breve e divertente divertissement di fantapolitica che Grazioli si concede al termine di una serrata e puntuale ricostruzione storica e politica del tribolato decennio dell’Ucraina.

L’onda verde

Un successo oltre le previsioni. Volodymyr Zelensky con il suo Servitore del popolo sbanca il botteghino ucraino e conquista la maggioranza assoluta alla Rada. Oltre il 40% al proporzionale e una buona fetta dei collegi uninominali vinti, un centinaio, che gli permettono di arrivare oltre i 226 deputati in Parlamento, soglia ufficiale per la maggioranza assoluta in un’assemblea che conta in teoria 450 seggi, ma che non ne assegna 26, quelli delle regioni occupate di Donetsk e Lugansk, oltre che della Crimea.

L’onda verde, che già con le presidenziali di aprile aveva cambiato i connotati allo spettro politico dell’ex-repubblica sovietica, colpisce di nuovo e mette ko la vecchia guardia. O quasi. Per l’ex-presidente Petro Poroshenko, dopo la sconfitta alle presidenziali di tre mesi fa, stavolta è un’altra pillola amara da digerire. Il suo partito perde la roccaforte di Leopoli, due terzi dei voti totali e si attesta intorno all’8%. Un disastro annunciato che conferma come gli elettori abbiano abbandonato in gran parte l’oligarca del cioccolato, dopo cinque anni di soggiorno infruttuoso alla Bankova.

C’è poco da sorridere anche per l’altra vecchia volpe della politica ucraina, Julija Tymoshenko, che conferma il suo contingente di deputati alla Rada, più o meno come nell’ultima legislatura, ma non riesce ad allargare il suo elettorato. Volto nuovo è invece quello del cantante rock Svyatoslav Vakarchuk, leader della nota band Okean Elzy, che ha preso come modello proprio Zelensky, l’attore diventato presidente, ed è riuscito anche lui a superare la soglia del 5% con il suo partito Voce.

Discorso a parte va fatto per la Piattaforma d’opposizione, ossia il partito erede del Partito delle regioni del vecchio presidente Viktor Janukovych, messo fuori gioco dalla rivoluzione cinque anni fa: i filorussi hanno riscosso un notevole successo nell’est e nel sud del Paese, negli oblast’ di Donetsk e Lugansk sono addirittura il primo partito e a livello nazionale, con il 12%, secondi dietro a Zelensky. Al vertice c’è Jurij Boiko, ex-ministro dell’Energia sotto il presidente fuggito in Russia dopo la rivoluzione del 2014. L’eminenza grigia è Viktor Medvedchuk, che tra l’altro ha una figlia il cui padrino di battesimo è Vladimir Putin.

Fin qui i partiti che hanno varcato la soglia di sbarramento; a rimanere fuori nomi più o meno illustri in Ucraina, con tutto il fronte nazionalista, da Oleg Lyashko alla destra radicale di Oleg Tyahnybok, che resta a bocca asciutta. La nuova Rada diventa a prima vista più uniforme, anche se bisognerà aspettare la lista dei vincitori nei collegi uninominali e vedere chi saranno i nuovi deputati cosiddetti indipendenti, circa una sessantina. Il ruolo di alcuni di loro potrebbe diventare molto importante nella formazione del prossimo Governo.

Se alla fine dei conti venisse confermata la maggioranza assoluta per Servitore del popolo, il partito del Presidente potrebbe governare da solo: occorre però attendere e vedere quanti saranno i seggi di vantaggio. Con una maggioranza risicata probabilmente a Kiev nascerà un governo di coalizione. Considerando in questo senso Piattaforma d’opposizione fuori gioco, insieme con il partito di Poroshenko, Zelensky potrà allearsi o con Tymoshenko o con Vakarchuk. Ieri il Presidente ha già detto che avrà colloqui con i rappresentanti dei partiti e si vedrà nei prossimi giorni come andranno le trattative. Ma Zelensky potrebbe cooptare anche un buon numero di candidati entrati come indipendenti all’uninominale e assicurarsi così una comoda maggioranza, senza dover trattare con altri leader.

