Condividi

Sapelli: “Il Sudamerica non è solo il Venezuela, ma il ciclo virtuoso è finito”

INTERVISTA DEL WEEKEND a GIULIO SAPELLI, ordinario di Storia economica all’Università Statale di Milano e grande esperto di America Latina – “Il Venezuela ha preso il peggio del modello cubano ed è sfociato in dittatura a seguito della disgregazione dei partiti storici in atto in tutto il continente: il peronismo è morto e sepolto e la corruzione ha distrutto il sistema politico” – Il caso del Brasile e quello dell’Argentina – A Cuba il rischio è che si fermi il disgelo.

Sapelli: “Il Sudamerica non è solo il Venezuela, ma il ciclo virtuoso è finito”

“Il ciclo virtuoso dell’America Latina è finito. Ha beneficiato per un periodo dell’alto prezzo delle materie prime, soprattutto del petrolio. Poi è stato stroncato da politiche economiche sbagliate, con il colpo di grazia ricevuto dal peronismo di Cristina Kirchner in Argentina e poi da quello che sta succedendo in Venezuela”. Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica all’Università Statale di Milano e grande esperto di Sudamerica, traccia con FIRSTonline lo stato dell’arte di un continente da sempre terra di forti tensioni sociali e di ripetute ingerenze colonialistiche. “Il modello da seguire per rilanciare l’economia è quello di Bolivia e Uruguay, con l’incognita però della sua applicabilità in Paesi molto più grandi, dove in Parlamento ci sono decine di partiti e troppi interessi in gioco”.

Professor Sapelli, partiamo dal caso più attuale e drammatico: che cosa sta realmente accadendo in Venezuela?

“Pur essendo un caso abbastanza sui generis nella storia dell’America Latina, in quanto mix tra la rivoluzione militare di Juan Algarado in Perù negli anni ’70 e il modello cubano, il caso venezuelano non è altro che il risultato di un processo in atto da ormai 15 anni in Sudamerica, e cioè la disgregazione dei partiti storici. Il peronismo è morto e sepolto, e la corruzione ha distrutto il sistema politico. In alcuni casi, come in Brasile, è stata montata dagli Stati Uniti attraverso una certa influenza sulle mosse della magistratura. Ma anche in Perù gli ultimi quattro Presidenti sono tutti indagati per corruzione. I partiti tradizionali, comunque, avendo avuto sempre una tendenza nazionalistica, hanno patito la globalizzazione rivelandosi in molti casi inadeguati, soprattutto laddove si è sfociati nelle dittature militari”.

Come in Venezuela.

“Il Venezuela, soprattutto con Maduro – perché almeno Chavez aveva maggiore consenso – ha preso il peggio del modello cubano e cioè affidare la gestione economica del Paese alle forze militari, quello che io chiamo cheguevarismo. L’ispirazione al Perù di Algarado, che è stata la prima rivoluzione militare di sinistra del Sudamerica, era invece più corretta in quanto andava nell’ottica della nazionalizzazione, che è una strada imprescindibile per le economie sudamericane, purché perseguita democraticamente come ad esempio in Bolivia o in Uruguay, ma anche in Ecuador. E’ un dato di fatto che questi Paesi, che non hanno aderito al programma di austerity imposto dall’Fmi, non siano caduti nella spirale inflazionistica come altri e abbiano un debito estero non così alto. Anzi, per dirla tutta nello stesso Brasile la crisi è peggiorata proprio quando Dilma Rousseff ha aderito al programma dell’Fmi”.

In Venezuela l’inflazione è al 1600% e la situazione sta sfuggendo di mano. Quanto pesano il petrolio e l’ingerenza di Paesi stranieri?

“Il calo del prezzo del petrolio c’è stato ma in questo caso c’entra poco, la colpa è stata la cattiva gestione soprattutto da parte di Maduro. Chavez era un po’ diverso, la sua era una dittatura soft sul modello del Brasile degli anni ’70, anche se non c’entrava nulla col bolivarismo: la verità è che in Venezuela come in buona parte del Sudamerica è ancora Cuba ad avere un ruolo ideologico fortissimo. Gli Usa al momento non sanno come muoversi: non gli conviene più sostenere un golpe come fatto in passato in altri Paesi, perché avrebbero tutto l’esercito contro, e nemmeno montare casi giudiziari alla Mani Pulite come in Brasile, perché Maduro ha già occupato quelle cariche. Una soluzione, in linea ipotetica, potrebbe essere di creare uno stato fantoccio sul modello Ruanda, per giustificare un conflitto”.

Su Caracas c’è anche l’ombra di forti interessi, economici e strategici, di Russia, Cina e India.

