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Rilanciare l’industria italiana è possibile: ecco cinque leve fondamentali

L’industria manifatturiera è un patrimonio inestimabile ma va rilanciata con l’occhio a 5 aspetti cruciali: 1) la specializzazione produttiva; 2) l’internazionalizzazione, 3) la dimensione aziendale; 4) l’accesso al credito; 5) la produttività – Il caso del distretto biomedicale dell’Emilia e l’appello dell’Economist all’Italia perché faccia riforme profonde

Rilanciare l’industria italiana è possibile: ecco cinque leve fondamentali

Per risollevare le sorti dell’industria Italiana bisognerebbe agire su cinque leve fondamentali: 1) la specializzazione produttiva; 2) l’internazionalizzazione; 3) la dimensione aziendale; 4) l’accesso al credito; 5) la produttività.

Cominciamo dalla più importante di tutte:la specializzazione produttiva. Il terremoto dell’Emilia ha fatto scoprire agli italiani un distretto, quello biomedicale, di cui i più ignoravano l’esistenza . Ma ha anche fatto tremare l’intera catena mondiale del biomedicale di cui il distretto italiano è componente essenziale perché fornisce intermedi e prodotti finiti che sono essenziali per il suo buon funzionamento. Di distretti altrettanto specializzati e bene inseriti nella catena mondiale del valore ce ne sono anche altri in Italia e proprio in quei settori che gli esperti ritengono destinati ad essere i motori di una nuova rivoluzione industriale e che sono: quelli del Comfort (cibo, abbigliamento, arredamento), dell’Energia (mobilità, luce, riscaldamento), della Sicurezza(sanità, armamenti, ambiente) e dell’Informazione.. Sono settori già oggi globali e globalizzati, ad alto contenuto di R&S, fortemente innovativi e in crescita. 

In ciascuno di essi noi siamo present , ma non sempre lo siamo in modo adeguato, neppure in quelli in cui eccelliamo. Il caso della acquisizione di Bulgari, Fendi e Valentino da parte di grandi operatori esteri del settore o quello della Parmalat da parte della francese Lactalis confermano la difficoltà della imprenditoria italiana a raggiungere (e conservare ) la dimensione finanziaria e industriale necessaria a svolgere una funzione di leadership a livello globale nei settori di riferimento. Un discorso analogo lo si potrebbe fare anche per il Turismo, la Grande distribuzione o la valorizzazione dei beni culturali. Se la specializzazione non la si può imporre dall’alto perché, come l’esperienza stessa dei distretti italiani dimostra, è un processo che può partire soltanto dal basso, sui limiti di questo processo e sulla fragilità delle imprese che sono chiamate a promuoverlo si può, invece, intervenire. A cominciare, innanzitutto, dallaInternazionalizzazione, che è la seconda leva su cui si deve agire.

Lungi dal rappresentare un pericolo la globalizzazione offre alle nostre imprese una straordinaria opportunità di crescita. Le produzioni che contano sono già oggi globali e globale è la loro catena del valore. Per farne parte il basso costo del lavoro conta sempre di meno mentre conta sempre di più la specializzazione: il saper fare bene, cioè, qualcosa che è utile per il buon funzionamento dell’intero ciclo produttivo. Mentre l’Italia ha poche chance di assumere la leadership in ciascuno di questi settori, ha, invece, grandi possibilità di occupare, in ciascuno di essi, una nicchia importante. 

Il saper fare, le indubbie capacità ingegneristiche, l’inventiva, la ricerca, il design, il gusto e la nostra stessa eredità culturale sono tutti ingredienti che ci consentono di giocare un ruolo importante non solo nella moda e nell’arredamento ma anche nella meccanica di precisione, nell’automotive ,nella chimica fine, nel biomedicale, nell’energia e, con buona pace dei giudici di Taranto, anche nella siderurgia (Arvedi docet). Per farlo bisogna però, proiettarsi all’estero, come facemmo nel dopoguerra e in questo lo Stato può e deve dare una mano assistendo davvero le imprese che operano all’estero, attirando investimenti diretti dall’estero e, soprattutto, potenziando (magistrati e giornalisti d’assalto permettendo) le poche grandi imprese nazionali (a cominciare dall’Eni, dall’Enel e dalla Finmeccanica) che possono trascinare le altre nel processo di globalizzazione.

E’ in questa ottica che diventa decisiva la leva delCredito, quella del dimensionamento delle imprese e quella dellaProduttività. Le piccole e medie imprese italiane sono per lo più a conduzione famigliare, spesso sottocapitalizzate e prive di un adeguata struttura manageriale. Aiutarle a crescere, a darsi una governace adeguata e una struttura finanziaria sana è (o dovrebbe essere ) interesse delle banche, dei Fondi di investimento e del paese. Ma questo interesse stenta a manifestarsi, come dimostra la perdurante “serrata” del credito che non solo rischia di soffocare le imprese ma favorisce anche una facile acquisizione delle migliori di esse da parte dei Fondi esteri speculativi (non l’internazionalizzazione ma la cannibalizzazione delle imprese) . E’ un nodo, questo, che il governo deve proporsi di sciogliere con Fondi propri, interloquendo con il sistema bancario e, soprattutto, coinvolgendo l’Europa.

Resta, infine, il problema dei problemi: quello della Produttività, la cui inarrestabile caduta è il segnale inequivocabile del nostro declino. Rovesciare questa tendenza non sarà facile perché la produttività dipende soltanto in parte dall’innovazione, dalla Ricerca e dagli investimenti mentre dipende sempre di più dal fattore umano. E’ il fattore umano quello davvero decisivo e questo ci rinvia ai due grandi nodi mai sciolti della società Italiana : quello della Scuola, dove il capitale umano si forma , e quello delle relazioni industriali, dove si valorizza. La Scuola andrebbe rifondata e le relazioni industriali andrebbero radicalmente modificate e aperte alla co-gestione. Ma è proprio contro la riforma della Scuola e contro quella delle Relazioni industriali che in Italia si erge il più formidabile dei blocchi conservatori ,di cui fanno parte sindacati, corporazioni varie e partiti sia di sinistra che di destra.

Da questa amara constatazione muove del resto l’Inglese The Economist quando afferma che se l’Italia non vuole diventare uno dei paesi più poveri d’Europa deve realizzare “far more exstensive reforms” (riforme assai più profonde) di quelle realizzate sino ad ora.

Senza profonde riforme istituzionali, economiche e sociali l’Italia è, insomma, condannata al declino. Per questo la prossima competizione elettorale, più che fra centro destra e centro sinistra, dovrebbe essere un confronto fra Riformisti e Conservatori.

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