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Tinagli: “Sulla Catalogna l’Europa parli chiaro: la sua moral suasion è decisiva”

INTERVISTA DEL WEEK END a IRENE TINAGLI, economista e parlamentare del Pd – “Tra Madrid e Barcellona riavviare il dialogo è difficilissimo ma Bruxelles può sbloccare la crisi facendo capire agli indipendentisti che la Repubblica di Catalogna non sarà mai riconosciuta in Europa” – Le responsabilità dei secessionisti e quelle di Rajoy: hanno perso tutti

Finora nessun passo avanti. Lo scontro tra Madrid e Barcellona continua senza sosta e, giorno dopo giorno, entrambe le parti gettano benzina sul fuoco con azioni che incendiano gli animi e allontanano possibili soluzioni condivise. I leader catalani proseguono sulla strada della dichiarazione unilaterale d’indipendenza, il Governo Rajoy reagisce con un’intransigenza che non lascia aperto nessuno spiraglio di dialogo, vedendo nella “linea dura” l’unica risposta possibile alle violazioni legislative e costituzionali compiute dai leader regionali. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una crisi politica che rischia di far saltare gli equilibri costruiti a fatica nell’era post franchista e minaccia l’economia spagnola, oggi in forte espansione dopo anni di austerità dovuta alla recessione. Mentre imprese e banche cominciano a fare i bagagli e a lasciare Barcellona e la Catalogna, l’Europa osserva ciò che accade con sgomento, preoccupata dalle ripercussioni che la questione catalana potrebbe avere dentro e fuori dai confini iberici. 

Ne abbiamo parlato con l’economista Irene Tinagli, deputata del Partito Democratico ed ex assistant professor of management all’Università Carlos III di Madrid, che – in questa intervista a FIRSTonline – spiega le cause della crisi e quale potrebbe essere il futuro di una Catalogna attraversata da un vento secessionista di cui potrebbe diventare la prima vittima.

Onorevole Tinagli, dopo il muro contro muro tra il governo di Madrid e gli indipendentisti della Catalogna si levano da più parti – in Spagna e in Europa – gli appelli al dialogo e all’avvio di negoziati: è uno sbocco realistico? E a quali condizioni?

“È una situazione molto complicata. C’è stato un tale irrigidimento delle posizioni da parte di entrambi i fronti in campo che qualsiasi tentativo di dialogo appare ad oggi di difficile realizzazione. Lo stesso Carles Puigdemont, il presidente della Generalitat de Catalunya, continua ad essere estremamente ambiguo. Da un lato parla di ‘mediazione’, dall’altro non indietreggia di un millimetro rispetto all’intenzione di proclamare l’indipendenza e di portare avanti il percorso secessionista tracciato dal referendum. Così facendo, però, annulla automaticamente qualsiasi spazio di mediazione che potrebbe portare ad un’autonomia fiscale ed economica simile a quella dei Paesi Baschi.

Per quanto riguarda Rajoy invece, il suo atteggiamento rigido e duro non aiuta a pacificare gli animi, ma bisogna tenere in considerazione che gli indipendentisti non gli hanno nemmeno offerto ampi margini d’azione.

A mio parere a questo punto l’unica via d’uscita potrebbe essere un intervento più forte dell’Europa e dei vari organismi internazionali che faccia comprendere alla Catalogna le conseguenze reali di una possibile separazione”.

Al momento sembra però che l’Unione Europea, pur condannando sia le violenze di domenica scorsa che la spinta indipendentista dei vertici catalani, si sia volutamente tenuta fuori da una questione che, come affermato più volte da Bruxelles, rimane un ‘problema interno allo Stato spagnolo sul quale non è possibile intervenire’…

“È vero che l’Europa non ha strumenti di intervento diretto sulla crisi della Catalogna, però quello che può fare, ma che probabilmente avrebbe dovuto fare prima con molta più energia, è mettere in atto una moral suasion che faccia capire chiaramente ai catalani, la stragrande maggioranza dei quali è fortemente europeista, che nell’Unione non c’è spazio per una Catalogna indipendente. In passato, a tratti, è già stato fatto, ma in maniera troppo debole per cui i catalani si sono convinti di poter continuare a ricevere i benefici derivanti dall’appartenenza all’Ue nonostante l’indipendenza. Adesso è arrivato il momento di far comprendere a Barcellona le reali conseguenze del percorso secessionista e di dire chiaramente che la Repubblica della Catalogna non sarà mai riconosciuta in Europa se non dopo un processo che durerà decenni. Solo così probabilmente si riuscirà a sbloccare l’attuale impasse”.

