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Racconto della domenica: “La setta”, un thriller tra orgie sataniche

RACCONTO DELLA DOMENICA di ALEX. B. DI GIACOMO – Beatrice è una sacerdotessa degli Angeli del Male, una setta satanista. Beatrice è una poliziotta che convive col suo fidanzato e sta per sposarsi. Beatrice è la schiava del Reverendo, si offre nuda e indifesa alla brutalità degli altri adepti. Beatrice è terrorizzata dai ricordi di una sofferenza troppo grande, ma ora è libera. È tutto finito. Non finirà mai. In questo racconto di Alex B. Di Giacomo sonno e veglia si alternano con l’intermittenza di una lampadina danneggiata: il sogno si fa incubo, e l’incubo si fa trappola senza uscita. Quanta violenza può sopportare la psiche umana prima di ridursi irreparabilmente in mille frammenti di dolore?

Racconto della domenica: “La setta”, un thriller tra orgie sataniche

Una strana emozione, quella notte al cimitero. La luna illuminava a mala pena le cappelle funerarie e le chiome affusolate dei cipressi. Quel luogo spettrale non esercitava su di me la minima suggestione, perché il Reverendo mi era rimasto accanto tutto il tempo. Con lui non avrei avuto paura di niente e neppure la nudità mi imbarazzava. Avevo fatto di tutto per essere accettata. Ora gli Angeli del Male mi onoravano delle loro preghiere. Stavo per entrare nel loro gruppo. Gli occhi degli uomini scintillavano nell’oscurità e coglievo lampi di desiderio sotto i cappucci. Il pitone era umido e molliccio ma le sue squame passavano sulla mia pelle come carta vetrata. Il vento soffiò sui miei seni come se volesse ghermirli. «Non ti irrigidire», disse il Reverendo, «non farti condizionare dai sentimenti.» Aveva ragione: le persone banali non arrivano alla Conoscenza. Lui invece conduceva i suoi adepti al loro Lato Oscuro. Con le parole ci sapeva fare. Ti portava dove voleva lui. Io non sarei mai stata una persona banale. Io stavo per essere introdotta ai poteri di Satana.  

Il serpente sgusciò tra le mani del Reverendo che ordinò di cominciare. Lo scopo della cerimonia era introdurmi alla vita sacerdotale e come tutti i riti di passaggio imponeva sacrifici. Piccole perdite, per acquisire un bene più grande. Gli Angeli del Male pronunciarono una lode a Mefistofele. Alcuni mi guardavano con ansia febbrile e studiavano il mio corpo infoiati. Un flash mi accecò e scattò l’otturatore di una macchina fotografica. I miei nuovi amici avrebbero conservato quell’immagine come ricordo, un cimelio di quella storica notte. Non c’era motivo per piangere. Avrei dovuto essere contenta di essere lì. Perché allora le lacrime mi premevano occhi? Forse mi sentivo sotto esame, giudicata come un vitello dal suo macellaio. Avvertivo la mia vulnerabilità. Un adepto mi inquadrò nel mirino della fotocamera ed esplose un altro flash. Dovevo farmi forza. Il Reverendo diceva sempre che una sacerdotessa accetta tutte le tappe della propria crescita spirituale. Anche le più odiose. Un ciccione si tolse il cappuccio e calò sopra di me. L’odore sgradevole fece posto a una sensazione di dolore. Poi arrivò un bruciore intenso. Il ciccione mi era entrato dentro e premeva con forza.  

Cacciai un grido e mi drizzai sulla schiena. Avevo dormito pochi minuti ed ero madida di sudore. Frugai il salone con lo sguardo, per rassicurarmi che non stavo più in un luogo di morte, ma dentro le mura di una casa.  

Cazzo, Beatrice, è l’ennesimo incubo. E così realistico da sembrare vero. Non puoi continuare in questo modo.  

