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Post-Coronavirus: welfare e sanità da ripensare

L’emergenza Coronavirus ci obbliga a fare i conti con le nuove sfide che investono welfare e sanità come invecchiamento, cronicità, disabilità, diseguaglianze, risorse scarse, rischi di patologie infettive, stili di vita inadeguati e soprattutto inefficienze gestionali e mancanza di un’adeguata visione strategica

Post-Coronavirus: welfare e sanità da ripensare

Non sono mancate negli anni recenti le voci che hanno additato i rischi di una sanità pubblica sottofinanziata a fronte di una domanda crescente per quantità e qualità, e soprattutto la mancanza di una visione strategica di revisione degli assetti di welfare e di promozione della salute e del benessere alla luce delle sfide più recenti. Un esempio tra i più autorevoli è quello della Tempesta Perfetta, testo pubblicato nel 2015 da un gruppo di ricercatori guidato da Walter Ricciardi, estremamente incisivo nell’indicare una serie di sfide urgenti: invecchiamento, cronicità, disabilità, risorse scarse, disuguaglianze, mancanza di coordinamento e di visione strategica nazionale, inefficienza gestionale, stili di vita inadeguati.

E lo fa richiamando contributi precedenti importanti, come quelli di Censis, Ceis e Cergas-Bocconi. Ma possiamo citare anche il lavoro promosso negli ultimi anni dal Ministero della Salute sulle disuguaglianze, insieme ad Agenas, Aifa, ISS e Inmp, che ha mostrato con dati inequivocabili la crescita delle disuguaglianze nelle condizioni di vita e nell’accesso alle cure in Italia (circa 10 anni di speranza di vita in meno nelle aree più povere del Sud rispetto alle aree più ricche del Nord). Ed anche CREA-Sanità e Fondazione Gimbe ci lanciano ogni anno ormai da tempo messaggi chiari sui rischi del de-finanziamento del Servizio Sanitario (3.391 dollari di spesa pubblica annua pro-capite contro una media di 3.978 nei paesi Ocse).

Nessuna di queste voci aveva però previsto un’emergenza come quella della pandemia da virus Covid-19, che ci colpisce così duramente da due mesi a questa parte e che ci ha aperto gli occhi di fronte ai rischi globali delle patologie infettive anche in paesi avanzati, economicamente e socialmente, e dotati di un sistema di garanzie sanitarie di primo livello, come l’Italia. Rischi che ci illudevamo fossero scomparsi, o quantomeno relegati nei paesi con livelli di igiene e sanità molto bassi.

La tempesta sanitaria che non ci aspettavamo ci pone di fronte al fatto che il cosiddetto “doppio carico di malattia” (double burden of desaese), segnalato dagli esperti come uno dei rischi principali dei sistemi di offerta per la crescita rapida, e densa di criticità, delle patologie croniche accanto a quelle acute, non è più sufficiente a descrivere le sfide che abbiamo di fronte. E che dobbiamo prepararci a fronteggiare un carico di malattia triplo o quadruplo per la recrudescenza delle patologie da virus, di cui Covid-19 è l’esempio vivo e attuale, e per la sovrapposizione tra patologie infettive, vecchie e nuove, ma soprattutto nuove, e patologie croniche in individui terribilmente fragili.

La pandemia ci ha anche portato a riflettere in maniera nuova sull’organizzazione dei servizi sanitari, sulla necessità di attrezzarsi in maniera preventiva rispetto a simili eventi, ma anche e soprattutto sulla necessità di ripensare il ruolo della medicina del territorio. Una medicina che a fatica sta compiendo notevoli sforzi, da qualche anno a questa parte, per attrezzarsi per la cura delle patologie croniche e degenerative, a casa o ambulatorialmente, e che ora deve affrontare anche la sfida di una diffusione rapida sul territorio delle possibili epidemie virali, quelle presenti e quelle in arrivo, per evitare i rischi delle ospedalizzazioni improprie ed il collasso delle strutture ospedaliere.

