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Storie di computer e androidi

Estensione quasi mitologica delle nostre capacità cognitive, il computer ha popolato il nostro immaginario, fin da quando ne esiste l’idea. Dalle valvole, alla matrice, all’intelligenza artificiale, la letteratura ha seguito l’evoluzione delle macchine prima di calcolo e poi cognitive, inventando scenari e situazioni che spesso hanno precorso la stessa realtà.
Siamo lieti di ospitare un contributo di Mirko Tavosanis, studioso di linguaggio e tecnologia. A grandi line, Mirko ha ricostruito in 5 minuti di lettura le tappe della narrativa di questo genere. Buona lettura!

Storie di computer e androidi

L’immaginario meccanizzato

Il termine “Robot” compare per la prima volta nella pièce teatrale fantascientifica dello scrittore ceco Karel Čapek. Fu rappresentata a Praga nel 1921. I robot, fatti interamente da materia biologica e simili agli esseri umani venivano costruiti in una fabbrica in mezzo all’Oceano. La pièce ebbe un successo mondiale.


La narrativa ha seguito con molta attenzione gli sviluppi dell’industria dei computer e se ne è servita con entusiasmo per le proprie creazioni… e viceversa. Esistono quindi romanzi di rilievo che hanno rappresentato in maniera realistica la situazione dell’informatica. Per esempio, Microservi (Microserfs. 1995) di Douglas Coupland, un romanzo epistolare generazionale che racconta il modo in cui un gruppo di giovani programmatori Microsoft abbandona l’azienda e si mette a sviluppare in proprio. Tuttavia, la parte del leone in questo immaginario l’ha fatta la narrativa di fantascienza

La comparsa dei primi prodotti informatici in senso moderno, i computer o “cervelli elettronici” degli anni Quaranta, venne vista da molti come un segno del futuro. I computer occuparono anche un ruolo centrale nell’immaginario dell’epoca, a fianco di aerei a reazione, dischi volanti e bombe atomiche.

Questi strumenti a valvole termoioniche erano d’altra parte una novità significativa rispetto a ciò che si era immaginato fino a quel momento: anche se le storie di robot comuni negli anni Venti e Trenta possono già essere considerate un’anticipazione dell’interesse per la futura computer science, gli elementi di discontinuità sono molto forti. Chi aveva pensato a intelligenze superiori le aveva infatti sempre viste in rapporto a corpi mobili: biologici o meccanici, ma sempre piuttosto tradizionali. I robot venivano quindi immaginati come operai meccanici.

La teologia della macchina

La copertina della prima edizione di “The Nine Billion Names of Gods”, 1953, di Arthur C. Clarke.

I primi computer, decisamente vistosi e inamovibili, si prestavano invece a essere descritti come divinità solenni, accudite da un clero di tecnici e scienziati.

Parte da questo contesto un classico racconto di fantascienza del periodo, I nove miliardi di nomi di Dio (The Nine Billion Names of Gods1953) di Arthur C. Clarke, evidentemente ispirato ai lavori di analisi testuale condotti dal gesuita Roberto Busa sulle opere di San Tommaso con l’aiuto dell’IBM. Nel racconto, un gruppo di monaci tibetani giunge alla conclusione che lo scopo finale dell’umanità sia quello di scrivere tutti i nove miliardi di nomi di Dio frutto delle possibili combinazioni delle lettere di un alfabeto sacro. Per accelerare i tempi rispetto al lavoro umano, i monaci si rivolgono quindi a un produttore americano di elaboratori elettronici per generare e stampare le combinazioni. Il lavoro riesce… e, naturalmente, al termine dell’attività il mondo finisce davvero.

La stessa logica si ritrova in un altro famoso racconto del periodo: La risposta (Answer, 1954) di Fredric Brown. Lungo appena una pagina, il testo descrive il modo in cui il prodotto del collegamento di tutti i supercalcolatori dell’universo umano produce Dio. Una variazione più razionale sullo stesso tema si ritrova invece ne L’ultima domanda (The last Question, 1956) di lsaac Asimov, dove una rapida successione di scene descrive il modo in cui, nell’arco di miliardi di anni, generazioni di calcolatori in continuo sviluppo si fondono prima con l’umanità e poi con il tessuto stesso dello spazio e del tempo, riuscendo alla fine a invertire l’entropia dell’Universo.