“Certamente, ed è proprio per questo che non sarà facile mandare via Maduro. Putin non gli è ostile: potrebbe non aver più bisogno del suo petrolio, ma ha sempre a cuore l’area caraibica in virtù dello storico legame con Cuba. L’azienda petrolifera cinese ha investito negli ultimi anni decine di miliardi di dollari per l’estrazione di petrolio in Venezuela, tramite fusioni o acquisizioni con realtà locali, mentre la stessa India importa greggio dal Venezuela dopo le sanzioni all’Iran”.

La crisi del Venezuela non è certamente la fotografia dello stato di tutta l’America Latina ma l’impressione è che per quel Continente gli anni migliori siano alle spalle.

“Sì, il Sudamerica sta chiudendo un ciclo che aveva beneficiato di prezzi molto alti sulle commodities, in particolare il petrolio ma non solo, anche i minerali e altre risorse naturali di cui è ricco. Poi le crisi politiche di cui abbiamo parlato e soprattutto il modello economico della Kirchner in Argentina, che è la seconda economia del continente e da sempre un riferimento di politica economica, hanno dato il colpo di grazia. La Kirchner ha messo in atto un protezionismo scellerato, imponendo ad esempio dazi all’esportazione della carne, che poteva rappresentare un ciclo alternativo alle materie prime: il risultato è che oggi l’Uruguay, piccolo Paese di 3 milioni di abitanti, produce più carne dell’Argentina”.

A proposito di Uruguay, il progetto di Mujica è stato uno dei pochi virtuosi degli ultimi anni.

“E’ da lì che il Sudamerica deve ripartire: nazionalizzazione dell’economia, lotta alla corruzione, investire le rendite non nell’assistenzialismo come si è fatto in Argentina ma per sostenere l’imprenditorialità, anche piccola, come ha fatto Evo Morales in Bolivia. Morales ha gestito nel miglior modo possibile il conflitto tra gli indios e la borghesia bianca del Paese. Ha realizzato un ‘indigenismo pacifico’, portando la popolazione andina a creare una piccola borghesia industriale e non più solo rurale. E’ stato un rivoluzionario borghese, come quelli europei dell’800”.

Però i modelli Bolivia e Uruguay sono difficilmente replicabili.

“Sì perché si tratta di Paesi piccoli, molto più complicato è stato e sarà ad esempio in Brasile, Paese di 200 milioni di abitanti con decine di partiti in Parlamento, spesso corrotti e influenzati da troppi interessi in palio”.

Che dire invece dell’Argentina di Macri? Nel 2017 secondo alcune stime sarà il Paese latinoamericano a crescere di più e pochi mesi fa ha lanciato un bond a cent’anni. Anche l’inflazione si sta normalizzando, per quanto sia ancora intorno al 20% (ma con il governo precedente era al 40%).

“Macri è meglio dei Kirchner ma deve capire che l’Argentina non è l’Inghilterra e che Buenos Aires non è l’Argentina. Bene che gli investitori internazionali tornino a investire nel Paese, e in questo senso il bond centennale è un’operazione interessante che riposiziona l’Argentina all’attenzione dei mercati, ma serve anche stabilità politica. Non deve cadere nell’errore di Menem, che fece una politica troppo di destra con risultati disastrosi. La popolazione argentina sta ancora pagando il prezzo, con Macri l’economia riprende a girare ma per ora il cittadino medio non se ne sta avvantaggiando, anzi il costo della vita è aumentato (l’ultimo dato sui prezzi al consumo parla di un +22%, secondo al mondo solo all’Egitto, ndr): deve concedere qualcosa alle politiche sociali, non può permettersi di subire uno sciopero al giorno”.

La riapertura verso i mercati internazionali è la vera discontinuità di Macri col protezionismo peronista, che dimostra quanto pericoloso possa essere quel tipo di approccio. E’ un monito anche per Trump?

“C’è protezionismo e protezionismo. Quello di Trump è in realtà più ideologico e propagandistico: il suo segretario di Stato, Rex Tillerson, è l’ex Ceo della Exxon, dunque figuriamoci se l’intenzione è davvero quella di isolarsi dai mercati, a maggior ragione da quello petrolifero che vive di scambi. Trump pratica al massimo un protezionismo selettivo, per tutelare alcuni settori in difficoltà come l’industria, e non è poi una scelta così peregrina”.

Come immagina il futuro di Cuba dopo la morte di Fidel Castro e l’arrivo di Trump alla Casa Bianca? Il disgelo è a rischio o andrà comunque avanti?

“Purtroppo è a rischio. Quella del disgelo fu una delle poche mosse azzeccate da Obama in politica estera. Cuba è un modello familiar-militare, uno scandalo. Però le sanzioni vanno tolte, le sanzioni hanno dimostrato di essere una cosa negativa ovunque, per i Paesi colpiti e per l’economia globale. Se Trump ferma questo processo sbaglia, anche perché Raul Castro rispetto al fratello sembra più predisposto al dialogo”.

Commenta