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Occupazione e luoghi comuni: falsificare la realtà non serve a nessuno

La pubblicazione del report dell’Istat sul terzo trimestre 2021 del mercato del lavoro fa chiarezza sulla consistenza della ripresa dell’occupazione e smentisce l’idea che sia solo precarietà o che le retribuzioni diminuiscano – Nel sindacato manca invece una riflessione sulla difficoltà delle aziende a trovare personale

Occupazione e luoghi comuni: falsificare la realtà non serve a nessuno

Alcune recenti valutazioni incorporano una forte dose di scetticismo verso la reale consistenza e la qualità della ripresa economica, che si appunta non tanto sugli indicatori macroeconomici  quanto sui temi dell’occupazione e delle retribuzioni. Si tratta però prevalentemente di una posizione condizionata da imprecisione, errata valutazione dei dati e delle loro relazioni, acritica adesione a luoghi comuni.

La pubblicazione dei report ISTAT sul mercato del lavoro nel terzo trimestre e nel mese di ottobre, e quello di Bankitalia sulle comunicazioni obbligatorie per lo stesso periodo possono aiutare a fare un po’ di chiarezza.

Innanzitutto sale l’occupazione, ma questo è noto e conclamato: un trend consolidato da tempo, anche se per raggiungere i livelli pre covid mancano ancora circa 200.000 occupati. Che non si tratti di un rimbalzo occasionale lo dimostra il dato tendenziale (+2,2% sul III Trimestre 2020) e il dato dell’input di lavoro nel sistema economico, misurato dal dato delle ore lavorate (+ 4,1% rispetto al 2020, e +1,4% rispetto al trimestre precedente). Eloquente anche il dato delle posizioni lavorative dipendenti, che cresce del 2,7% rispetto al trimestre precedente, e addirittura del 3,3% nell’industria e del 5,8% nei servizi rispetto all’anno scorso. Dove occorre fare un po’ di chiarezza è sulle varianti dell’occupazione dipendente.

Primo luogo comune: è un’occupazione fatta di precarietà. Non è vero: si tratta di un effetto ottico. E’ ben vero che adesso le assunzioni a termine superano quelle a tempo indeterminato, ma per un’ovvia ragione: durante la crisi e il blocco dei licenziamenti le uniche cessazioni di lavoro (a parte dimissioni volontarie o pensionamento) erano quelle dei tempi determinati che scadevano. E’ naturale che appena gli andamenti economici hanno consigliato di riadeguare gli organici le aziende hanno cominciato col riempire il classico serbatoio di contratti a termine. Non è affatto vero che i contratti a termine siano aumentati in assoluto: adesso sono al 13% del lavoro dipendente, esattamente come prima della crisi. Notevole, come abituale nei periodi di crescita, l’aumento molto significativo del lavoro in somministrazione: +30% rispetto a 12 mesi fa; occorre ricordare che l’80% dei contratti di somministrazione sono a termine (costituiscono circa il 16% di tutti i contratti a termine) ma 100.000 lavoratori somministrati sono a tempo indeterminato. In definitiva il luogo comune che con la ripresa aumenti la cosiddetta precarietà è del tutto infondato. Ci sarebbe poi da fare una riflessione seria circa l’equazione lavoro a termine = precarietà. La faremo!

Secondo luogo comune: è un’occupazione in cui ha un peso enorme il lavoro part-time. Sbagliato! Nella ripresa le assunzioni part-time crescono significativamente di meno: negli ultimi 12 mesi le posizioni lavorative full time sono cresciute del 5,6%, quelle part time del 3,6%. I’incidenza dei part timer sul totale del lavoro dipendente a tempo indeterminato è del 11,2, mezzo punto inferiore a 12 mesi fa. Del resto una minor incidenza del lavoro part time, ancorchè marginale ma significativa perché tendenziale, è rilevabile dal dato delle ore lavorate pro capite, che cresce del 3,3% in termini congiunturali (mese su mese) e del 2,7% tendenziale (ultimi 12 mesi). Resterebbe poi da fare un’indagine seria sul part time “involontario”: per Eurostat la definizione si applica a lavoratori che vorrebbero passare a full time, e secondo questa definizione il Italia il 15% dei dipendenti part time sono in questa condizione; i ricercatori italiani invece tendono ad adottare criteri che considerano se il part time sia stata una richiesta del lavoratore o una proposta dell’azienda, e in questo caso gli involontari arrivano intorno al 40%.

Terzo luogo comune: diminuiscono le retribuzioni. Non è così! Naturalmente nel 2020 è calato il monte salari, dal momento che è diminuito il numero degli occupati. Così come nei mesi del lock down e immediatamente successivi le medie delle retribuzioni sono calate, ma solo per effetto della Cassa Integrazione. Viceversa a partire dal 2008 e fino al 2019, Eurostat ci informa che gli stipendi medi lordi sono cresciuti di circa il 3%, in linea con la media UE. Diverso il discorso se si prendono in considerazione i salari netti e le diverse fasce di reddito: per quella sui 16.000 € annui il netto è cresciuto di 7,4 punti (grazie soprattutto al “bonus Renzi”), per quella tra 50.000 e 55.000 è diminuita di 3 punti, ma questa fascia di lavoratori, come abbiamo imparato dal recente dibattito non sta particolarmente a cuore al sindacato! (N.B. i dati sono riferiti ad un monoreddito senza figli, escludono quindi detrazioni e benefici che sono più rilevanti nelle fasce di reddito basse).