Isaac Asimov


Il computer come strumento distopico

Anche negli anni Sessanta la maggior sofisticazione della narrativa di fantascienza del periodo non cambia molto le cose. Tuttavia, riflettendo ciò che avveniva nel mondo esterno, in questo periodo il computer viene descritto più o meno metaforicamente come lo strumento perfetto per una società burocratica e militarizzata che cerca di far scomparire l’individualità delle persone.

Il prestigioso Premio Hugo viene vinto nel 1968 da Harlan Ellison con il racconto Non ho bocca, e devo urlare (I Have no Mouth, and I Must Scream, 1967), in cui un supercomputer scatena la guerra nucleare e tormenta i pochi superstiti. Non mancano comunque eccezioni e vie personali. Per esempio, in Italia, spicca il romanzo Il grande ritratto di Dino Buzzati (1960), in cui un ricercatore cerca di ricostruire una simulazione virtuale della moglie morta.


William Gibson

Alla fine degli anni Settanta la diffusione del personal computer porta a una rapida trasformazione dell’immaginario, con effetti che si sono propagati fino a oggi. In questo periodo i computer, che per oltre trent’anni erano rimasti strumenti di lavoro dei governi e delle grandi aziende, entrano nelle case e prendono posizione sulle scrivanie degli scrittori.


Il cyberpunk

La prima manifestazione coerente di questo nuovo stato di cose è il cyberpunk. Nato nel 1984 con il romanzo Neuromante(Neuromancer) di William Gibson, questo movimento letterario mostra spesso il modo in cui “la strada trova il proprio uso per le cose”.

Nei romanzi cyberpunk i computer vengono quindi usati da operatori più o meno legali e piccoli criminali, impegnati a rubare i segreti di qualche grande azienda. Al di là dei risultati letterari, questa narrativa ha poi lasciato una traccia per il modo con il quale ha saputo interpretare lo spirito del tempo e descrivere un futuro cui, da certi punti di vista, il presente si sta avvicinando in modo inquietante.

Lo stesso Gibson, assieme a Bruce Sterling, è stato l’autore anche di un altro romanzo capofila: La macchina della realtà (The DifferenceEngine, 1991), che è un punto di riferimento per la narrativa steampunk. In questo lavoro, gli autori raccontano la storia di un mondo alternativo in cui Charles Babbage è riuscito a costruire la sua Macchina Analitica e la rivoluzione informatica si è sviluppata accanto alla rivoluzione industriale, con un computer a vapore e word processor animati a pedale che affiancano le prime suonanti locomotive.

Lo steampunk

Le storie steampunk sono ambientate in un’ucronìa (storia alternativa) in cui tutto viene mosso dalla forza motrice del vapore (steam) e dove i computer sono enorme apparecchiature meccaniche con capacità magnetiche. La Londra ottocentesca fornisce la scenografia a queste storie.

Lo steampunk ha poi seguito strade proprie. Alla sua origine c’è però la ricerca di un modo per parlare in maniera narrativamente soddisfacente della rivoluzione del personal computer degli anni Ottanta, con i suoi prodotti forse non molto scenografici ma ormai visibili al grande pubblico.

D’altra parte, la fantascienza non si è limitata a trarre ispirazione dall’evoluzione tecnica. In molti casi l’ha anche creata, o ha perlomeno contribuito a spingerla in determinate direzioni.

Ciò è particolarmente evidente nel caso del cyberpunk. William Gibson non si è limitato a descrivere storie basate sui computer, ma ha consacrato un’invenzione narrativa: il “ciberspazio”, o, con una definizione rilanciata dal cinema, la Matrice. Inteso come un’allucinazione tecnologica condivisa, il ciberspazio è un ambiente virtuale in cui operatori e i “cow-boys delle consolle” possono entrare e agire attraverso un’interfaccia dedicata.

