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Reggio Emilia, il distretto della meccatronica oltre il Covid-19

Per gentile concessione del’editore e dell’autore pubblichiamo il Prologo di Franco Mosconi al libro “Reggio Emilia, il territorio della “meccanica intelligente”, edito da il Mulino, che si interroga sui cambiamenti che la pandemia provocherà nel distretto emiliano della meccatronica

Reggio Emilia, il distretto della meccatronica oltre il Covid-19

Le ricerche e le analisi che rappresentano la base di questo libro (“Reggio Emilia, il territorio della “meccanica intelligente” – L’evoluzione del distretto meccatronico al tempo di Industria 4.0″ di Lorenzo Ciapetti e Franco Mosconi, il Mulino editore) sono state condotte prima che il nuovo Coronavirus manifestasse i suoi devastanti effetti sulla società e l’economia italiane. Dal nostro studio, frutto dell’opera di dieci co-autori, è uscito un quadro dove le luci dominano sulle ombre, le positive performance sui problemi insoluti. Ma poi è arrivata la pandemia Covid-19, che ha colpito le regioni del “nuovo Triangolo industriale” – l’Emilia-Romagna fra queste – con una violenza tutta particolare. 

La domanda d’obbligo, dunque, diviene: nel territorio di Reggio Emilia, in quale misura il quadro che abbiamo tratteggiato sulla “meccanica intelligente” e sul “distretto meccatronico” è destinato a cambiare come conseguenza del Coronavirus? 

Veniamo così condotti a una necessaria riflessione sulle conseguenze economiche della crisi medico-sanitaria che stiamo vivendo; una crisi che, mentre scriviamo, sta diminuendo d’intensità grazie in primis allo straordinario lavoro portato avanti nei nostri Ospedali con professionalità e generosità da tutto il personal; un lavoro supportato dal contributo finanziario sia di molte imprese (industriali, bancario-assicurative, commerciali) sia di importanti Fondazioni regionali, che non hanno esitato a fornire il proprio sostegno, consentendo di potenziare rapidamente le strutture e la stessa capacità di reazione del sistema sanitario. 

Il tema delle conseguenze economiche del Covid-19 è assai indagato: una letteratura molto ampia si va formando – in Italia e dappertutto nel mondo – sull’argomento, col contributo di accademici, imprenditori, sindacalisti, rappresentanti delle Istituzioni. Va oltre le finalità di questo Prologo un qualunque tentativo di classificazione di questi contributi. Il nostro compito è molto più circoscritto e ha direttamente a che fare con la domanda posta più sopra: quali cambiamenti è ragionevole attendersi in questo territorio/distretto? C’è un piano macroeconomico e c’è un piano microeconomico, fra loro naturalmente collegati. Per tentare una primissima risposta proviamo a dedicare alcune riflessioni a entrambi. 

Ora, la macroeconomia della crisi non lascia nessuno spazio alla fantasia. Il crollo del PIL italiano per il 2020 è previsto in queste proporzioni: -6,5% (Prometeia; -6,0% (Centro studi Confindustria); -9,1% (Fondo Monetario Internazionale). Per il nostro Paese il recupero nel 2021, per giudizio condiviso, sarà solo parziale: 3,3% (Prometeia); 3,5% (Csc); 4,8% (FMI). Nessuno, con i tempi che corrono, si spinge più in là nel tempo. 

Quest’anno, il calo del PIL è naturalmente generalizzato sia su scala europea, sia su scala globale, mentre più variegata è la situazione prevista per il 2021, quando il “rimbalzo” in diversi paesi dovrebbe compensare le perdite del 2020. L’autorevole World Economic Outlook (WEO) del FMI, infatti, stima per il PIL mondiale un -3% quest’anno, seguito da un 5,8% il prossimo anno. Il (positivo) risultato netto è frutto di due diverse dinamiche di crescita. Da un lato, vi è quella delle “economie avanzate”: -6,1% (2020), 4,5% (2021); dall’altro, la dinamica che dà conto dei risultati nei “mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo”: -1,0% (2020), 6,6% (2020). 

