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Scuola, perché Draghi punta sull’istruzione tecnica degli ITS

La scuola ha un posto centrale nella strategia del nuovo Governo ma la maggior novità è l’intenzione del premier di scommettere sugli Istituti tecnici superiori sul modello tedesco e francese che possono offrire concrete possibilità di lavoro ai giovani

Scuola, perché Draghi punta sull’istruzione tecnica degli ITS

C’è la scuola fra gli argomenti di maggiore importanza affrontati dal neo presidente del Consiglio, Mario Draghi, nelle sue Dichiarazioni programmatiche svolte mercoledì scorso nell’Aula del Senato e, poi, subito consegnate alla Camera dei Deputati.

Significativamente, la scuola figura fra “le priorità per ripartire” insieme al “piano di vaccinazione”. Il presidente Draghi, dopo aver sottolineato la necessità di tornare a un orario scolastico normale e di recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, ha tratteggiato i contorni di un disegno riformatore – pienamente coerente con la “Nuova Ricostruzione”, che è il fil rouge del suo discorso – articolato su tre capisaldi: la “transizione culturale”, gli “Istituti tecnici”, la “ricerca”. Vediamoli distintamente.

Sul primo punto, Mario Draghi ha affermato: “Siamo chiamati a disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo”. È poi necessario – ha aggiunto – “investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni”.

Veniamo così condotti al secondo caposaldo, per molti versi quello più dirompente (in senso positivo) rispetto alla conservazione dello status quo. Sostiene Draghi: “Particolare attenzione va riservata agli ITS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. È stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 miliardi agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate”.

Si tratta – come ha annotato il Corriere della Sera commentando il discorso di Draghi (18 febbraio) – “di percorsi biennali composti per metà di tirocinio nelle aziende e per metà di studio accademico rivolto ai diplomati delle scuole superiori che si affianca a quello universitario”. Quando, nell’estate scorsa, si iniziò a discutere del possibile e auspicabile coinvolgimento delle Regioni italiane nell’elaborazione dei progetti per il NextGenerationEU, identificammo proprio nella formazione tecnica superiore “alla tedesca” – e rinvio all’articolo del 18 agosto 2020 pubblicato su queste colonne – uno degli ambiti privilegiati per una fruttuosa partnership Stato-Regioni.

Le Fachschule, che gli stessi Länder tedeschi presentano al mondo sotto il nome di University of Applied Science, sono fortemente ancorate ai loro territori di insediamento e contribuiscono grandemente a sostenere le specializzazioni produttive della manifattura tedesca (nell’articolo di agosto portammo il caso del Baden-Württemberg). 

Esse hanno quasi un milione di iscritti: ossia, quasi un milione di giovani che hanno trovato la palestra – si passi l’espressione – per coltivare i propri talenti nell’ambiente a loro più favorevole. Da noi, si sa, gli studenti iscritti a questo percorso post-diploma non arrivano a 20.000, e sono largamente concentrati nelle tre regioni del “nuovo Triangolo industriale” (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), che hanno istituito Fondazioni ad hoc (Lombardia Meccatronica, Rete Politecnica dell’Emilia-Romagna, ITS Academy Veneto). Alla fine del biennio, i tassi occupazione dei giovani che escono da questi ITS sono altissimi, compresi fra l’80 e il 90%. Ma a fronte di ciò vi sono nel Paese più di 2 milioni di NEET, vale a dire di giovani che non studiano né lavorano. Ora, possiamo tollerare, anzitutto dal punto di vista morale, un tale spreco di risorse umane, di capacità, di talenti?

Il potenziamento dell’Istruzione tecnica superiore, da realizzare lungo le linee evocate dal presidente Draghi e mettendo a profitto le migliori esperienze regionali, potrà così contribuire a un duplice obiettivo. Ossia, offrire a un maggior numero di giovani italiani una chance concreta di vita e di lavoro; immettere nel mercato del lavoro le competenze di cui le imprese hanno davvero bisogno per affrontare – secondo la definizione della Commissione europea – la “duplice transizione, ecologica e digitale”.

Un aspetto importante riguarda il ruolo delle Regioni, che per voce del presidente della loro Conferenza nazionale, Stefano Bonaccini, hanno giustamente richiesto sin dalla scorsa estate di essere coinvolte nella stesura, prima, e implementazione, poi, del Recovery Plan. Le proposte che ognuna di esse – su questo come su altri possibili temi – porterà al tavolo nazionale, dovranno essere il frutto di esperienze effettivamente vissute sul proprio territorio; il frutto, in altri termini, di “buone pratiche” che possano essere condivise col Paese nel suo insieme. Crediamo che questo sia l’esatto contrario di una sterile rivendicazione del proprio interesse, del proprio “particulare”.

Infine, vi è – come dicevamo all’inizio – un terzo caposaldo nella parte del discorso del neo presidente del Consiglio riferito alla scuola e, più in generale, all’investimento in capitale umano: “La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica” – ha affermato Mario Draghi – “stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici”.

Concentrando, in questa sede, la nostra attenzione sulla ricerca applicata, è ancora una volta il “modello tedesco” – o, se vogliamo, il “capitalismo renano” – a offrire l’esempio cui guardare: il Fraunhofer Gesellschaft (ma lo stesso potrebbe dirsi per la ricerca di base se si pensa ai Max Planck Institutes). Al pari delle loro Università delle Scienze Applicate, gli Istituti del Fraunhofer sono molte decine e sono diffusi sul territorio di tutti i Länder (si veda sempre l’articolo del 18 agosto 2020). La manifattura tedesca – che è la prima in Europa, fra le primissime al mondo e si caratterizza per tante eccellenze a medio-alto e alto contenuto tecnologico – trova in questi Istituti un interlocutore fondamentale, che consente alle loro PMI di passare dalle nuove idee allo sviluppo pre-competitivo dei prodotti.

In conclusione, possiamo dire che larga parte della “Nuova Ricostruzione” è affidata alle riforme che il Paese saprà realizzare nel campo della scuola, della formazione dei giovani, della ricerca: in una parola, nel campo degli “investimenti in conoscenza”, per dirla col titolo di un bel libro di Ignazio Visco (Mulino, 2014), che con Mario Draghi ha lavorato a stretto contatto negli anni della Banca d’Italia e della BCE.

In un altro dei suoi celebri discorsi – quello svolto per la Laurea honoris causa in Economia conferitagli dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, 11 ottobre 2019) – il professor Draghi parlò delle “caratteristiche frequenti nelle decisioni che consideriamo ‘buone’”: ossia, “conoscenza, coraggio, umiltà”. Serviranno tutt’e tre in questo delicato passaggio della nostra storia repubblicana. E dovranno diventare patrimonio comune di tutta la classe dirigente del Paese, che in una sua parte non piccola sembra comportarsi seguendo caratteristiche che sono l’esatto contrario di quelle tre. Ma i tempi sono cambiati.

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