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Tiella di Gaeta: non è una pizza, è un trattato gastronomico

E’ un piatto povero ma le sue origini risalgono al Rinascimento. Un piatto che abbraccia il mare e l’entroterra agricolo. La tecnologia della sfoglia di Bartolomeo Scappi che preservava il rimpimento da contaminazioni batteriche.

Tiella di Gaeta: non è una pizza, è un trattato gastronomico

La città di Gaeta ha recuperato negli ultimi anni uno dei cibi più poveri che contraddistinguono la sua storia: la tiella. Molti hanno ritenuto che fosse un termine dialettale, altri hanno pensato ad un’importazione dell’omonimo termine pugliese, altri ancora hanno pensato solo alla tipologia di tegame (teglia) nel quale viene cotta questa pietanza.

Il termine “tiella” entra nel vocabolario italiano, e non in quello dialettale, né tanto meno solo in quello borbonico, già in epoca rinascimentale come ci dimostra una dei tanti riferimenti tratti dall’opera di Cristoforo di Messisbugo del 1549. Numerose sono le opere che riportano questo termine, che identifica ora una teglia metallica e ora una tipologia di preparazione.

Oggi in Italia è possibile degustare una “tiella” a Teramo o a Taranto ma con ingredienti e una formulazione totalmente diversi e ancora più diversi rispetto a Gaeta dove il termine indica una “pizza ripiena”. Le virgolette sono d’obbligo, poiché molti ritengono che la pietanza sia una comune pizza ripiena che può essere servita in qualsiasi parte d’Italia, ma non è così.

Tiella natura morta
Tiella natura morta

Nel Rinascimento già si dispone della tecnologia della sfoglia come ci dimostra una miniatura di Bartolomeo Scappi e la sfoglia si presenta con un’ampiezza simile all’attuale. L’immagine non deve tuttavia ingannare, poiché il glutine non era ancora sufficientemente robusto per poter assicurare un’estensione e una elasticità e plasticità adeguata. Un’attenta lettura delle ricette dello Scappi ci consente di verificare che la farina era abbondantemente intrisa di strutto, che le conferiva plasticità durante la lavorazione e la necessaria rigidità al termine della cottura. Il Rinascimento è caratterizzato dalla suntuosità dei suoi banchetti e sulle tavole reali e aristocratiche troneggiavano degli enormi pasticci.

Le immagini di alcuni dipinti che raffigurano le nature morte di stile fiammingo nel tardo 600 ci riportano delle pietanze alte al cui interno si intravedono farcie molto ricche e traboccanti. La finalità di queste preparazioni consisteva nel destare lo stupore dei convitati al banchetto. Le numerose ricette di pasticci evidenziano ripieni ricchi di proteine (pesce, carne, verdure).

I dipinti ci restituiscono inoltre un involucro di pasta ben lavorato, alto, rigido, composto di due sfoglie, una superiore e l’altra inferiore, collegate tra loro da una sfoglia laterale. Sulla sfoglia superiore poteva essere apposto una sorta di cilindretto di pasta, forato al centro, attraverso il quale fuoriusciva durante la cottura il vapore acqueo che si liberava dal ripieno, solitamente acquoso.

Tiella antica iscrizione messisbugo

Lo svantaggio di questa pietanza era il suo impraticabile utilizzo poiché la farcia, troppo eccedente rispetto alla sfoglia, al momento dell’impiattamento si disgregava completamente e la sfoglia si separava dal suo contenuto.  

 Tuttavia questa strategia presentava un notevole vantaggio, in quanto la sfoglia di pasta, dopo cottura, preservava il suo contenuto da ulteriori contaminazioni batteriche potendone procrastinare nel tempo il suo consumo. Questa strategia vincente sotto il profilo alimentare viene col tempo recepita dai ceti meno abbienti i quali abbassano l’altezza del pasticcio sostituendo il ripieno proteico con gli alimenti che il territorio offriva nelle varie stagioni dell’anno. Gaeta, al centro dell’omonimo ducato nel X secolo, disponeva di ingredienti provenienti sia dal mare (polpi, alici) che dalla campagna (cipolle, scarola, broccoletti).

La struttura della città consentiva agli agricoltori di uscire al mattino presto per raggiungere le circostanti campagne per poi rientrare la sera; anche i pescatori, con orari diversi, soggiacevano a un’estrema mobilità tra il mare le prospicienti abitazioni. La funzionalità del cibo da strada e la sua capacità di soddisfare le esigenze nutrizionali divenne fondamentale per i ritmi lavorativi della città. Gaeta era stata per molto tempo dominio spagnolo e fu quindi facile gioco che l’aristocratica preparazione diventasse un cibo da strada, inserendo al suo interno le eccedenze di produzione che erano in tal modo preservate nel tempo.

