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Romano Prodi e l’eredità riformista nel suo nuovo libro “Strana vita, la mia”

L’autobiografia di Romano Prodi, in collaborazione con Marco Ascione, è piena di ricordi personali ma soprattutto sottintende un messaggio politico: unire i riformisti e, sul piano internazionale, tornare al multilateralismo per togliere spazio alla lotta per la supremazia tra Usa e Cina

Romano Prodi e l’eredità riformista nel suo nuovo libro “Strana vita, la mia”

Strana vita, la mia” è il libro autobiografico che Romano Prodi ha recentemente pubblicato, con la collaborazione discreta, puntuale ed efficace di Marco Ascione. Il libro, che ha acceso l’interesse della stampa, della radio e della televisione e sta dando luogo a molti incontri e dibattiti, si svolge su due diversi livelli.

Il primo racconta del percorso iniziale di vita dell’uomo, dei fattori che ne hanno definito il carattere e le convinzioni: le fasi della sua educazione, le frequentazioni che lo hanno di volta in volta arricchito, il segno indelebile impresso nella formazione della sua personalità dall’essere parte di una famiglia di profonde radici contadine emiliane, composta da padre, madre e nove fratelli.  

Nel secondo livello del libro, invece, il racconto procede con la descrizione degli eventi e dei rapporti personali che hanno accompagnato (o, a volte, ostacolato) le scelte e le azioni di Romano Prodi nelle numerose e diverse fasi della propria vita pubblica. Prodi, nella sua strana vita, è stato: Professore Universitario in Italia, Usa e Cina, Ministro dell’Industria, due volte Presidente dell’IRI, due volte Presidente del Consiglio, Presidente della Commissione Europea, incaricato di prestigiose funzioni in Africa e Cina, leader in Italia dell’Ulivo, dell’Unione, Presidente del Partito Democratico.   

Questa seconda parte è un racconto pieno di ricordi personali, della descrizione e motivazione delle importanti responsabilità e delle scelte assunte. Una lettura piena di suggestioni, di riferimenti a eventi che hanno fatto la nostra storia recente, di aneddoti relativi a importanti personaggi incontrati, e dove emerge, come riferisce Ascione, uno dei tratti caratteristici e simpatici della persona Romano Prodi: “una bonomia che gronda da tutti i suoi artigli” (p. 8).  

Ma a mio avviso, il senso di questa autobiografia non è solo, e soprattutto, quello di voler rendere i lettori partecipi dell’importante vicenda che ha vissuto l’Autore come testimone e tra i principali attori dei grandi cambiamenti che hanno interessato il Paese e l’Europa nel contesto della globalizzazione tra fine 900 e inizio 2000. Basterebbe far riferimento in particolare: al risanamento e alla privatizzazione dell’IRI (la più grande holding pubblica italiana), alle vicende dell’Euro, del cambio della lira e dell’allargamento dell’EU.  

Con la sua autobiografia, però, a me sembra che Romano Prodi voglia inviare un messaggio politico. La sua, come quella di tanti che per età sono stati più o meno partecipi delle stesse vicende, è una vita che è solo di ieri, ma nei fatti appartiene a una realtà ormai estremamente lontana, in profonda trasformazione. Ed è per questo che il senso più profondo del libro ci dice che il racconto di quelle vicende ha senso solo se viene traguardato all’insegnamento che si può trarne per affrontare i problemi dell’oggi. Un messaggio politico non organicamente formulato, ma implicitamente contenuto nelle parole e nelle considerazioni dell’Autore sui vari momenti della sua esperienza di vita pubblica e particolarmente diretto ai giovani e alle classi dirigenti in formazione. A coloro che hanno il compito di affrontare l’inedita complessità dei cambiamenti naturali, economici e sociali che incombono non solo sull’Italia, ma sul mondo intero. 

Se è così, più che ripercorrere i tanti importanti momenti dell’autobiografia, qui, con un’operazione interpretativa del tutto personale, si può provare a mettere in evidenza le componenti di questo messaggio che, di fatto, sono tutte attinenti alle convinzioni maturate nel suo percorso di vita.  