In ogni caso dopo queste elezioni è evidente che a Kiev ci saranno un Presidente e un Governo uniformi, cosa già accaduta nel passato, anche se non in queste dimensioni. Da un lato ciò significa la possibilità di poter agire con molta libertà ed efficienza sul lato delle riforme di cui il Paese ha bisogno, in particolare quelle economiche, senza dimenticare la lotta alla corruzione; dall’altro però aumentano anche le aspettative dell’elettorato, che vorrà vedere risultati subito. Sino a ora Zelensky ha avuto l’alibi di un Parlamento sfavorevole, d’ora in avanti verrà misurato alla prova dei fatti.

Il nodo principale rimane comunque quello del conflitto nel Donbass: sicuramente il Presidente con il sostegno del Parlamento avrà più voce in capitolo, ma molto dipende da come si comporterà la Russia. Anche Poroshenko, almeno agli inizi, aveva il sostegno incontrastato di Governo e Rada, ma con il Cremlino non è riuscito a cavare un ragno dal buco e il processo di pacificazione con gli accordi di Minsk è rimasto carta straccia. Non è escluso che presto Zelensky e Putin si incontrino e questo sarebbe comunque un buon segnale, rispetto allo stallo avuto con il Governo e il Presidente precedenti.

2034 – Epilogo

Sono passati trent’anni dalla prima rivoluzione in Ucraina. Quella arancione del 2004 è stata la prima a scuotere le già fragili fondamenta dell’ex-repubblica sovietica. Allora poco cambiò, nel senso che l’establishment politico-economico rimase il medesimo: nessuna testa rotolò davvero, ci fu solo uno scambio di poltrone a Kiev. Via Kuchma e Janukovych, temporaneamente, dentro Jushchenko e Tymoshenko. Ma il quadro internazionale era già cambiato. La Russia non era quella malandata di Boris Eltsin, ma quella muscolare di Vladimir Putin, restia a concessioni geopolitiche su quello che considerava ancora il suo “giardino di casa”.

La “rivoluzione della dignità”, o presunta, del 2014 fu alla stessa stregua e al massacro di Maidan e all’annessione conseguente della Crimea seguì la presidenza di Poroshenko, condizionata dalla guerra nel Donbass e per questo e altri motivi fallimentare. La terza rivoluzione, quella verde di Zelensky nel 2019, non fu individuata come tale, perché senza spargimento di sangue, ma fu quella che diede il via al cambiamento più radicale, anche se parziale. Il nuovo Presidente quindici anni fa aveva sostanzialmente tre opzioni davanti a sé: spazzare via davvero il vecchio sistema, farsi distruggere da esso, oppure scendere a compromessi. Zelensky e il “populismo digitale” ucraino hanno scelto la terza via.

L’impianto politico-economico basato sull’oligarchia è stato solo in parte smantellato, i poteri forti hanno ridimensionato la loro influenza, anche se continuano oggi a tenere le redini di quello che rimane della grande industria e soprattutto di quella nuova, che fa leva sul controllo dei dati e dell’informazione. Le grandi privatizzazioni iniziate lo scorso decennio hanno favorito i soliti noti, i loro eredi e i loro alleati in Occidente, Stati Uniti in primis. Washington è il principale punto di riferimento per Kiev, che continua però a dover fare i conti con Mosca e si è lasciata tentare dalle avance di Pechino. La guerra nel Donbass è rimasta sostanzialmente irrisolta e le repubbliche indipendenti di Lugansk e Donetsk sono un buco nero nel cuore dell’Europa. I rapporti con Bruxelles sono stabili, ma freddi. Le porte dell’Unione sono rimaste chiuse, esattamente come quelle della nato.

L’Ucraina di Zelensky, rieletto per la seconda volta nel 2024, lasciando poi il testimone alla prima presidente donna in una repubblica ex-sovietica (uscita, come il suo predecessore, da un “casting oligarchico”) si è trasformata da laboratorio dove convivono innovazione e corruzione in un Paese moderno, ma sempre bloccato dalla proxy war che impegna ancora Russia e Stati Uniti, mentre la Cina ne sta approfittando, giocando sull’opzione della Via della Seta e i suoi hub tra i Carpazi e il Mar Nero.

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