Soffocai uno sbadiglio, mi alzai dal divano e sistemai i miei lunghi capelli neri. Ogni volta che chiudevo gli occhi rivivevo quelle scene oniriche. Nei sogni si affacciava sempre lui. L’uomo che volevo dimenticare: il Reverendo. Come facevo a cacciare via il suo ricordo? Come potevo estirpare dalla mente quello che lui mi aveva fatto? Iniziavo a pensare che, quando avevo abbandonato quella setta di depravati, il porco mi avesse lanciato una maledizione. Massaggiai i muscoli indolenziti, spensi la tv e osservai la pineta che, maestosa e lugubre, circondava il villino. Ingollai una caraffa di caffè per impedirmi di sognare. Odiavo il mio bisogno di riposo. L’abbandono della veglia mi conduceva indietro nel tempo, nei luoghi oscuri della memoria. Cercai qualcosa da mettermi. Alzai lo sguardo sulla gruccia che reggeva la divisa della polizia. Nella penombra l’uniforme sembrava una spoglia senza vita. La indossai e mi guardai allo specchio.

Non stavo male. Rimisi a posto la divisa, facendo attenzione a non gualcirla, e con una t-shirt addosso attraversai la cucina. Scavalcai gli scatoloni colmi dei miei effetti personali e mi guardai attorno. Non sopportavo l’idea che il mio fidanzato mi lasciasse tanto tempo da sola. D’altronde faceva il rappresentante, Giorgio, e si assentava spesso per lavoro. La settimana prima mi aveva chiesto di andare a convivere con lui e io avevo accettato. Ma quella casa era troppo grande per una persona e sembrava non appartenermi. Tutto lì dentro mi faceva provare un senso di totale estraneità. Sarebbe stata sempre la casa di Giorgio, non la mia. Decisi di lasciare quel posto, vuoto e silenzioso. Avrei riordinato gli scatoloni nel pomeriggio, ora avevo da fare qualcosa di urgente. Telefonai al commissariato e chiesi di passarmi la psicologa. Le dissi che era successo di nuovo.  

Era difficile rientrare al distretto dopo l’operazione e il clamore che ne era seguito. In un ambiente maschilista le mie forme piene non passavano inosservate. Nel primo anno di lavoro avevo sofferto un trattamento di arrogante superiorità da parte dei colleghi della volante. Da un paio di settimane, invece, il fatto che i rotocalchi avessero pubblicato le mie foto da infiltrata mi avevano reso l’oggetto dei loro lazzi. Al mio passaggio gli agenti in guardiola si davano gomitate e facevano sorrisetti stupidi. Un commissario mi salutò chiedendomi come stavo, si finse interessato e appena me ne andai scambiò un’occhiata col vicequestore, come a dire “bella figliola”. 

Ridete, coglioni. Mi avete visto in foto nuda e ricoperta di ammennicoli satanisti. E magari vi siete masturbati sopra le immagini dei giornali. Io intanto ho incastrato gli Angeli del Male e ho smantellato la loro organizzazione.   

Disturbo post traumatico da stress, lo aveva definito Deborah, una psicologa neolaureata con grandi occhi azzurri e faccia sbarazzina. Deborah assunse la sua aria da saputella chiedendomi se mi stavo disintossicando dalla droga. Ero stata costretta a prendere parecchie sostanze allucinogene mentre recitavo la parte della novella adepta. Per essere più credibile avevo fatto uso di LSD e ingollato la robaccia che il Reverendo spacciava. A Deborah risposi che stavo seguendo la terapia, ma come poteva constatare non dava grandi risultati. Lei mi rincuorò dicendo che, grazie al mio sacrificio personale, avevo liberato decine di ragazze assoggettate al Reverendo e alla droga. Mi spiegò che i miei incubi erano una reazione emotiva. Stavo rivivendo gli eventi patiti nella setta.  

«Presto scompariranno tutti i sintomi, devi credere alla forza del recupero», disse sorridendomi. Ribattei che non potevo chiudere gli occhi perché riemergevano con forza immagini orribili. Andava avanti dal giorno del blitz. Il Reverendo e i suoi accoliti erano stati sbattuti in prigione, ma tornavano in sogno. Ormai avevo il terrore di addormentarmi per non precipitare in orge e messe nere. Sembrava un sequel di Nightmare, col Reverendo al posto di Kruger. La psicologa mi caricò di tranquillanti e mi consigliò un bel sonno ristoratore. «Allora non ha capito», le risposi alzandomi, «io voglio evitare di dormire.»  