La moral suasion europea si collega direttamente con la finanza e i mercati. Quanto possono pesare sulla vicenda catalana le intenzioni di diverse banche e aziende di trasferirsi altrove, i cali della Borsa, l’allargamento dello spread tra i Bonos e i Bund ma anche i Btp e il peggioramento del rating catalano e spagnolo?

“Sicuramente tutte queste cose hanno un peso, però attualmente siamo arrivati ad un’ideologizzazione talmente pressante dello scontro che rende difficile l’adozione di argomentazioni razionali come quelle appena elencante.

Ormai c’è una parte degli indipendentisti che vede l’indipendenza come un tema fortemente identitario, legato alla democrazia e alla libertà, un principio vitale tale per cui ogni altro argomento più razionale ed economico viene percepito come meno importante rispetto a tutto il resto. Se queste argomentazioni fossero state rafforzate e rese più evidenti nel passato, forse si sarebbe potuta evitare l’attuale radicalizzazione di questa ideologia”.

Sembra un po’ di rivivere, nonostante le enormi differenze, quanto accaduto l’anno scorso con la Brexit…

“È vero, anche in quel caso c’erano moltissimi report redatti da fonti autorevolissime che evidenziavano le conseguenze devastanti della fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ma il sentimento anti-europeo era diventato talmente forte da riuscire ad oscurarli. Quando si parla alla pancia e non alla testa delle persone, quando si toccano l’identità e la rabbia dei cittadini, l’aspetto emozionale prevale sulle argomentazioni concrete. Lo stesso sta accadendo oggi in Catalogna. I leader non sembrano interessati ad ascoltare questi argomenti ma, al contrario, pare possibile che vengano utilizzati nel prossimo futuro per fare propaganda a favore dell’indipendenza, stravolgendo il loro reale significato e veicolandoli come un ‘complotto’ internazionale della finanza contro la secessione. Tra l’altro occorre sottolineare che diverse multinazionali sono già andate via da Barcellona negli ultimi sei anni, da quando cioè la questione indipendentista ha cominciato a radicalizzarsi, ma questo non ha spinto i leader catalani a cambiare la loro prospettiva basata su identità, democrazia e libertà”.

Come si può far sì che la ragione prevalga sull’emozione?

“L’unico modo per far sì che le argomentazioni economico-finanziarie abbiano un peso è agire sulla popolazione meno radicalizzata facendole capire i rischi reali. È a queste persone che bisogna parlare perché non è vero che tutti i catalani sono indipendentisti, anzi. Solo così, nel caso in cui in un futuro si dovesse proclamare un nuovo referendum o, nell’eventualità che il Parlamento catalano venga sciolto ai sensi dell’articolo 155 della Costituzione, si dovessero indire nuove elezioni, si potrà fare in modo che siano gli stessi cittadini a togliere potere agli indipendentisti, eleggendo un Parlamento catalano più moderato che possa riaprire un dialogo con Madrid che, a sua volta, dovrà fare di tutto per essere più dialogante”.

Come ha sottolineato Lei, la lotta per l’indipendenza si è trasformata in lotta per la democrazia, contro l’autoritarismo e l’ingerenza del Governo centrale, e grazie a questa percezione l’indipendentismo si è diffuso sempre di più. Quanto hanno pesato su questa nuova realtà le politiche del Governo Rajoy presenti e passate, come l’annullamento dell’accordo stipulato nel 2006 da Barcellona con Zapatero?

“Rajoy ha sicuramente delle responsabilità. Il Primo Ministro spagnolo è un uomo molto rigido, non è dialogante. Come abbiamo visto dopo le elezioni generali del 2015-2016, quando si doveva negoziare per formare il Governo, è una persona che sta ferma e attende che qualcosa accada attorno a lui. Il suo errore non è stato solo l’annullamento dello Statuto, che non è dipeso solo da Rajoy ma anche da altri partiti e regioni autonome, quanto ciò che ha fatto dopo. Avrebbe potuto cercare nuove strade, riavviare un dialogo, un negoziato e non l’ha fatto. Forse se al suo posto ci fossero stati Felipe Gonzales o José Luis Zapatero oggi avremmo una situazione diversa, ma questo ovviamente non possiamo saperlo.

Però bisogna sottolineare che le responsabilità di Rajoy riguardano più gli anni passati che quello che è accaduto nelle ultime settimane. Perché sulle violenze la ‘colpa’ maggiore non è sua. Gli indipendentisti non si sono fermati nemmeno davanti ad una pronuncia di incostituzionalità, spingendo i cittadini a scendere in piazza e ad andare a votare in massa per il referendum in un clima che poteva mettere a rischio la loro stessa incolumità. Poteva andare molto peggio di com’è andata e i leader di Barcellona hanno dimostrato una fortissima irresponsabilità di fronte alla quale se Rajoy avesse ceduto si sarebbero create delle condizioni molto pericolose, non solo in Catalogna ma anche in altre regioni autonome”.