In tempi di mercati aperti, con le singole economie nazionali che commerciano – in misura più o meno ampia – con tutte le altre, queste dinamiche del PIL non possono non riflettersi sull’andamento del commercio mondiale. E’ sempre il WEO di aprile a dirci che il “volume del commercio mondiale (di beni e servizi)”, dopo il tracollo previsto per quest’anno (-11,0%), recupererà nel 2021 (8,4%), anche se solo parzialmente. 

Per un’economia aperta come quella emiliano-romagnola (mostreremo come il rapporto Export/PIL, poco prima dello tsunami, fosse superiore al 40%) questo pone indubbiamente un problema. E lo pone per il distretto reggiano della meccatronica, che tradizionalmente è stato capace di esportare un’altissima quota del suo fatturato (superiore al 70% nel caso delle “imprese eccellenti”, come mostra un’indagine di Antares). 

La storia non finisce qui, giacché i fili sottili ma robusti che legano il piano della macro a quello della microeconomia ci portano a riflettere sull’organizzazione internazionale della produzione. Nella globalizzazione del XXI secolo un ruolo chiave è rivestito da quelle che vengono chiamate “catene globali del valore (CGV)” o, più semplicemente, catene di fornitura. Un prodotto che esce da un certo stabilimento (poniamo, in un paese dell’Occidente) è il risultato di una frammentazione del sistema produttivo su scala globale, in quanto moltissimi dei suoi componenti (input intermedi) sono stati fabbricati in altre e diverse parti del mondo (moltissime in Oriente, a cominciare dalla Cina), là dove le ragioni di costo avevano reso conveniente spostarne la produzione. 

E’ stato Richard Baldwin (Graduate Institute di Ginevra) a esporre compiutamente la teoria sullo “spacchettamento” (unbundling) della produzione, giungendo a teorizzare la “grande convergenza” fra i Paesi di nuova industrializzazione e quelli del G7. Per molti anni è stata una teoria non solo molto citata nella letteratura economica, ma anche suffragata dai fatti sol che si pensi all’aumento del peso della Cina sul PIL mondiale negli ultimi vent’anni (dal 4 al 16%). Il Coronavirus cambia fortemente le carte in tavola perché rifornirsi di componenti e prodotti intermedi dalle fabbriche localizzate in paesi lontani mette a rischio le già citate CGV: oggi per questa pandemia e, in un futuro più o meno lontano, chissà per quale altro virus incontrollabile (Bill Gates docet). 

Ci sono politiche che possano favorire il “ritorno a casa” (reshoring) di produzioni in precedenza delocalizzate? E, più in generale, ci saranno cambiamenti nella globalizzazione così come, fra la fine del XX secolo e i primi due decenni del XXI secolo, l’abbiamo conosciuta? Al riguardo, prefigurando una “semi-autosufficienza” di ognuna delle tre grandi regioni economiche mondiali (Europa, Usa, Cina), ha scritto di recente Dario Di Vico: 

“La tesi prevalente degli analisti è che il coronavirus finirà per compromettere-allentare le catene internazionali di produzione e favorire il commercio internazionale per singole aree. Romano Prodi a questo proposito ha parlato di ‘globalizzazione su base regionale’ con scambi commerciali e catene produttive concentrate in poche macro aree”. 

Molte analisi hanno offerto una lista dei settori industriali maggiormente interessati, in Italia e in Europa, dall’interruzione di regolari forniture e approvvigionamenti dall’Estremo Oriente: automotive, elettronica di consumo, farmaceutica, moda. 

