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Roubini: il piano draconiano inflitto alla Grecia non risolverà la crisi, meglio i Brady bond

Se non correggiamo il tiro, rischiamo di rendere il caso greco una mission impossible. Due incognite dominano l’economia mondiale: i debiti sovrani e la bassa crescita. Tra i Paesi deboli l’Italia è quello meno esposto. Le incertezze di Usa ed Europa e le difficoltà del Giapppone. Il paradosso dei Paesi emergenti.

Roubini: il piano draconiano inflitto alla Grecia non risolverà la crisi, meglio i Brady bond

E’ vero che negli ultimi giorni l’Europa ha promesso nuovi aiuti ad Atene ma, nella sostanza, “il piano di austerità draconiano inflitto alla Grecia non risolve il problema del debito che è destinato a raggiungere presto il 160% del pil. La soluzione passa dalla ristrutturazione del debito, facendo tesoro dell’esperienza dei Brady Bonds. Non vedo ragione per non adottare questa strategia”. Così si è espresso Nouriel Roubini, l’economista della New York University, nel corso di un lungo intervento al 50esimo Congresso Mondiale dell’Aci International Financial Markets, che si è tenuto a Budapest il 26-28 maggio scorso, schierandosi apertamente con quel gruppo di studiosi, anche italiani (vedi intervista a Mario Noera e a Marco Onado su Firstonline), che suggeriscono lo schema adottato negli anni Ottanta dagli Usa per risolvere il problema dei debiti sovrani dell’America Latina.

Nel suo intervento, la Cassandra che ha previsto la crisi non si smentisce: sull’economia globale si addensano, dopo la lunga serie di cigni neri degli ultimi anni, nuovi rischi, soprattutto se si insisterà in operazioni che non portano ad alcun risultato. Come il nuovo piano di austerità per la Grecia, che Roubini ha bocciato in maniera preventiva. Così come si dice in disaccordo con l’ipotesi di un bailout dell’indebitamento di Atene, che comunque richiederebbe almeno 250 miliardi di euro. “Sarebbe un errore che sfiora il moral hazard”, ha detto. Ma ecco una breve sintesi del suo intervento.

Le due incognite più pericolose, attacca il ragionamento di Roubini, sono rappresentate dai debiti sovrani e dal rallentamento della crescita. Certo, non mancano alcune note positive, tra cui:
– un parziale recupero dagli effetti della crisi globale. Una ripresa che comunque resta ben al di sotto dei livelli pre-crisi. Inoltre la crescita 2011 risulta inferiore a quella del 2010 e già incorpora un aumento dell’avversione al rischio legata alla fine del QE2 Usa e all’attesa per l’esito della crisi greca.
– Il rischio del rincorrersi di “favole” quali la deflazione, la recessione double dip, il collasso della Ue. Tutte previsioni con bassa probabilità di effettiva realizzazione: che hanno però contribuito alla performance deludente dei listini azionari. C’e’ stata una correzione del 20% anche perché i mercati hanno continuato a scontare i rischi derivanti dalle “favole” negative, che hanno finito per pesare, in direzione opposta, con i sogni del periodo dell’ “esuberanza irrazionale”.
– I buoni bilanci delle Corporates: questi ultimi appaiono solidi, efficienti con risultati profittevoli e ottimi livelli di liquidità. Inoltre sono aumentati le spese in termini di Capex e le attività di M&A. Tutti elementi a supporto di una maggiore fiducia nella crescita.