Entrai nella mia stanza al piano superiore mentre i colleghi erano fuori per la pausa pranzo. Guardai la scrivania affollata di carte, schedari e denunce in attesa di essere evase. Dovevo riabituarmi al vecchio lavoro. Dovevo riabituarmi alla routine e alla normalità. Presi in mano l’encomio solenne che avevo fatto incorniciare. L’attestato recitava: L’agente scelto evidenziava elevate capacità professionali e sprezzo del pericolo infiltrandosi in una setta satanica. Si fingeva una giovane spiantata e si faceva ordinare sacerdotessa. La suddetta agente concludeva l’operazione con l’arresto di dodici individui responsabili di spaccio di stupefacenti, profanazione di tombe, circolazione di materiale pornografico, ricatti, minacce e violenza sessuale.  

Mentre facevo ritorno a casa, accusai una improvvisa sonnolenza. Detestavo la mia debolezza. Perché il mio corpo accusava così spesso il desiderio di dormire? Gettai dal finestrino i sonniferi che mi aveva passato la psicologa e puntai decisa verso un bar dove bere una tazza di caffè. Volevo stare in una perenne veglia, volevo tenere gli occhi aperti e dimenticare. Lasciarmi il passato alle spalle. Non avevo rimpianti. Non mi ero pentita di avere partecipato all’Operazione Belzebù. Ero la poliziotta dell’anno. Uno sbadiglio mi slogò la mascella. Oltrepassai la statale. Altri chilometri. Di un bar non c’era traccia. La striscia di asfalto si ripeteva, uguale a se stessa. La vista si annebbiò ma mi costringevo a stare sveglia schiaffeggiandomi. Il rumore dei pneumatici era dolcemente monotono. Il sonno una tentazione. Avevo cercato per troppo tempo di resistere. Un velo di torpore calò. Qualcosa sfarfallò nella mente, poi volarono insetti luminosi a farmi compagnia. Improvvisamente il volante mi scappò di mano e la vettura sbandò.  

La coscienza mi ordinava di scendere dalla macchina, ma sentivo che la stanchezza mi inchiodava sul sedile. Ero praticamente illesa, ma il muso dell’auto si era schiantato contro un albero. Intorno la campagna era diventata silenziosa come una cattedrale. Le cicale smisero di cantare. I fusti maestosi dei pini mi fissavano, come sentinelle mute di un misterioso avamposto. 

 Merda, che cosa mi ha fatto il Reverendo? Che c’era nelle pozioni che mi costringeva a bere? 

Mi ritrovai sulla terra umida, nella fitta e insondabile macchia. Un intrico di rami aveva sostituito la mia vettura in panne. Capii che ero stata sbalestrata nella frontiera del sogno.  

Non è la realtà, non c’è niente di vero. Mi sono di nuovo addormentata.  

Lo dicevo per rincuorarmi. E allora perché i miei piedi sanguinavano al contatto con gli aghi dei pini? Nella piena oscurità cercai di mettere a fuoco il bosco e impallidii. C’erano tre o quattro persone che sbraitavano, sciabolando di luci la notte. Gli Angeli del Male correvano verso di me. Urlavano che ero una traditrice e guadagnavano terreno. Presi la direzione della strada, seguivo l’impulso della preda inseguita dai cacciatori. Con un po’ di fortuna, qualche automobilista mi avrebbe soccorso.  

Ma che diavolo dico? È l’incubo… Un’allucinazione che ottunde la mia mente.  