  1. L’impronta di fondo che Prodi ha dato alla sua azione politica è stato il perseguimento dell’obiettivo (non sempre compiutamente raggiunto) di tener riunite tutte le componenti riformiste del panorama politico italiano del suo tempo. Egli ha portato avanti con tenacia questa sua convinzione rimanendo spesso, come racconta, vittima dei contrasti interni alla stessa area riformista. Anche pagando un elevato costo personale, come ricorda con dolore quando parla della maturazione della sua coscienza di “cattolico adulto” (cap.9) che significò (non per suo volere) la rottura totale del rapporto con Camillo Ruini. Ruini ha rappresentato un riferimento fondamentale per Romano Prodi, germogliato nei lontani anni di Reggio Emilia e la rottura fu sancita dalla sua dichiarazione al convegno programmatico del Pds del 1995: “Mi sento uno di voi, siamo un solo tronco. Ma con radici diverse” (p.174). Mettere insieme tutti i riformisti (se ha senso usare questo termine per le forze politiche di oggi), rendere le diversità tra loro compatibili, è stato un obiettivo finora non portato a compimento, ma che Romano Prodi vede sempre più necessario perseguire, tenendo necessariamente conto del contesto politico, economico e sociale profondamente mutato. Un obiettivo, la formazione di un’intelligenza collettiva per un nuovo sentire politico che, non nel libro ma nei dibattiti pubblici, il Professore ora affida esplicitamente ad Enrico Letta.  
  1. La seconda componente del messaggio di Prodi la si percepisce chiaramente in tutte le sue considerazioni riferite al nuovo quadro nazionale e internazionale che si è determinato con la crisi provocata dal Covid. Considerazioni che spingono a definire un disegno in grado di coniugare sviluppo e lavoro, crescita e protezione dei più fragili; una politica economica, cioè, caratterizzata da una forte impronta di solidarietà sociale. Tutto questo anche annotando la presenza di “un intervento crescente degli Stati sia nella politica interna che nella politica internazionale … che si pone in contraddizione con i precedenti decenni di liberismo assoluto” (p.212). E qui sembrerebbe che ci sia anche un auspicio verso la definizione di un nuovo ruolo dello Stato per guidare la rifondazione economica del Paese. Un auspicio ben esplicitato a commento delle conclusioni della sua azione di privatizzazione dell’IRI: “Guardando a posteriori le operazioni decise in quegli anni, mi sento di concludere che il futuro delle nostre imprese sarebbe stato più consono agli interessi del Paese se il processo di privatizzazione avesse potuto svolgersi con maggiore calma. … Una maggiore ponderazione avrebbe certamente garantito il mantenimento del controllo e delle regole che uno Stato dovrebbe avere (e negli altri Paesi ha) per proteggere gli interessi fondamentali dei propri cittadini” (p.42-43).   
  1. La terza componente del messaggio di cui parliamo è a mio avviso riconducibile alla permanente presenza della dimensione internazionale nel pensiero e nell’azione di Romano Prodi. Una dimensione che acquisisce dall’inizio del suo processo formativo più specialistico in Inghilterra e negli Usa, e che poi svilupperà pienamente nella sua vita pubblica e privata, costruendo, con i piedi ben messi in Europa, un rapporto privilegiato con gli Usa, coniugato successivamente al rapporto con la Cina e con l’Africa. Partendo da ciò Prodi vede un enorme pericolo nel confronto antagonistico e bilaterale che in questa fase si sta giocando tra le grandi potenze (soprattutto Cina e Usa) in gara tra loro per la conquista del futuro e che costituisce l’aspetto dominante di tutta la politica mondiale. “La guerra fredda di oggi ha come obiettivo primario la lotta per la supremazia. Una sfida che si gioca in tutti i campi, da quello militare a quello economico, tecnologico e all’uso di ogni tipo di soft power”(p.205). L’Europa, secondo Prodi, è pienamente coinvolta in questo confronto, ma le divisioni e la fragilità delle sue istituzioni le impediscono di svolgere il ruolo di interlocutore riconosciuto. E lo stesso avviene sul versante africano e mediterraneo dove c’è l’assenza di una politica europea, mentre “l’Africa determinerà davvero il nostro futuro”(p.193) con i fenomeni migratori, l’esplosione demografica, il terrorismo, la frammentazione politica, le lotte diffuse per il controllo delle risorse…Ed è per la necessità di affrontare in un quadro di insieme tutti questi problemi che Prodi (partendo da uno stretto collegamento tra Usa e EU) auspica di superare il bilateralismo e di avviare “il cammino verso il multilateralismo … che renderebbe certamente più percorribile un pacifico cammino di sviluppo del nostro pianeta” (p.205). Un monito rivolto soprattutto all’Europa, che Prodi riprende nelle sue parole conclusive: “Il filo conduttore di queste mie semplici pagine … sta proprio nella profonda convinzione che il dialogo sia lo strumento più importante che la politica ha a disposizione. E sono anche convinto che, in questo momento storico, solo l’Europa possegga la cultura e l’autorità per poterlo usare” (p.215). 

C’è tant’altro, che qui non si è potuto mettere in risalto, nella autobiografia di Romano Prodi. Una riflessione che guarda con preoccupazione e fiducia al compito immane che aspetta chi avrà la responsabilità di guidare il Paese nel difficilissimo processo di trasformazione che si sta delineando. 

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