Le famiglie contadine però non disponevano di sufficiente acqua e farina per realizzare grandi pasticci, né disponevano di quantità eccessive di strutto per dare consistenza all’impasto, ma disponevano dei ritagli della pasta residuale nella madia dopo la lavorazione del pane. I ritagli erano già fermentati, era sufficiente radunarli, riaggregarli di nuovo, rilavorati e per riottenere una nuova sfoglia, più esile utilizzando l’elasticità residua del poco glutine presente nelle farine.

Tradizionalmente si sopperiva alla scarsità della farina e alla ridotta tenacità del suo glutine aggiungendo della semola di grano duro, la quale essendo più proteica, assorbiva anche più acqua. Oggi la disponibilità di farine calibrate ha permesso l’eliminazione della semola, potendo scegliere tra farina 00 con frazioni di 0 e in minima parte anche di 1 che conferiscono maggiore sapidità rispetto alla sola farina 00. La strategia della sfoglia passa quindi dalle ricche tavole alle povere mense, ove ritrovava dignità e soprattutto stagionalità.

Gaeta povera di cereali riceveva i suoi sfarinati da Minturno e da Formia, ove si trovavano molti mulini e il territorio, soprattutto nell’800, era investito a cereali. La ricchezza di Gaeta erano i suoi orti, ove erano diffusi pomodori, scarole, cipolle, olive e il suo mare, dove studi recenti hanno potuto appurare che l’area marina antistante il golfo è una “nursery” di polpo verace (Octopus vulgaris).

Gaeta quindi diventa una grande economia di scambio tra i pescatori e i contadini in una simbiosi unica. Nascono le farcie tradizionali della tiella: polpo, pomodoro e olive, cipolle, scarola arricchita con olive, alici nella tarda primavera. La tiella di scarole riprendeva per molti aspetti quello che era un piatto tipico della tradizione borbonica e cioè la scarola ripiena (‘mbuttunata). In seguito ad un’ulteriore evoluzione dei ripieni tradizionali vi fu l’aggiunta del baccalà, quando per avverse condizioni del mare non era possibile disporre di pesce.

La tiella quindi non può essere ritenuta una pizza ripiena poiché la doppia lievitazione conferisce alle due sfoglie un ridotto spessore rispetto ad altri prodotti da banco con un evidente incremento della digeribilità.

 Sfoglie ottenute con ridotti tempi di fermentazione si presentano spugnose e indigeste, soprattutto lungo il dorso di sutura delle due sfoglie. Negli ultimi decenni la tiella ha subito due piccole ma interessanti innovazioni: ulteriore riduzione del ripieno e riduzione della sutura tra le due sfoglie. Ripieni troppo voluminosi non sono maneggevoli e durante il consumo del trancio tendono facilmente a fuoriuscire. Inoltre l’assottigliamento del bordo di sutura tra le due sfoglie rende maggiormente digeribile il dorso del trancio che tradizionalmente si presentava più secco e duro.

Il valore nutritivo della tiella viene poi a sua volta incrementato da una speciale tecnica con la quale sono lavorati i ripieni vegetali. Questi ultimi, infatti, non sono né lessati in precedenza né inseriti a crudo. Nel primo caso la bollitura comporterebbe una perdita preziosa di Sali minerali che renderebbero insipida la pietanza, nel secondo caso l’eccesso di acqua, che il ripieno rilascia alla sfoglia, la farebbe rigonfiare a dismisura rendendola spugnosa e fragile.

Le verdure, prima di essere immesse all’interno della sfoglia, sono lavorate lungamente a crudo con del sale il quale fa fuoriuscire per osmosi l’acqua in eccesso, riducendone il volume, prima di essere posta a cuocere in forno. L’acqua liberata dalle foglie dilava in gran parte il sale aggiunto in modo che il prodotto finale non risulti salato.

La tiella di Gaeta ormai viene realizzata con estrema ricchezza dei ripieni, secondo i nuovi abbinamenti che i “tiellari” della città hanno di volta in volta elaborato; restano i ripieni storici che sono ovviamente, intramontabili. Essa ha conquistato il marchio De.Co. (Denominazione Comunale) e come tale è stata finalmente tutelata da possibili contraffazioni.

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