Stando alle informazioni ad oggi disponibili, il contagio rapido e drammatico che si è riscontrato in alcune zone della Lombardia sarebbe avvenuto anche o soprattutto in ambito ospedaliero. Se ci fosse stato, quindi, un sistema adeguato di monitoraggio e di assistenza sociosanitaria sul territorio, si sarebbe potuto quantomeno contenere l’impatto del contagio ospedaliero, con tutte le sue conseguenze.

Accanto a ciò, le enormi difficoltà riscontrate nelle zone di maggiore impatto della pandemia per quanto riguarda l’assistenza nei confronti dei pazienti non ospedalizzati, con sintomatologia più o meno grave, spesso lasciati soli, a volte seguiti attraverso un monitoraggio a distanza di debole incisività, e spesso con l’unico presidio disponibile costituito da medici di medicina generale lontani e sovraccarichi, e da familiari preoccupati e per lo più inermi, conferma la necessità di ripensare radicalmente l’integrazione territoriale tra sociale e sanitario.

Se infatti i presidi sanitari territoriali per la prevenzione e le cure primarie fossero stati più adeguatamente preparati e riforniti di personale e strumenti di buon livello, si sarebbero potute forse evitare anche alcune delle situazioni più critiche, come quelle delle morti a casa in solitudine e senza assistenza, e quelle delle difficoltà psico-sociali, prima ancora che cliniche, di tanti cittadini e di tante famiglie.

Come hanno scritto i medici dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo il 21 marzo scorso, non abbiamo capito ancora a fondo quanto sia importante la dimensione della comunità in sanità, e non solo per le patologie croniche e le disabilità, come è abbastanza chiaro a tutti, ma anche di fronte a una crisi pandemica di tipo infettivo, che è anche e soprattutto una crisi umanitaria, che tocca tutta la popolazione e richiede un approccio comunitario di popolazione e di territorio (Nacoti M. ed altri [2020], At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation).

Per spiegare questo aspetto, i medici del Papa Giovanni dicono che la strategia sanitaria centrata sul paziente, sulla base della quale si è lavorato prevalentemente fino ad oggi, deve essere affiancata da una altrettanto decisa strategia centrata sulla comunità e sul territorio. Intendendo per comunità e per territorio una sanità pubblica che comprenda la prevenzione estesa anche e soprattutto ad ambiti non sanitari e la stretta collaborazione tra settore sociale e settore sanitario. Il che significa anche medicina di iniziativa e monitoraggio a tappeto delle condizioni di salute sul territorio. Anche l’accesso alle cure specialistiche e intensive dell’ospedale dovrebbe trovare aggancio, in questa visione, con le funzioni di controllo e di assistenza diffusa sul territorio.

La tempesta perfetta che non ci aspettavamo ci pone poi di fronte alla necessità di prendere coscienza finalmente delle interrelazioni tra settore della salute ed altri settori. Come scienziati dell’area biologica ed evoluzionistica stanno cercando di spiegarci da tempo, non può esserci salute umana se il resto del pianeta e delle specie viventi non è tutelato e mantenuto “in buona salute”. E dunque i richiami ormai frequenti, ma per ora inascoltati, alla necessità di curare l’integrità dell’ambiente fisico ed animale, rispettare gli equilibri naturali, ridurre le forme di inquinamento e sfruttamento intensivo del globo, rispondere adeguatamente alla crisi climatica (sotto il nome di One Health, Una salute), vanno ora presi sul serio.

La circolarità della vita sul pianeta in tutte le sue forme non può continuare a essere considerata un elegante modello di riflessione, ma deve dare vita a strategie e a interventi che siano davvero circolari in un’ottica di salvaguardia del capitale umano, di quello sociale e di quello materiale insieme, evitando gli sprechi e producendo equilibri virtuosi tra i fattori. La sostenibilità della salute e della sanità sarà data solo se si metterà al primo posto nelle agende dei governi il rispetto degli equilibri generazionali e di quelli naturali.