Volevo rimettermi alla guida dell’auto, volevo tornare nel mio appartamento, al mio mondo. Provai l’impulso di fermarmi e di sfidare gli inseguitori. Forse avrei dovuto provare la loro consistenza, vedere se la loro entità fisica fosse frutto dell’immaginazione. Le gambe andavano avanti da sole, però, molli e doloranti. Avevo il fiatone e seguitavo a correre. Misi un piede in fallo e caddi in mezzo ai rovi. Il viso mi bruciava ed era pieno di ferite, mentre mi poggiavo a forza sui gomiti. Che tutto quello non fosse un fenomeno psichico, lo confermò uno schiaffo che mi fece ricadere all’indietro. Il Reverendo mi incalzò con un secondo colpo, al ventre, spezzandomi il respiro. Annaspavo, in cerca di aria. Il Reverendo cominciò a parlare in tono di lamentazione, alternando il vittimismo alle minacce. Lui aveva fatto tanto per me, mi aveva accolto nella sua famiglia e affidato una grande responsabilità. E io come lo avevo ricambiato? Ero fuggita dalla comunità. Avevo rifiutato la sua protezione. Lo avevo terribilmente deluso, disse.  

La tua fede in Satana vacilla? Prendi l’ostia per rafforzare la tua credenza.  

Mi aiutò a rialzarmi mentre tossivo sangue e fece un gesto con la mano agli adepti che accorrevano furiosi con le torce. Loro potevano andarsene, ci avrebbe pensato lui a riportare al gregge la pecorella. E detto questo, mi carezzò la faccia coperta dai graffi, prendendomi la testa con entrambe le mani, e ficcandomi in bocca un francobollo ricoperto di polverina bianca. Mi ordinò di leccare la polverina. Per paura obbedii, e avvertii subito una sensazione euforica, mentre qualcuno o qualcosa cercavano il mio viso e, poi, tempo e spazio si distorsero per fare posto a un altro ambiente. 

La carezza mi fece riaprire gli occhi. Automaticamente diressi lo sguardo verso l’abitacolo. Realizzai che ero di nuovo dentro la mia auto sul ciglio della strada. La mia cara, vecchia utilitaria.  

Respira, l’incubo è terminato, ti sei svegliata.  

La vettura aveva il parabrezza inclinato e frammenti di vetro sparsi sul sedile come fiocchi di neve. Pensavo di averla scampata, quando avvertii una presenza e una mano mi sfiorò. La nebbia rossa davanti agli occhi si diradò. L’uomo che mi aveva ridestato mi prese la testa accarezzandola. Mi uscì un gemito e mi ritrassi.  

Quell’uomo era il Reverendo, anche se la sua espressione era più gentile rispetto a quando, un istante prima, mi aveva trovato nel bosco.  

“Beatrice”, mi disse, “perché mi guardi così? Sono Giorgio. Hai avuto un colpo di sonno e sei finita fuori strada. Fortuna che passavo di qui. Ho notato la tua auto…”    

Le parole si accavallavano una sull’altra ma non le ascoltavo. Non sanguinavo più. Mi controllai i piedi: erano integri. Passai una mano sul volto, liscio e morbido.  

Giorgio si prese cura di me. Il mio salvatore. Il principe azzurro delle favole. La vita reale. Il fidanzato. Mi sollevò con un’energia sconosciuta. Tra le sue braccia, per la prima volta, ebbi la sensazione di essere veramente al sicuro.   

Con lui al mio fianco l’appartamento tornò a essere confortevole. Il tepore domestico mi allietava. Adesso c’era Giorgio a coccolarmi. Altro che Reverendo! Tra i due c’era una vaga rassomiglianza fisica. Ma Giorgio aveva tante premure, odiava la violenza e persino il suo essere abitudinario e convenzionale mi piaceva. Io e lui eravamo fidanzati da due anni e presto ci saremmo sposati. Non litigavamo mai, eccetto che per un motivo. Giorgio pretendeva che lasciassi la polizia e dedicassi tutte le energie a lui. Ma io non mi ci vedevo affatto a fare la brava casalinga in attesa che il compagnuccio tornasse dal lavoro.  