Ma non mancano, ovviamente, gli elementi negativi. Tra questi:
– una ripresa anemica sommata ad un costoso processo di deleveraging ancora in corso: si potrebbe definire una recessione “plain vanilla”, cioè una recessione anemica con bilanci che richiedono ancora interventi straordinari da parte dei governi. Solo i Paesi emergenti sono stati capaci di una ripresa a V dai minimi del 2008.
– Il permanere di problemi legati al rischio sovrano. Le Autorità di Mercato hanno fatto il loro lavoro ma sono i Paesi G7 ad aver dato per primi il cattivo esempio. USA e UK hanno deficit superiori al 10% e il livello debito/PIL dei Paesi avanzati si è portato a ridosso del livello di guardia 90/100%. L’invecchiamento della popolazione poi è un altro elemento per vedere costi più elevati per la salute che si va a sommare ad un fardello fiscale severo e in crescita.
– I problemi dei Paesi periferici UE, i PIGS: la situazione tra questi Paesi è molto differente in termini di deficit fiscale. L’Italia, grazie al contenimento del fabbisogno, è senz’altro il Paese meno esposto. Ma tutti hanno problemi comuni: a) un aumento significativo dello stock di debito; b) un sistema finanziario danneggiato dalla crisi, che necessita una ricapitalizzazione delle banche ; c) un aumento dell’esposizione a rischio anche nel settore privato. Il tutto si traduce in una perdita di competitività e, di riflesso, sulla prevalenza di esportazioni labour intensive e con valore aggiunto limitato. In un’era in cui i salari crescono più della produttività, le parole chiave sulle quali i Governi devono concentrarsi restano: competitività, crescita, e stabilizzazione del debito pubblico e del deficit.
Il caso greco e’ una missione impossibile: se ci si ostina a seguire ricette che non incidono sulle cause dei disavanzi. Da Atene parte una crisi che coinvolge gli altri Pigs secondo percorsi originali. L’Irlanda vede nel sistema bancario il suo principale problema, quindi la conversione di debito senior in equity è la soluzione. Il Portogallo deve ristrutturare il debito. La Spagna è il tipico Paese “too big to fail…to be saved” . Se la Grecia ristruttura la Spagna collasserà. Il costo di un bailout delle banche sarebbe enorme e la Spagna non sarebbe in grado di salvarsi da sola. L’unica soluzione per questi Paesi è nei maggiori risparmi e nel contenimento del debito sovrano, delle banche e per gli household.
– Il calo della crescita Usa: La crescita si è stabilizzata al 2.8% per il 2010, ma gli elementi che minano la crescita sono: o lo shock del petrolio o la debolezza del mercato del lavoro o la correzione double dip nel settore immobiliare o il debito statale, con casi gravi in alcuni Stati come California, Arizona, Nevada, Illinois. I Democratici sono contro i tagli alle spese mentre i Repubblicani sono contro nuove tasse. Si attende un nuovo periodo di problemi fiscali con le autorità di vigilanza inermi. La crescita dei consumi si è avuta solo grazie ad un aumento del reddito a disposizione incrementatosi per agevolazioni fiscali e trasferimenti. Al netto del deleveraging e della situazione del settore privato, quindi, i consumi risultano comunque mediocri.
– Il paradosso della crescita dei Paesi emergenti minata da un surriscaldamento dell’inflazione e dalla necessità di correre ai ripari con nuovi rialzi dei tassi con un rischio di hard landing: una crescita robusta ma un’elevata inflazione hanno costretto gli Emergenti a politiche restrittive sui tassi che però hanno mancato di tempismo e soprattutto creato preoccupazione sulla gestione delle valute. La Cina ha messo in ombra gli Usa e il dollaro Usa, concentrata com’è sulla battaglia all’inflazione. I paesi restano dietro la curva a rincorrere con tassi reali negativi. Sale così il rischio di un atterraggio in termini di una brusca riduzione del PIL. La gestione delle valute diventa difficile dove non c’è indipendenza delle banche centrali e controlli adeguati. Di conseguenza, l’inflazione resta l’esito più probabile.
– I problemi nel Medio Oriente tra bassa crescita, elevata inflazione: lo scenario va dal permanere di turbolenze politiche sociali senza particolari peggioramenti dalla situazione attuale ad un peggioramento della situazione economica e la caduta in una recessione double dip. Con un petrolio che resta legato a quota 100$ ed un’esposizione degli Emergenti a shock da contagio maggiori che nei Paesi avanzati.
– Le difficoltà del Giappone: se la fase post-ricostruzione in Cile vide poi un rimbalzo della crescita del 6%, questo non può essere il caso del Giappone. Ed un effetto contagio è già in atto in Usa e in Asia. Cause principali: la contaminazione nucleare, l’incertezza su una ripresa delle forniture nucleari ed effetti a catena sul settore che influenzerà le decisioni di altri Paesi, la distruzione della supply chain con effetti di lungo termine soprattutto nel settore energetico e semiconduttori, l’impossibilità di finanziare agevolmente la ricostruzione a causa dell’elevato indebitamento, l’impossibilità di usare titoli, azioni o il rimpatrio degli yen senza evitare un apprezzamento forzato della divisa che spiazzerebbe ulteriormente l’export giapponese.
– Incertezza sulla fase post-stimoli fiscali e monetari UE e Usa: il bicchiere è mezzo vuoto e mezzo pieno solo grazie alla liquidità, ai tassi a zero ed alle misure di supporto alla liquidità non convenzionali. Ma il deficit fiscale resta elevato. Gli stimoli fiscali sono terminati in Usa come in UE per lasciare spazio all’austerità fiscale. Aumentare le tasse e diminuire i trasferimenti non appare positivo per la crescita economica. Sullo stimolo monetario si notano tre atteggiamenti:
– 1) la BCE agisce contro l’inflazione (“antiinflation Jihad”) danneggiando così la crescita ed periferici; – 2) la BOE è in attesa di agire sul rialzo dei tassi entro i prossimi mesi; – 3) la Fed agisce con più lentezza, non ci sarà un QE3 e neanche uno spike sui tassi a lungo termine. – 4) Torna a riacutizzarsi l’avversione al rischio in questa fase di incertezza e di problemi per i mercati finanziari ed equity e bond Usa son attesi a nuovi ribassi.

Per concludere il quadro, resta da rilevare che i costi di produzione si sono alzati anche grazie al balzo delle commodities ed il rapporto tra utili e margini è destinato ad alzarsi. Sui cambi non vi è ragione per il $ di essere più forte dell’euro o verso altre divise: la currency war riprende dopo una trading war. Ma neanche la Cina va verso un riallineamento, mentre vi saranno effetti sulle riserve internazionali. Non vi è comunque alternativa per ora al dollaro Usa come divisa principale delle stesse.

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