Se la Generalitat della Catalogna rinunciasse alla indipendenza, ci sarebbe spazio per una maggior autonomia della regione accettabile anche per Madrid e non tale da scompaginare i complessi equilibri spagnoli?

“Questa è l’unica soluzione possibile. Sarà un equilibrio difficilissimo da raggiungere, ma i margini ci sono, è già stato fatto con altre regioni come i Paesi Baschi e si può fare con la Catalogna anche se con le dovute differenze. I Paesi Baschi hanno una peculiarità già riconosciuta nella Costituzione, Barcellona no. In quest’ultimo caso è dunque possibile che ci sia bisogno anche di una modifica costituzionale. Non sarà un processo banale, ma i margini per concedere un po’ più di autonomia fiscale ed economica ci sono.

È l’unica strada da percorrere per superare l’odierno estremismo. Il nodo da sciogliere non è se dare oppure no più autonomia alla Catalogna, ma come farlo. Sarà questo che determinerà quali equilibri si creeranno con il Governo di Madrid”.

Che ruolo può giocare la Chiesa spagnola nella crisi Madrid-Barcellona?

“La Spagna è un Paese molto cattolico. A livello pratico anche la Chiesa può contribuire ad avviare quella moral suasion di cui parlavamo prima insieme alle altre istituzioni internazionali.

Nel corso degli ultimi anni gli indipendentisti hanno puntato tantissimo sulla comunicazione esterna, realizzando una forte opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale. Hanno investito sulle ambasciate, hanno inviato delegati oltre confine, hanno spinto sulla percezione della cultura catalana all’estero provando a suscitare appoggio e simpatia fuori dalla Catalogna. Devono però capire che la simpatia internazionale c’è ma non riguarda assolutamente la lotta per l’indipendenza che invece viene condannata senza esitazione. Questo potrebbe spingerli ad avere un atteggiamento più responsabile.

In questo frangente è più la Ue ad avere strumenti per intervenire, anche se la posizione della Chiesa rimane importante e può contribuire alla causa. La società spagnola è molto intrisa di cattolicesimo, il ruolo di associazioni e di università come l’Opus Dei, l’Università di Navarra, la IESE Business School, tutti enti legati alla religione cattolica e al Vaticano, non è da sottovalutare”.

Che voto darebbe al Governo Rajoy, agli indipendentisti catalani e alle altre forze politiche spagnole nella crisi catalana?

“È difficile dare voti in una situazione come questa. La sufficienza non si può dare a nessuno, sono stati fatti errori su entrambi i fronti. Rajoy non ha saputo gestire la situazione, ma gli indipendentisti sono proprio usciti dal perimetro delle regole di convivenza civile, delle leggi, della Costituzione. Quando superi questi limiti è complicato anche avere dei parametri per valutare. Madrid si sarà messa nel torto a causa della sua rigidità, per l’incapacità di instaurare un dialogo ecc., ma gli altri hanno compiuto errori che vanno oltre la politica, che riguardano la civiltà, i rischi a cui hanno esposto i cittadini.

Per quanto riguarda la Monarchia, da Felipe non ci si poteva aspettare altro. Il Re rappresenta l’unità spagnola, è stato duro nel suo discorso alla Nazione ma non aveva alternative, anche perché deve farsi portavoce non solo di 7,5 milioni di catalani, ma anche e soprattutto di 38 milioni di spagnoli che vivono nel resto del Paese e che osservano questa situazione con rabbia e sgomento”.

Come hanno fatto gli indipendentisti a spingersi così oltre?

“È una crisi che si è acuita ma che ormai va avanti da tanti anni e le cause sono molte. Tutto ciò che è accaduto, lo spingere sulla volontà indipendentista dei catalani è servito ai politici della regione anche a oscurare le loro magagne. Parliamo in particolare di un partito che prima si chiamava Convergenza e Unione e oggi è diventato Convergenza democratica per la Catalogna che nel passato è stato colpito da scandali pesantissimi riguardanti corruzione, appalti, appropriazione di fondi pubblici, finanziamenti illegali. Non è un caso che l’esasperazione della causa indipendentista sia arrivata con le elezioni del 2012, è servito proprio a sviare il dibattito dagli scandali esplosi in quegli anni e a sopravvivere politicamente”.

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