Anche stavolta Giorgio tirò fuori l’argomento, dicendo che lo stipendio di rappresentante garantiva il mio sostentamento e non mi avrebbe fatto mancare nulla. “E poi guarda come ti ha ridotto la tua importante operazione di polizia!” soffiò irritato nell’orecchio. “Si può sapere che faceva questo Reverendo ai suoi adepti? Ti ha drogato? Ti ha plagiato? Ti ha stuprato?”  

Io mantenni la voce bassa e risposi che il trattamento era sempre lo stesso. Era doloroso ripeterlo. Il Reverendo era bello e aitante, come Giorgio, e sfruttava il suo fascino per adescare fragili vittime. Le conosceva nei bar, con scuse banali, attaccava discorso, le adulava, sapeva come fare presa, le faceva innamorare, le portava nella setta, le indottrinava, le imbottiva di acidi lisergici, le metteva a disposizione della comunità, le fotografava in pose oscene e fabbricava degli album pornografici con cui esercitava i suoi vili ricatti. Non avevo voglia di entrare nei dettagli. Non in quel momento. Giorgio ebbe la delicatezza di non chiedermi altro.

Non mi domandò se anch’io avevo partecipato a un’orgia e se quel mostro mi avesse fatto il lavaggio del cervello. Smise di torturarmi con le domande. A quel punto aveva compreso tutto e si scusò. Abbozzò un sorriso, si allacciò alla mia schiena e mi disse che bisognava voltare pagina. Mi prese in braccio e mi portò sul letto, dove mi spogliò e mi sfiorò le gambe con le sue mani esperte. Gli sussurrai di fare piano. Lasciai che il suo sesso mi penetrasse dandomi il piacere che aspettavo da tempo. La tensione si sciolse al contatto con quel corpo forte. Mi abbandonai completamente all’irreale ebbrezza della nostra unione. Ci addormentammo con le gambe intrecciate, le braccia che riposavano sopra i corpi, come se fossero un tutt’uno, come rami del medesimo albero. E finalmente il sonno arrivò. Lungo e ristoratore.    

Al risveglio fui inondata di luce. Avevo dimenticato di chiudere le tende. Giorgio dormiva come un bambino. Mi sentivo come rinata. Ebbi la certezza che gli incubi erano finiti. Avevo superato i traumi e le paure. Decisi di festeggiare. Mi concessi un bel bagno. Riempii la vasca di acqua bollente e mi immersi fino alla testa. Non avevo più i nervi a pezzi. Ero euforica. Ora dimostravo tutti i miei venticinque anni. Innocenza, spensieratezza e senso di onnipotenza. Cercavo la posizione migliore nella vasca. Giocavo con la schiuma. Inghiottivo l’acqua e la sputavo. E pensavo che questa era la vita che volevo vivere. Accanto al mio Giorgio. Con una promettente carriera che mi attendeva dopo l’attestato di merito. Nel nuovo appartamento che avrei arredato con mobili sfarzosi e pacchiani. La pelle si lessò. Le membra si intorpidirono. Delle chiazze nere comparvero attorno agli occhi. Stelle che danzavano. L’acqua mi risucchiò in una voragine profonda. 

Ero finita per l’ennesima volta dentro l’incubo.  

No, ti prego. Fa’ che mi svegli. Dio, non voglio rivivere quelle esperienze.  

Emersi dall’acqua e spalancai gli occhi. Ero in un luogo molto ampio, in cui le finestre erano sprangate e non entrava la luce. Il casolare della setta. Teschi e candelabri facevano parte dell’arredo. A mollo in una vasca arrugginita, cercai di ribellarmi. Qualcuno mi ordinò di stare buona e mi strofinò una spugna sul corpo, soffermandosi sulle coppe rotonde e sui capezzoli. Tutta quell’attenzione per i miei seni, la morbosa premura per le mie forme, mi irritavano. Imprecai per aver ceduto alla mollezza del bagno. Il brutto era che, saltando da uno spazio a un altro, iniziavo a non distinguere tra sogno e realtà. Il giovane della setta si accanì sulle mie natiche, passando e ripassando la spugna, su e giù, e mi sussurrò che il Reverendo voleva che fossi purificata.  

