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Senza i tre pionieri (Lucchini, Marcegaglia e Riva) che futuro avrà la siderurgia italiana?

Con la recente scomparsa di Lucchini e Marcegaglia e il tramonto di Riva finisce la generazione dei pionieri che fece della siderurgia italiana la seconda d’Europa: resta solo Amenduni – E’ ora di affrontare la “Questione siderurgica nazionale” e di lanciare un appello a una nuova generazione di imprenditori perchè scendano in campo e uniscano le forze

Senza i tre pionieri (Lucchini, Marcegaglia e Riva) che futuro avrà la siderurgia italiana?

Nel giro di poche settimane abbiamo salutato, al termine di una lunga e laboriosa vita, due grandi protagonisti dell’acciaio italiano: Luigi Lucchini e Steno Marcegaglia. Con la fine imprenditoriale di Emilio Riva pare concludersi la storia di una generazione che ha saputo costruire nel dopoguerra la seconda siderurgia europea. Rimane, forte di età, di salute e di capitali, Nicola Amenduni a presidiare quella generazione di pionieri.

La seconda generazione, quella degli eredi, resta arroccata nei propri stabilimenti di famiglia, caratterizzati in gran parte da una produzione a basso valore aggiunto come il tondo per cemento armato, legati al rottame e ad un mercato che possiamo ormai definire “ regionale”. In quei loro fortini produttivi hanno concentrato, da anni, capitali ed investimenti indirizzati ad una continua innovazione tecnologica ed energetica per potersi difendere da una concorrenza favorita da fattori di costo del tutto impensabili nell’Europa comunitaria.

Eppure questa ultima generazione oggi non può sottrarsi da una riflessione strategica di fronte allo sfarinarsi dell’impero dei Riva e alla fine ingloriosa della Lucchini di Piombino. C’è chi vuole guadagnare del tempo reclamando un “Piano” illudendosi di poter ripristinare regole dirigistiche o interventi statuali resi impossibili dai vincoli europei e dalla realtà dei nostri conti pubblici. A costoro si risponde con l’urgenza di aprire una riflessione costruttiva sulla “Questione siderurgica nazionale” per non buttare a mare la spina dorsale dell’acciaio italiano che è parte decisiva della qualità e della competitività della nostra industria meccanica. 

Se non si affronta la “ Questione siderurgica” l’agonia di Piombino e i cavilli giuridici di Taranto finiranno per distruggere un patrimonio di competenze professionali e di mestiere con la certezza di svegliarci, tra pochi anni, senza più alcuna competenza nella gestione e nella progettazione della siderurgia da minerale o da altoforno.

Che fare? Il Ministro ha, a mio avviso, una sola strada, che non è certamente quella di invocare dal sistema bancario un sostegno finanziario alla gestione ordinaria e temporanea dei siti siderurgici. Deve in primo luogo prendere atto e confermare alla politica che rotaie, vergelle, travi, coils, lamiere, bramme rischiano di uscire definitivamente dall’orizzonte della siderurgia italiana, restringendo del tutto la base produttiva del settore. Prima di iniziare con Bruxelles qualsiasi discorso sul sostegno alla riconversione tecnologica e alla salvaguardia ambientale o di mettere in pista tavoli e concertazioni di sorta, Zanonato deve poter contare su una futura gestione dei siti da parte di una nuova imprenditoria,coraggiosa,di mestiere e lungimirante. 

Ci sono nella siderurgia privata uomini ricchi di capacità e di capitali,oggi attestati sulle loro imprese personali. Ci sono imprenditori della impiantistica siderurgica che hanno conquistato primati e successi a livello internazionale. Ci sono le condizioni per spingerli ad una azione in comune ,costruendo una leadership indiscussa e le condizioni essenziali per poter affrontare i tempi dei nuovi assetti azionari. La politica deve fare questo. Il credito, come la sussistenza napoleonica, seguirà.

La sospensione delle attività di gran parte delle aziende del Gruppo Riva ha accelerato l’urgenza di una risposta positiva e costruttiva. Al Paese non interessa il braccio di ferro che da tempo si è instaurato tra il palazzo di Giustizia tarantino , il Governo e il Gruppo Riva. Interessa sapere se possiamo fare a meno dell’acciaio di Taranto e di Piombino diventando importatori netti, marginalizzando al declino il manifatturiero che ha fatto forte l’Italia. Chi vuole, al contrario, difendere questa trincea produttiva, lavori per chiamare al dovere imprenditoriale gli eredi di quella coraggiosa schiera di siderurgici che ha saputo imporsi con successo negli anni del dopoguerra.

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