È il dibattito sul cosiddetto Antropocene, termine poco conosciuto fino a poco tempo fa, benché coniato già nel secolo scorso in ambito biologico e chimico, e che oggi ci appare in tutta la sua pregnanza rispetto al tentativo di capire come sia possibile che nelle aree geografiche più sviluppate del globo esplodesse una emergenza virale. Secondo questo approccio infatti le emergenze virali sono il portato di un predominio della specie umana sul resto del globo.

Uno dei contributi più recenti e più chiari, per tentare di comprendere i rischi per la specie umana dell’iper-sfruttamento del pianeta ed in particolare delle sue risorse naturali, è il libretto pubblicato da Ilaria Capua nel 2019, e intitolato Salute circolare, con il quale si riepiloga la storia del rapporto tra medicina ed ambiente nei secoli. È difficile immaginare un ragionamento più esplicito e comprensibile a tutti sul fatto che l’ambiente non è qualcosa di esterno a noi ma “in realtà ci siamo immersi, fa parte di noi”, e che quindi se trattiamo così male “il nostro mega sacco amniotico”, se avveleniamo, invadiamo e consideriamo come nostra proprietà esclusiva l’ambiente, non dobbiamo meravigliarci se poi la nostra sopravvivenza viene messa in pericolo.

Ma non mancano nel corso della storia degli ultimi decenni molti altri contributi, sviluppati nell’ambito di discipline diverse, che hanno tentato di far capire che la salute è un processo sistemico che include il benessere della natura e del mondo animale. Il riferimento è ad esempio agli studi sociologici del Censis negli anni 80 sulla salute in Italia, nell’ambito dei quali veniva proposto il concetto di “sistema psico-socio-ambientale” per definire la realtà evolutiva e integrata della salute umana.

E il riferimento va anche ad alcuni esperti di etica ambientale e urbana, come Corrado Poli (Politica e natura, 2017), che hanno indicato il problema ambientale come un problema politico di importanza bioetica fondamentale. L’approccio alla questione che va sotto il nome di green washing, vale a dire l’introduzione nel sistema produttivo e urbano di alcuni interventi di mitigazione dell’inquinamento e della distruzione ambientale, non è sufficiente, secondo questa linea di pensiero, a promuovere una sostenibilità effettiva e globale dello sviluppo umano e delle sue potenzialità.

E anche filosofi e sociologi teorici particolarmente attenti hanno più volte richiamato l’attenzione, alla fine del secolo scorso e a inizio di quello attuale, sui rischi per la specie umana della distruzione dell’ambiente fisico, naturale ed animale. Lo stesso Jean Baudrillard, filosofo e sociologo tra i più importanti degli ultimi decenni, nel lontano 1992 scriveva nel suo L’illusione della fine che “il peggio non è che siamo sommersi dai rifiuti della concentrazione industriale e urbana, bensì che noi stessi siamo trasformati in residuati”. A Baudrillard era chiaro già allora che “la specie umana, mirando all’immortalità virtuale (tecnica) (…) sta perdendo la sua particolare immunità”.

Come tutti questi autori, ed altri ancora, sottolineano, ciascuno dal proprio angolo di visuale, il problema è allora principalmente quello di guardare al futuro con lungimiranza e di confrontarsi tra discipline diverse e relativi studi e risultati. Tornando alle parole di Ilaria Capua, dobbiamo superare la iper-specializzazione e la separazione tra ambiti di studio diversi, come avviene nel Centro da lei diretto in Florida (One Health Center of Excellence), che si prefigge proprio lo scopo di studiare la salute di tutte le specie e dell’ambiente naturale nel suo insieme. E dobbiamo mettere a frutto le enormi possibilità scientifiche e tecniche che la specie umana è stata capace di sviluppare per la salute dell’intero pianeta. Solo così potremo promuovere anche la nostra di salute.

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