Il resto dell’abluzione fu umiliante. Poi fui portata all’altare, che era stato ricoperto da un drappo nero. Una donna era stata incatenata lì vicino. La prigioniera attirò la mia attenzione. Quando la inquadrai bene, sbiancai. Era la psicologa della polizia, Deborah. I suoi occhi azzurri erano inconfondibili. Le visioni che mi tormentavano si arricchivano di una nuova presenza? Deborah non dispensava consigli, come al commissariato. Anzi, sembrava bisognosa d’aiuto. La interrogai sulle ragioni che l’avevano condotta nel casolare. Lei mi mostrò le catene alle mani e le fece tintinnare. Poi mi disse che era un’agente di polizia, si era infiltrata nell’organizzazione ma era stata scoperta. I suoi colleghi non sapevano dove fosse e rischiava di morire, se non chiamava i rinforzi.  

Io le risposi che non poteva essere vero. Le raccontai dell’Operazione Belzebù, del successo del blitz che aveva cancellato la setta e degli incubi che mi ossessionavano. Lei era materia di un sogno.  

«Un sogno! Sei un sogno!» protestai.  

Deborah sorrise, come un’isterica. «Stai facendo confusione», mi avvertì.  

Da quello che aveva avuto modo di vedere, e mi aveva osservato da quando era stata catturata dalla setta, io non ero altro che la schiava del Reverendo. Avevo provato a fuggire, ma mi avevano riacciuffato. Ora ero così intontita dalle droghe e angosciata dalla situazione che avevo scambiato la realtà per un brutto sogno e poi fantasticato su un’altra dimensione.  

«Non vuoi accettare le cose per come sono.» 

 Scossi la testa e mi voltai a guardare l’altare che mi attendeva con un senso di nausea. Era lei che stava delirando. Che diceva? Che avevo sognato Giorgio, la casa, il fatto che fossi una poliziotta, e tutto il resto, per evadere mentalmente? Balle, non era possibile. Cercai il Reverendo con lo sguardo ma non lo trovai. Intanto gli Angeli del Male avevano sgozzato un capretto e cospargevano gli scalini col sangue dell’animale. C’era l’aria elettrica che precede il grande evento. Deborah tentò di slegarsi e mi precipitò addosso.  

Poi con la voce alterata mi incalzò: «Devi ribellarti. Ma non capisci?», urlò.  

La mia immaginazione aveva creato un mondo parallelo dove vivevo felice, avevo un villino, le mie soddisfazioni, il fidanzato, un futuro accettabile, un’occupazione di mio gradimento. Ma era falso.  

Tutto inventato. Allucinazioni compensatorie. Il parto di una mente ferita che elabora un’assurda difesa. 

 Tappai le orecchie per non sentirla. Aspettai che la testa riemergesse dall’acqua della vasca. Aspettai che la mia apnea terminasse. Aspettai che le braccia robuste di Giorgio mi risvegliassero. Ma a poco a poco frammenti del passato si riconnettevano al presente e le nebbie si diradavano, e l’unica cosa che avvenne fu che comparve il Reverendo.  

La sua figura si ergeva minacciosa tra me e Deborah e in quel momento capii che lui era una persona in carne e ossa e Giorgio non esisteva. Non era mai esistito un amorevole compagno, così come l’operazione di polizia me l’ero inventata di sana pianta. Era stato un paradiso a cui aggrapparmi, per scampare all’inferno reale. Aveva perfettamente ragione Deborah. Con le mie fantasie stavo fuggendo dal Reverendo. Quell’uomo mi metteva i brividi. La sua bellezza possedeva qualcosa di malato e mi aveva sempre procurato soggezione. Ecco perché lo avevo amato con tutta me stessa, in un passato ormai lontano, e adesso ne ero terrorizzata.  

«Ciao piccola», mi disse. «Non scappare un’altra volta, o mi farai incazzare. Esigo da te una prova di fedeltà.»  

