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Sanremo fuori dal tempo, troppi show e poche canzoni

Puntate lunghissime, canzoni deboli e troppi show: annoia il 62esimo Festival di Sanremo – Le polemiche su Celentano e lo spacco di Belen – Lo specchio di un’Italia culturalmente impoverita.

Sanremo fuori dal tempo, troppi show e poche canzoni

“Perchè Sanremo è Sanremo”. Era questa la sigla tormentone, composta da Pippo Caruso, del festival del ’95 (e da allora diventata simbolo del Festival), un motivetto garbato accompagnato da quella frase furbetta, una strizzata d’occhio che entrava nelle case d’Italia e ci rimaneva e, se eri bambino, ti ritrovavi a ripeterla a tuo fratello senza neanche averla ben capita, scrollando le spalle come gli adulti, “perchè Sanremo è Sanremo”.

Fin qui ci siamo. Ma cos’è Sanremo, questo Sanremo, oltre ad essere, tautologicamente, se stesso? È uno show noiosissimo, di pantagruelica lunghezza, pieno di frizzi, lazzi e show e povero di canzoni (si va dal sempre presente e sempre uguale Renga alla pessima Dolcenera, passando per Finardi) .

È il palco grigio (illuminato come un discopub del centro) scelto dal 64enne Celentano, che dondola su se stesso con la presenza scenica di una stampella, per lanciare strali demagogici e regolare conti privati amplificandoli nella cassa di risonanza più grande d’Italia, per poi ricordarsi, tra una cazzata e l’altra, quantomeno di saper ancora cantare, mentre la chiacchera nazionale si arricchisce dei mormorii sul vertiginoso spacco di Belen e della fondamentale domanda: “ha gli slip oppure no”? (la risposta è sì, come ci ricorda cortesemente la dettagliata fotogallery de La Repubblica).

Intanto si sprecano i “cazzo”, per poi deprecarli (persino Morandi, per stare al passo coi tempi, ne ha proferito uno, in apertura, piuttosto straniante), e quando il dj Martin Solveig viene messo a cantare un suo successo di qualche anno fa dalla platea dell’Ariston, per solito ingessata come un ministro tecnico, una piccola folla di giovani, magari prezzolati, si alza in piedi per battere le mani ancheggiando fuori tempo.

In tutto ciò c’è Morandi che cerca con esiti imbarazzanti di fare da spalla ai Soliti idioti, i dirigenti Rai in prima fila che non sanno bene quando applaudire, la giuria demoscopica (che si è ritrovata, dopo i disagi della prima serata, a votare con carta e penna) che fa la ola come la curva al derby del cuore e il buon Papaleo che cerca di riempire, con la sua naturale simpatia, i vuoti di sceneggiatura degli autori, tra cui spicca (onestamente non saprei dire in che senso) il nome di Moccia.

“Perchè Sanremo è Sanremo”, e forse è proprio questo il problema. Sanremo è Sanremo, e lo è da 62 anni, è uno spettacolo vecchissimo e sempre uguale a se stesso, profondamente stanco e democristiano, ancorato ai canoni culturali della tv generalista che procedono e si aggiornano al passo di una tartaruga addormentata, mentre il calcolo ossessivo degli indici d’ascolto trasforma il pubblico a casa in un algoritmo collettivo dell’inerte consenso a un’illusoria cultura (?) di Stato.

Eppure, nonostante questo, nonostante sia un dinosauro fuori da ogni tempo reale, in qualche modo Sanremo rimane uno specchio involutamente aggiornato dell’Italia, uno spettacolo sotto il livello del mare che disegna un mondo irreale e autoriferito e parla un linguaggio a sé stante e che, però, nonostante tutto questo, riesce ancora, specchio mostruoso e deformante, a riflettere un paese culturalmente impoverito.

Ci si sente conniventi, a scriverne, complici in qualche modo della ridondante celebrazione dell’inutile, di un evento ormai meramente tautologico (“Perchè Sanremo è Sanremo”), che è evento solo in quanto tale, per diritto acquisito e non rinnovato. Per una settimana occupa giornali e televisioni, per poi scomparire nella sua vanità perchè niente è cambiato (e tutto, anzi, rimane sempre pronto per l’eterno ritorno di Pippo Baudo), un perverso gattopardo convinto ancora di essere il sale del mondo, scortato nel suo lento cammino annuale verso l’oblio mediatico dal solito teatrino stanco di polemiche precotte (con spuntature di commissariamenti) e dal perenne coro di voci, come questa, che deprecano, criticano, denunciano noia e insensatezza. E poi si ripropongono, quest’anno come ogni anno, a deprecare e criticare e denunciare, nell’attesa di non si sa bene cosa. Forse che dall’ultima fila, timida, se ne alzi un’altra, di voce, una diversa, che dica che possiamo essere migliori di così.

 

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