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Trump, i primi 100 giorni e l’umore dei mercati

Nei primi mesi di mandato Trump dovrà prendere decisioni importanti sulla proposta di budget per il 2018 da inviare al Congresso, sull’agenda sul commercio internazionale e soprattutto sulla riforma fiscale, con la famigerata “major border tax” – Tutto questo potrebbe far cambiare rapidamente l’umore dei mercati finanziari, sinora molto benevoli con il nuovo presidente.

Trump, i primi 100 giorni e l’umore dei mercati

Se i primi 100 giorni rappresentano una tappa importante per qualsiasi amministrazione, ciò è tanto più vero nel caso della presidenza Trump, data l’ambiguità del suo programma elettorale e le continue provocazioni che hanno accompagnato la sua campagna presidenziale. Più volte Trump ha ribadito che una delle sue prime mosse sarà quella di ribaltare la riforma sanitaria, tanto voluta dalla presidenza Obama, e di voler costruire un muro sul confine del Messico. Tuttavia, altre saranno le decisioni che catalizzeranno l’attenzione dei mercati finanziari, che sinora sono stati molto benevoli nei sui confronti.

In primo luogo il presidente dovrà presentare al Congresso la sua proposta di budget per il 2018. Data la sua volontà di ridurre la pressione fiscale, ogni ulteriore stimolo economico provocherà un aumento del deficit pubblico sul Pil, che attualmente si aggira attorno al 3,2%. Sarà pertanto cruciale capire quanto ampi saranno gli investimenti in infrastrutture che il neo presidente ha più volte promesso di voler fare.

In secondo luogo Trump dovrà presentare i dettagli della sua riforma fiscale, più volte sbandierata negli ultimi mesi. Questa dovrebbe prevedere una drastica riduzione della tassazione sia sui redditi delle persone fisiche che delle imprese. I primi vedrebbero fortemente ridotte le aliquote fiscali che passerebbero da sette (10, 15, 25, 28, 33, 35 e 39,6) a tre (10, 20 e 25) assieme a un’importante incremento delle detrazioni, che verrebbero aumentate da 6.300 a 25.000 dollari per i singoli e da 12.600 a 50.000 dollari per le coppie sposate.

Anche le imprese vedrebbero ridotta la loro aliquota dal 35% al 15%, in parte compensata dall’eliminazione di moltissimi detrazioni, fra le quali quella sugli interessi passivi, che forse non farà piacere al sistema bancario. Le multinazionali avrebbero, inoltre, la possibilità di rimpatriare i profitti accumulati all’estero pagando un’aliquota solo del 10%.

Tutto ciò, secondo il Tax Policy Center, porterebbe a una crescita del debito sul Pil al 155% nei prossimi 20 anni in assenza di un drastico taglio della spesa pubblica e senza tener conto del maggior costo degli interessi sul debito e degli effetti macroeconomici della manovra (incremento dei consumi e dei risparmi ma anche un crowding out degli investimenti).

Tuttavia l’aspetto più dibattuto della riforma fiscale è la famigerata major border tax. In sintesi si tratterebbe di escludere dalla base imponibile le esportazioni (e nella versione più estrema anche gli investimenti) e di permettere la deducibilità solo dei costi domestici e quindi non delle importazioni.

Questo, secondo Paul Ryan, membro del comitato di Trump per la transizione e tra i maggiori sostenitori della riforma, allineerebbe la normativa americana a quella di molti paesi, che favoriscono l’industria domestica e incentivano le esportazioni. Tuttavia una simile impostazione da un lato rischia di provocare una forte rivalutazione del dollaro (20%), che in parte neutralizzerebbe gli effetti positivi della nuova base impositiva, dall’altro potrebbe indurre molti paesi a intraprendere misure di rappresaglia (Banca Mondiale). Inoltre tutta la riforma avrebbe degli effetti redistributivi straordinari a favore di alcuni settori e delle classi più agiate.

In terzo luogo Trump dovrà decidere quale iniziative prendere sia nei riguardi dei trattati commerciali ripetutamente criticati durante la campagna elettorale (Trans-Pacific Partnership – Tpp e North American Free Trade Agreement- Nafta), sia più in generale sulle politiche commerciali che gli Stati Uniti vorranno prendere su base bilaterale.

Queste potrebbero deprimere ulteriormente i flussi di commercio internazionali, che dopo la crisi del 2007/2008 non hanno più ricominciato a crescere come in precedenza, quando erano diventati il motore dello sviluppo mondiale. L’effetto recessivo di misure protezionistiche potrebbe risultare ancora più forte in caso di rappresaglie dei paesi con un mercato domestico molto grande come la Cina, la Germania e forse l’Europa, se quest’ultima avrà la forza politica per reagire.

Uno scenario quindi con molte incognite che potrebbe accorciare la luna di miele di cui hanno goduto molti presidenti. In effetti i mercati finanziari, dopo la sbornia post elettorale, potrebbero anticipare le ricadute negative delle politiche messe in pista da Trump ben prima che queste esercitino i loro effetti reali e soprattutto ben prima di quanto oggi molti prevedono.

Questo testo viene pubblicato anche sul sito lavoce.info.

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