Mi diede un francobollo. Lo rifiutai, ma lui me lo spinse in bocca con violenza. Mi ordinò di leccarlo. La lingua mi pizzicava, una sensazione piacevole però. La droga fece subito effetto. Le pareti del casolare si allungavano. Abbozzai un sorriso senza sapere che fare. Il terrore mi seccava la gola e la confusione regnava sovrana nella mia testa. Improvvisamente vidi tutto rosso.  

Una enorme chiazza di sangue mi aveva oscurato la visuale. Ripulii gli occhi e misi a fuoco quello che avevo davanti. Deborah era stesa ai miei piedi e dal suo corpo sgorgava sangue come un geyser. Il Reverendo estrasse il coltello dal fianco del cadavere e mi disse che la sbirra meritava di morire. Si era infiltrata nella setta e avrebbe denunciato tutti i suoi membri. Inclusa me. Nessuno poteva fermare gli Angeli del Male, Satana aveva donato loro l’onnipotenza. Il suo tono era profondo e autoritario. Mi invitò a recitare la messa. Aggiunse di fare attenzione a non scivolare sulla pozza di sangue. Dovevo continuare a fare quello che avevo sempre fatto, la sacerdotessa. Tornare al mio ruolo.  

Scossi il capo. Le lacrime mi facevano velo. Lui non era l’amore che avevo sognato nella mia adolescenza! Quella comunità non era la mia vera famiglia! No, io non ci stavo, gli comunicai con lo sguardo.  

«Pensa alle foto», mi suggerì il Reverendo, per convincermi. Non era un ricatto, ma un avvertimento. Mi mostrò le immagini degli amplessi a cui avevo preso parte. Volgare pornografia, ma al mio buco di paese non sarebbero stati contenti di vedermi impegnata in simili sozzure. «Pensa alla tua salute», sogghignò perfido. Avrei potuto fare la fine della sbirra, il cui corpo giaceva dissanguato. Poi sorrise, cambiando atteggiamento, e divenne dolce e affettuoso. I suoi occhi mi scandagliarono e non riuscirono a decifrare il mio silenzio.  

La testa mi scoppiava. Tradivo un senso di insicurezza e di colpa, avrei voluto fare qualcosa, ma non mi muovevo. Lui mi scosse dall’apatia e disse che avrebbe officiato il rito insieme a me. Annunciò alla setta che la cerimonia stava per iniziare. Mi sentivo addosso gli occhi bramosi degli adepti. Si chiedevano se avrei ripreso la mia parte nella loro pazzia. Salii tramortita gli scalini dell’altare ed esitai, senza sapere se accettare o opporre un rifiuto. Una lunga sospensione, e feci una mossa che li stupì. Bevvi il sangue dal calice e dissi: «Invoco le forze dell’oscurità. Riempimi, o possente Azazel, di Conoscenza». Era il segno che tutti aspettavano. La sacerdotessa era tornata. Si prostrarono ai miei piedi e intonarono un coro al Principe delle Tenebre. Il Reverendo completò l’invocazione e dispensò le ostie.  

Alla fine della messa, gli adepti sciamarono in fondo al capanno e iniziarono a toccarsi. Col pene dritto si misero in fila e aspettarono con diligenza il loro turno. Io mi sentivo stranamente sollevata, con la testa ero altrove. Da un’altra parte, in una vita fantastica. E mentre il primo della fila calò sopra di me con tutto il suo peso e mi penetrò fino a farmi male, io mi stavo creando una nuova occupazione, una persona a cui voler bene, un luogo più accogliente dove stare. 

L’autore

Alex B. Di Giacomo è lo pseudonimo di Alessio Billi, classe 1973, sceneggiatore con all’attivo il lungometraggio Il diamante del destino e cinquanta ore di fiction andate in onda in prima serata (tra cui Distretto di poliziaRis e Intelligence). Si dedica all’insegnamento della sceneggiatura e frutto delle sue lezioni è il manuale Scrivere un film. Guida pratica alla scrittura cinematografica (Gremese Editore, 2012). Con goWare, nel 2014, ha pubblicato Il prezzo del silenzio

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