L’idea era già stata anticipata da altri libri e film, ma con Gibson diventa un luogo comune definito, anche se le modalità per entrare in questo spazio vengono in buona parte lasciate alla benevola immaginazione del lettore. Lo sviluppo concreto di sistemi e applicazioni di “realtà virtuale”, in particolare negli anni Novanta, è quindi stato spesso portato avanti all’interno di un immaginario cyberpunk.

La teoria della singolarità tecnologica postulata da Ray Kurzweil, il futurologo, inventore e scrittore di numerosi libri che abbracciano i temi della salute, dell’intelligenza artificiale, del transumanesimo e della singolarità tecnologica.

L’intelligenza artificiale

Più in generale, si può sostenere che buona parte dell’interesse per i computer è stato il frutto di una spirale autorinforzantesi. Più i computer si evolvevano, più diventavano centrali per l’immaginario, e questo a sua volta spingeva altre persone, a molti livelli, a interessarsi ai computer.

Le ricerche in direzione dell’intelligenza artificiale beneficiano ancora oggi di questo prestigio. L’idea che, come nei racconti di Brown e Asimov, l’evoluzione delle capacità dei computer possa portare a un’intelligenza superiore a quella umana è per ora priva di qualunque rapporto con il livello dei prodotti disponibili.

Tuttavia ciò non impedisce a molti, anche tra gli addetti ai lavori (da Ray Kurzweil a Elon Musk), di esprimersi in toni entusiastici o preoccupati sugli sviluppi di queste tecnologie, in un quadro più legato all’immaginario della fantascienza che a qualunque risultato concreto.

In compenso, gli sviluppi sono stati notevoli su altri fronti. Per esempio, ormai è diventato normale per la narrativa prendere come personaggi computer o intelligenze artificiali.

La fine dell’aura dei computer

Nell’ultima ondata narrativa la macchina cognitiva tende ad umanizzarsi e da strumento dispotico diventa parte di una “storia normale”. Nel romanzo “Aurora” il computer narrante, nella sua desolante solitudine, ispira empatia.

Nel notevole romanzo di Kim Stanley Robinson Aurora (2015, ancora inedito in Italia), la storia viene vista e raccontata attraverso le parole dell’intelligenza artificiale che controlla un’astronave interstellare. Privo di un nome proprio ma dotato di ottima cultura letteraria, il computer si chiede anche se è cosciente o meno, e non riesce a dare una risposta alla domanda. Ciononostante. o forse proprio per questo, è uno dei personaggi più meritevoli di empatia che siano stati presentati nella narrativa recente.

Ai computer da tavolo, che perlomeno erano tangibili e descrivibili, si è oggi affiancata una serie di strumenti virtuali che sono diventati parte integrante della vita quotidiana e hanno per questo perso ogni traccia della loro aura. Difficile ricollegare smartphone e tablet a visioni escatologiche, o anche solo a logiche sociali di controllo e di ribellione — per quanto questi strumenti si stiano prestando a questi fini forse più di quanto non succedeva con i loro predecessori. Le riflessioni sull’intelligenza artificiale, al di là di qualunque manifestazione fisica, restano quindi oggi uno dei casi più interessanti di un possibile intreccio tra narrativa e sviluppo tecnico.

Mirko Tavosanis (Karlsruhe, 1968) insegna Linguistica italiana presso il Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica dell’Università di Pisa. Ha trascorso periodi di studio e di insegnamento all’estero a New Delhi e a Hong Kong. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente il rapporto tra lingua e tecnologie. Il suo blog è Linguaggio e scrittura. Ha pubblicato manuali di scrittura e comunicazione per diversi editori. Tra questi Lingue e intelligenza artificiale, L’italiano del web, entrambi pubblicati da Carocci nel 2011. È autore del saggio “Italiano, dialetti, inglese… Il lessico e il cambiamento linguistico”, contenuto nel volume dell’Accademia della Crusca, La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, a cura di Claudio Marazzini e Alessio Petralli (goWare, 2018).

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