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Salvataggi bancari e dubbi costituzionali: il precedente dell’Austria

Gli interventi comunitari e nazionali in materia di “risoluzione delle banche” sollevano molti dubbi costituzionali sulle azioni che investono i diritti dei soci e degli obbligazionisti bancari – Rilevante è il caso dell’Austria dove la Corte Costituzionale ha abrogato la legge che azzerava le obbligazioni subordinate dell’Alpe Adria Bank International.

Salvataggi bancari e dubbi costituzionali: il precedente dell’Austria

I dubbi di costituzionalità  da più parti (ABI, Assopopolari ecc.) sollevati con riguardo ai recenti interventi di “risoluzione delle banche”, che addossano indiscriminatamente a soci e creditori (obbligazionisti, depositanti qualificati ecc.) l’onere economico delle crisi bancarie, trovano piena conferma nell’orientamento di un altro Paese UE; ci si riferisce alla recente sentenza 3 luglio 2015 della Corte Costituzionale austriaca (G.239/ 2014 UA, V14/2015 UA). Secondo tale  Corte, una legge che, in caso di crisi, estingua il diritto degli obbligazionisti subordinati di una banca o azzeri le garanzie prestate in loro favore è contraria ai fondamentali principi costituzionali, nazionali e comunitari, e deve, perciò, essere abrogata. In conseguenza, è stata dichiarata incostituzionale e integralmente abrogata la legge sulle misure di risanamento della Hypo Alpe Adria Bank International AG (HaaSanG), che decretava l’azzeramento del valore delle obbligazioni subordinate e l’estinzione della garanzia fideiussoria prestata dal Land della Carinzia in loro favore.

La vicenda della menzionata banca austriaca è, quindi, di rilevante importanza per valutare quella delle quattro banche italiane (Banca Marche, Etruria, Ferrara e Chieti), che – come è noto –  ha indotto il Governo ad emanare un decreto legge per il loro “risanamento”, oggetto delle recenti polemiche che stanno scuotendo il sistema bancario.

A ben considerare, la decisione della Corte austriaca mette a nudo il punto nevralgico dell’intero sistema normativo (comunitario e nazionale) di “risoluzione delle banche” (singolare eufemismo che sottace il riferimento alla “crisi”, oggetto effettivo della c.d. “risoluzione”), con il quale si pone a carico degli azionisti e di alcune categorie di creditori il costo del risanamento bancario. Nel ‘caso Italia’ il recepimento della normativa comunitaria (Direttiva 2014/59 /UE e Regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio) a livello nazionale (D. Lgs. 16 novembre 2015 nn. 180 e 181) è avvenuto sottolineando che al manifestarsi di un dissesto o anche solo di un “rischio” di dissesto della banca l’autorità di risoluzione può adottare provvedimenti con i quali  i diritti soggettivi dei soci e quelli di alcune categorie di creditori sono “ridotti o convertiti” (mediante il “bail in”, artt. 17, 51 e 52 del D. Lgs. 180/2015).

In Italia come in Austria, si è attuata in via anticipata l’applicazione di queste disposizioni, con l’imposizione delle misure di matrice comunitaria mediante leggi-provvedimento che hanno determinato la sostanziale espropriazione di quei diritti. Nella seconda, l’incostituzionalità delle norme è stata dichiarata a causa della contrarietà delle incriminate disposizioni di legge e regolamentari sia ai principi della Carta costituzionale austriaca sia all’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., che garantisce il diritto di proprietà (“Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale.”). La Corte austriaca ha, dunque, ritenuto costituzionalmente illegittima, per violazione di questi principi fondamentali, l’eliminazione ex lege del diritto di proprietà dei creditori dell’Hypo Alpe Adria.
   
Questo importante precedente giurisprudenziale induce a valutare la legittimità costituzionale dell’analoga disciplina italiana, contenuta nel d.l. 22 novembre 2015 n. 183 e nella disciplina di risoluzione delle (crisi delle) banche (d. lgs. 180 e 181 del 2015), prima ancora che alla luce della norma costituzionale che tutela il risparmio (art. 47 Cost.), sulla base dei principi generali in materia di salvaguardia della proprietà privata (art. 42 Cost. e art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.).

