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Referendum e Pd, i pretesti di D’Alema e Bersani e l’ombra della scissione

Le ragioni del No al referendum di D’Alema e Bersani non hanno nulla a che vedere con la riforma costituzionale: la verità è che non sanno stare in minoranza e che dimenticano la storia del Pci, nel quale c’erano regole ben precise che distinguevano il dissenso dall’opposizione sistematica alla linea del partito – Il precedente di Concetto Marchesi alla Costituente non fa testo: non votò l’art.7 ma era autorizzato da Togliatti

Referendum e Pd, i pretesti di D’Alema e Bersani e l’ombra della scissione

D’Alema e Bersani sono due navigati dirigenti politici, cresciuti entrambi alla scuola del Pci (senza dubbio la più formidabile macchina politico organizzativa della Prima Repubblica). Entrambi hanno deciso, non senza qualche sofferenza si presume, di schierarsi per il No e di partecipare attivamente alla campagna contro la Riforma Costituzionale voluta dal “loro” Partito, proposta dal “loro” governo e votata per ben tre volte dalla maggioranza parlamentare di cui fanno parte.

La vittoria del No segnerebbe – su questo non possono esserci dubbi – una secca sconfitta del Pd, del governo e della maggioranza parlamentare e ad essa dovrebbero necessariamente fare seguito le dimissioni del governo e l’apertura all’interno del Pd di una vera e propria resa dei conti fra riformisti e conservatori, di cui le urla della Leopolda sono state soltanto un anticipo.

Ora, se le cose stanno così, è davvero difficile credere che, con tutta la loro esperienza, Bersani e D’Alema non abbiano previsto che queste sarebbero state le conseguenze della loro scelta. Volerlo far credere, come fa l’Onorevole Speranza, è una imperdonabile ipocrisia, un inganno deliberato.

D’Alema, per minimizzare il colpo, invoca il precedente di Concetto Marchesi, il grande latinista a cui Togliatti consentì di votare contro l’art. 7 della Costituzione, mentre Bersani rievoca il clima di tolleranza per il dissenso che avrebbe caratterizzato la vita interna del Pci. Peccato che entrambe queste cose non siano vere.

Concetto Marchesi, come quasi tutti i dirigenti del Pci, era contrario all’inserimento dei Patti Lateranensi in Costituzione. Quando Togliatti cambiò idea tutti si adeguarono salvo Teresa Noce, moglie di Luigi Longo. Marchesi espresse a Togliatti la sua contrarietà e fu autorizzato (c’è chi dice incoraggiato) a non partecipare al voto. A votare contro furono Teresa Noce, una rocciosa sindacalista, e, se non ricordo male, Maffi, mentre Marchesi preferì allontanarsi dall’aula al momento del voto.

Marchesi era sì un grande latinista ma era anche uno stalinista di stretta osservanza e non avrebbe mai infranto la disciplina di partito se non fosse stato autorizzato a farlo. Lo stesso dissenso da lui espresso all’VIII congresso (1956) nei confronti di Krusciov e del XX congresso del Pcus (commiserò Stalin per il fatto di avere avuto in sorte, come censore e storico, un uomo grossolano come Krusciov, mentre al tiranno Cesare era toccato un grande storico come Tacito) non dovette dispiacere più di tanto a Togliatti, che di Krusciov pensava esattamente le stesse cose.

Anche l’idea che nel Pci regnasse la tolleranza per il dissenso non corrisponde al vero. Nel Pci le correnti non erano consentite. Il dibattito era certamente ampio e libero, ma una volta che la maggioranza aveva deciso tutti si dovevano adeguare. L’espulsione del gruppo del Manifesto fu forse un errore politico, ma, dal punto di vista dello statuto, pienamente legittima.

Anche in occasione dei referendum la diversità di opinioni su temi sensibili che pure c’era (sul divorzio, il nucleare o la scala mobile) non si tradusse mai nella organizzazione di Comitati o di manifestazioni contrarie all’indicazione data dal Partito. Chiunque lo avesse fatto sarebbe stato espulso e Bersani e D’Alema sarebbero stati tra i primi a chiederlo. C‘era, insomma, un confine invalicabile fra il dissenso e l’organizzazione di una azione di aperto contrasto delle scelte del partito e questo è stato vero fino a ieri.

Oggi le cose sono cambiate. Forse troppo tardi, forse troppo poco. Ma alcune regole sono però rimaste. Se, ad esempio, il dissenso investe non una singola scelta ma l’identità stessa del partito, allora la scissione è inevitabile. Se una minoranza organizza una sistematica attività di boicottaggio dell’iniziativa politica e di governo del Partito è difficile che prima o poi questo non porti ad una scissione.

Esistono dei limiti dettati dal buon senso e dall’onestà intellettuale e politica che non si dovrebbero superare se si vuole continuare a stare insieme. D’Alema e Bersani li hanno superati e da oppositori interni si sono trasformati in avversari. C’erano ragioni valide per farlo? Ad opinione di chi scrive No, non c’erano. La riforma Renzi-Boschi può anche non piacere, ma non mette a rischio la democrazia e non apre la via ad una deriva autoritaria.

Questi sono soltanto pretesti. La ragione vera della loro scelta a me sembra essere un’altra: è che sentono di avere perso il controllo del Partito. Sono e si sentono minoranza, ma in minoranza non sanno starci. Essendo sempre stati, dai tempi del Pci sino ad oggi, in maggioranza, sempre all’interno del cerchio magico, sempre cooptati, ora che non è più così, ora che questa storia è finita e che gli unti dal Signore non esistono più, si sentono perduti.

Dovrebbero farsene una ragione e invece si aggirano con l’aria un po’ stralunata che si racconta avessero i membri dell’Ufficio Politico del Pcus quando uscivano dal Cremlino e non trovavano più la macchina con l’autista ad aspettarli. Di colpo capivano di essere stati defenestrati. Se la cosa finiva lì erano stati ancora fortunati anche se, di solito, nella Russia Sovietica seguivano altre e ben più pesanti misure.

D’Alema e Bersani, ovviamente, non corrono nessun rischio del genere. Nessuno li caccia e nessuno li perseguita. Nel peggiore dei casi possono perdere la macchina e l’autista, ma se questo dovesse accadere a Roma un taxi lo possono sempre trovare.

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