Naturalmente parlando di andamento delle retribuzioni occorre tenere in conto il valore reale, quindi il potere d’acquisto. Secondo Job Pricing il periodo 2014-2019 ha visto le retribuzioni globali di fatto crescere significativamente più dell’inflazione: tra il 5% dei quadri e l’8% degli operai; tuttavia questo trend favorevole era relativo ad un’inflazione minima, se non negativa, che si è bruscamente rialzata nella seconda metà del 2021. Alla fine del terzo trimestre (dati ISTAT) le retribuzioni di fatto erano cresciute di 1,7% ma l’inflazione del 2,6. Per il 2022 comunque l’80% dei lavoratori è coperto da CCNL rinnovato che prevede aumenti retributivi mediamente di 1,2%.

Questo indica abbastanza chiaramente qual è il punto sulla questione retributiva: i salari sono bassi, e reggono solo finchè l’indice dei prezzi è basso anch’esso; è evidente che il Sindacato non può pensare di aumentare i salari operando soltanto su sgravi fiscali e contributivi, per quanto importante possa essere il cuneo (che peraltro ha effetti negativi sul costo del lavoro più che sulla retribuzione netta). Sarebbe utile fare un raffronto serio sulle retribuzioni italiane di fatto e quelle europee, considerando anche istituti come la tredicesima, la quattordicesima, il TFR e il sistema di sostegni al reddito finanziato da imprese e lavoratori. Tuttavia non c’è dubbio che le retribuzioni italiane siano nella fascia bassa dell’UE: del resto la produttività dei fattori, lavoro compreso, è tra le più basse in Europa.

Su questo terreno si gioca la partita dei salari, purchè il Sindacato sia capace di coniugare le rivendicazioni salariali a intese sugli altri fattori che condizionano la produttività: apertura alla concorrenza e fine del monopolio nei servizi pubblici, revisione dei sistemi di autorizzazione-controllo sulle iniziative imprenditoriali private e pubbliche, riforma del sistema giudiziario penale e civile e revisione delle competenze della giustizia amministrativa, rinnovamento profondo della Pubblica Amministrazione dalle modalità di reclutamento del personale alla ridefinizione della sua mission verso la società .Tutti argomenti su cui il Sindacato si sofferma malvolentieri, ma che in questo momento, con il Recovery Plan da articolare e attuare, rappresentano un’occasione impedibile per un Sindacato che voglia inserire il tema delle retribuzioni in un progetto di riordinamento del sistema Paese.

Un ultimo aspetto dei recenti report sui quali il Sindacato non ha ancora affrontato una riflessione organica: ISTAT ci dice che il tasso di posti vacanti (assunzioni programmate che restano inevase per mancanza di candidati adeguati) è nel III° trimestre del 2%, raddoppiato rispetto all’anno scorso. Ossia (come del resto più volte segnalato da numerose ricerche) al crescere della domanda di lavoro in connessione con la ripresa non corrisponde un aumento dell’offerta. E questo spiega in buona parte le difficoltà a recuperare l’occupazione pre-crisi, ma più in generale l’endemico basso tasso di occupazione del Paese. Tuttavia il Sindacato, pur comprensibilmente preoccupato di evitare licenziamenti, non sembra dare la necessaria attenzione alla promozione di nuova occupazione.

Ma il tasso di licenziamento del 2021 (dati Bankitalia) è addirittura inferiore alla metà di quel che era all’inizio del 2019. Con la fine del divieto di licenziamento ad ottobre c’è stato un picco (come temuto) ma subito riassorbito. I licenziamenti sui quali si concentra attualmente l’attenzione dei sindacati e dei media non segnano in realtà nessun aumento rispetto a quello che è il trend storicamente consolidato, anche se dal punto di vista mediatico alcuni episodi, soprattutto quando vedono protagonisti investitori stranieri, hanno avuto molto clamore. Certo non è molto coerente  diffondere  un’informazione che enfatizza alcuni casi, per gravi che siano, per alimentare la convinzione che ci sia una tempesta di licenziamenti ed evitare di dire che nel complesso i licenziamenti non sono quanti si temeva, e che comunque diminuiscono.

Silenzio invece sul problema prima indicato: il mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro. Sul quale, come sulle prospettive dei giovani nel mercato del lavoro, vengono unicamente spese parole di corrucciata preoccupazione; e allorchè si affronta la questione che potrebbe dare risposte a questo problema, ossia le politiche del lavoro, il sindacato sceglie di privilegiare una linea difensiva preoccupandosi  principalmente di chiedere ammortizzatori sociali che garantiscano il reddito agli occupati. Un’esame di realtà e la ricerca di soluzioni costruttive sarebbero utili per tutti.

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