Oggetto della tutela di queste norme non è solo il diritto “reale” (la “proprietà” di cui agli art. 832 ss. del codice civile) bensì il più ampio insieme dei “diritti soggettivi” dei cittadini; vale a dire il complesso di diritti, reali e obbligatori, che ne costituiscono il patrimonio. Nella Costituzione, infatti, l’espressione “proprietà privata” è formula riassuntiva, che – come insegnano i costituzionalisti – “compendia l’insieme dei diritti patrimoniali imputabili al soggetto privato” (Baldassarre). Sotto l’egida della tutela costituzionale cadono, quindi, non solamente i diritti di partecipazione societaria (azioni, strumenti finanziari partecipativi, ecc.) ma anche i diritti di credito (obbligazioni pure o subordinate, prestiti, depositi, ecc.), a causa della comune natura patrimoniale. Tutti questi diritti sono garantiti dai principi fondamentali dell’ordinamento europeo e domestico, i quali pongono precisi limiti ai legislatori nazionali: le leggi e i regolamenti, infatti, possono privare i cittadini della loro proprietà solo ove ricorra una “causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge” e solo a patto che quel sacrificio sia compensato dal “pagamento in tempo utile di una giusta indennità”(v. art. 17 della Carta dei diritti fondamentali, cit.).

Per chiarezza di ragionamento occorre distinguere nettamente due diversi forme di eliminazione o restrizione di quei diritti:

a) da una parte si collocano le modalità “naturali” di estinzione causate da dinamiche endogene (conseguenti a fattori di natura privatistica), quali il soddisfacimento, la rinuncia, la prescrizione, ecc., ovvero da fattori esterni, disciplinati in via generale dall’ordinamento giuridico (si pensi all’insolvenza del debitore, per i diritti di credito, o alle delibere di riduzione del capitale o all’estinzione della società, per i diritti partecipativi). Si tratta di fenomeni al cui controllo, sotto il profilo della legittimità, presiede l’Autorità Giudiziaria Ordinaria;

b) dall’altra sta, invece, la loro “riduzione o conversione” per effetto di un atto dell’ autorità, sia esso la legge (come nel caso delle quattro banche italiane) o un provvedimento amministrativo (quale quello previsto dalle disciplina del “bail in”). In questa diversa ipotesi, quelle modifiche (o, addirittura, l’estinzione coattiva dei diritti di “proprietà privata”) si determinano in modo autoritativo, indipendentemente dai meccanismi privatistici e dal controllo di legittimità esercitato dall’Autorità Giudiziaria Ordinaria. Gli interventi in parola, infatti, sono direttamente riconducibili alla volontà dello Stato, al cui potere fanno da argine le garanzie costituzionali sopra richiamate.  L’intervento normativo o amministrativo, che miri a degradare il diritto soggettivo ad un mero interesse legittimo, trova cioè insuperabile limite nei principi fondamentali della Costituzione e in quelli dell’U.E., nonché dei trattati internazionali, quale la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
   
Ove si esaminino, alla luce di questi principi, le disposizioni recentemente adottate dal regolatore italiano  appare ipotizzabile che, anche nel ‘caso Italia’, ricorrano i presupposti per un intervento della Corte Costituzionale, analogo a quello dell’Alta Corte austriaca. Ed invero, anche nel nostro Paese, nella fattispecie, si è in presenza di forme espropriative che determinano la compressione di diritti soggettivi, conducendo ad uno svuotamento delle prerogative e della valenza economica di talune posizioni giuridiche; sicchè, necessita la verifica delle condizioni  (causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge, e pagamento in tempo utile di una giusta indennità) in assenza delle quali la normativa in parola potrebbe essere dichiarata illegittima.

A tali perplessità possono aggiungersene altre con riguardo alla più generale tematica del “bail in”. Ci si riferisce alla circostanza che l’intervento dell’Autorità di risoluzione sembra possa essere disposto anche in presenza di un mero “rischio di crisi”, alla cui prevenzione (e al conseguente salvataggio della società bancaria) sono destinati la compressione e l’affievolimento dei “diritti di proprietà” degli azionisti e dei creditori qualificati. Anche su questo aspetto sorgono dubbi di legittimità costituzionale, posto che esso consentirebbe il sacrificio degli stakeholders anche in ipotesi di mera “eventualità” del dissesto (essendo connaturata alla nozione di “rischio” la mera ipoteticità dell’ evento, e quindi del pubblico interesse al salvataggio); donde l’evanescente individuazione di un reale interesse pubblico da tutelare mediante l’applicazione dei ‘piani di risoluzione’.

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