E la meccanica? E, ancor più in profondità, la meccatronica? Cominciamo col dire, seguendo l’analisi di Paolo Bricco, che la meccanica è “l’intelaiatura del sistema industriale del Paese”, in quanto significa: 

“105 mila aziende (un numero che include i laboratori artigiani), 1,6 milioni di addetti, 500 miliardi di euro di fatturato, 100 miliardi di valore aggiunto e 220 miliardi di export (con un attivo di 60 miliardi, essenziale per riequilibrare la bilancia commerciale italiana). La meccanica incide per l’8,1% sul valore aggiunto dell’intera economia e per il 47,7% su quello dell’industria manifatturiera; per il 6,1% sull’occupazione italiana e per il 42,2% su quella della manifattura; per la metà delle esportazioni nazionali (…) La meccanica è una sorta di lievito che è ovunque”. 

Ebbene, un settore fatto così – “asse portante” dell’industria italiana sia sotto il profilo della base manifatturiera, sia sotto il profilo della proiezione sui mercati internazionali – è (e sarà), giocoforza, coinvolto nelle nuove dinamiche della globalizzazione a cui s’è fatto cenno: “regionalizzazione” degli scambi, CGV più centrate sulle macro aree (l’Europa per quel che ci riguarda), reshoring.  

In tale più ampia prospettiva, un certo ripensamento si impone (e si imporrà) anche per il distretto meccatronico reggiano, oggetto di questo lavoro collettaneo. Ecco dunque che per avviarci a concludere questo Prologo, la domanda chiave può essere posta nei seguenti termini: è un distretto già in sé, per così dire, coeso? Nel senso che la sua supply chain è in larga misura centrata lungo l’asse della Via Emilia? 

Come mostrano molti dei saggi di seguito pubblicati nel libro, il distretto della meccatronica di Reggio Emilia ha una filiera molto strutturata e ravvicinata, come emerge anche dai dati sulla distanza in chilometri dai fornitori, che è più bassa rispetto ad altre realtà censite dal “Monitor dei distretti” (si veda, in particolare, l’analisi condotta nel capitolo 4). E anche in termini di quella che viene definita import penetration, osserviamo valori piuttosto contenuti. Non si può però pensare che il distretto sia immune da certi rischi: la Cina, da cui proviene il 28,5% delle importazioni del distretto, rappresenta il principale mercato di approvvigionamento. 

Insomma, sia per la meccanica italiana che per la meccatronica reggiana l’esatta misura del coinvolgimento nelle nuove traiettorie della globalizzazione è difficile, per non dire impossibile, da predeterminare qui e ora. La capacità di reazione delle imprese emiliano-romagnole, già emersa nei primi e difficilissimi mesi della diffusione del virus grazie a tanti casi di riconversione produttiva, così come in virtù di una crescente attenzione alla sicurezza in fabbrica dei lavoratori, introduce un elemento di moderato ottimismo sui tempi di una possibile, quanto auspicabile, ripresa. 

Più in generale, la velocità e il grado (o livello, che dir si voglia) di coinvolgimento nella nuova globalizzazione dipenderà da molti fattori, quali ad esempio, dal punto di vista medico-sanitario, i tempi necessari per la scoperta e l’introduzione di un efficace vaccino e, dal punto di vista economico-sociale, l’ampiezza e la coerenza della risposta di policy dell’Unione europea (Ue).  

Difatti, da entrambi i punti di vista, di fronte alla gravità della sfida posta da questa pandemia, è impensabile continuare a ragionare, nell’Ue, a livello di singoli Stati membri: una “infezione globale” richiede “soluzioni condivise”, ha giustamente scritto in un suo Editoriale il Direttore di Aggiornamenti Sociali. E su La Civiltà Cattolica, Gaël Giraud ha concluso una sua lungimirante analisi con queste parole: 

“La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare le trasformazioni che, anche ieri, sembravano inconcepibili a coloro che continuano a guardare al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria. Abbiamo bisogno di una reindustrializzazione verde, accompagnata da una relocalizzazione di tutte le nostre attività umane”.

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