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Nuovo Rinascimento o stagnazione secolare: dove ci portano le tecnologie

La rivoluzione tecnologica avanza in tutto il mondo ma resta da vedere se la nuova economia saprà superare o no i problemi legati all’invecchiamento della popolazione, alla riduzione del libero commercio e a un sistema di istruzione che sta fallendo – Duello al calor bianco tra economisti e tecnologi e tra ottimisti e pesssimisti

Nuovo Rinascimento o stagnazione secolare: dove ci portano le tecnologie

Il punto di vista degli economisti

La gente comune ha la percezione che stiamo vivendo in un’epoca di grandi cambiamenti, senza pari nella storia dell’umanità. Alcuni eminenti studiosi e tecnologi stanno cercando di dirci che non è affatto così: in realtà da mezzo secolo stiamo attraversando un periodo di grande stagnazione. A guardare bene qualche sospetto viene: il propulsore dell’umanità è ancora il petrolio come un secolo fa, il motore a scoppio è ancora lì a farla da padrone, continuiamo ad allevare e macellare animali come nel Medioevo e la conquista dello spazio è ancora una chimera tanto che il piccolo passo di Neil Armstrong è rimasto davvero un piccolo passo.

Il termine grande stagnazione è stato popolarizzato da Tyler Cowen, un economista della scuola austriaca che insegna alla George Mason University e tiene un seguitissimo blog sul marginalismo oltre a scrivere regolarmente sul “New York Times”. La grande stagnazione è il titolo di un suo fortunato pamphlet di 60 pagine uscito del 2011 con Penguin Random House. Questo breve saggio ha fatto così tanto discutere che c’è una pagina di Wikipedia di 4mila parole dedicata ad esso. In realtà il libro ha un titolo chilometrico piuttosto eccentrico ma efficace: The Great Stagnation: How America Ate All the Low-Hanging Fruit of Modern History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better. Questo pamphlet non è stato ancora tradotto in italiano, ma Egea ha reso disponibile nella nostra lingua il saggio successivo di Cowen, più corposo ed esaustivo, dal titolo Media non conta più: Ipermeritocrazia e futuro del lavoro. Cowen è una delle menti più brillanti, autonome e meno convenzionali del dibattito globale e spesso si trova in forte polemica con gli eredi della scuola austriaca di Friedrich von Hayek dalla quale proviene come formazione.

Sul lato keneysiano c’è Larry Summers, la testa d’uovo di Harvard e protagonista nel bene e nel male di tanta parte della politica economica di Bill Clinton e anche di Barak Obama. L’abrasivo ex-rettore di Harvard non perde alcuna occasione per affermare che siamo in un’epoca di stagnazione secolare, preferendo questo aggettivo pesante al più accomodante “grande”. Summers ha raccolto ed esposto le sue riflessioni in un articolo su “Foreign  Affairs” dal titolo The Age of Secular Stagnation: What It Is and What to Do About It.

Quello della grande stagnazione è uno dei temi preferiti di Martin Wolf, il chief economics commentator del “Financial Times”. Un suo articolo dal titolo È l’era della grande stagnazione? Ecco perché l’economia globale non brillerà più è stato tradotto in italiano e pubblicato da “Il Sole-24 ore”.

… e quello dei tecnologi

Non ci solo solo economisti e opinionisti a martellarci con questo concetto, ci sono anche alcuni protagonisti della rivoluzione tecnologica che ha il suo epicentro nella Silicon Valley. Peter Thiel, fino al suo appoggio a Trump una delle più ascoltate voci della Valle, ha scritto nel suo libro Zero to One che, a paragone dei cambiamenti introdotti dalla generazione degli Edison, dei Tesla, dei Curie, dei fratelli Wright e degli innovatori della seconda rivoluzione industriale, quelli di oggi impallidiscono. Ci saremmo aspettati le macchine volanti, scrive Thiel, e abbiamo avuto i 140 caratteri di Twitter. Elon Musk, dopo aver lasciato PayPal, non si è messo a costruire un social media, ma auto elettriche con Tesla Motors e navicelle spaziali con SpaceX per portarci su Marte entro il 2030. Verso queste mete, apparentemente utopistiche, Musk corre come correva il treno di Trotsky lungo la Transiberiana. Thiel investe in start-up ad innovazione pesante, come Modern Meadow, che si prefigge di portare sulle nostre tavole hamburger prodotti con stampanti 3D, così da rendere superflui gli allevamenti. Per ora il costo di 9mila dollari a chilo è piuttosto proibitivo. Si dice, però, che il sapore c’è.

Forse le cose più interessanti e meditate sulla grande stagnazione sono state scritte da un economista ultrasettantenne, Robert J. Gordon, professore di scienze sociali alla Northwestern University e che non ama le luci della ribalta come Cowen o Summers. Già nel 2000 di fronte all’esplosivo ed effimero fenomeno della nuova economia aveva scritto un saggio seminale dal titolo Does the “New Economy” Measure up to the Great Inventions of the Past? in cui appunto discuteva la reale portata delle innovazioni arrivate con Internet. Recentemente ha pubblicato un libro in cui raccoglie gli studi e le riflessioni di oltre 20 anni lavoro su questi temi dal titolo The Rise and Fall of American Growth pubblicato nel gennaio 2016 da Princeton University Press. Le tesi di Gordon, insieme a quelle di altri due studiosi autori di un libro dal titolo emblematico The Innovation Illusion, sono stati ripresi dall’“Economist” in un articolo inserito nella rubrica Schumpeter dal titolo Techno wars. An earlier sunny mood about technology and innovation has given way to pessimism. Abbiamo tradotto questo articolo che è veramente pieno di spunti di riflessione interessanti. Non preoccupiamoci però troppo, l’innovazione c’è ed è importante.

Il duello tra ottimisti e pessimisti

La più accesa disputa del business contemporaneo mette di fronte i tecno-ottimisti e i tecno-pessimisti. Il primo gruppo sostiene che il mondo attraversa un Rinascimento guidato dalla tecnologia. I capi delle imprese tecnologiche competono l’uno con l’altro a forza di superlativi per descriverlo. Alcuni economisti dicono che l’unico problema è quello di capire che cosa fare delle persone quando le macchine diventeranno super-intelligenti. I pessimisti replicano che sono frottole: poche imprese stanno andando a gonfie vele ma l’economia è bloccata. Larry Summers dell’università di Harvard parla di stagnazione secolare. Tyler Cowen della George Mason University dice che l’economia americana si è pappata tutti i frutti facili della storia moderna e ne ha fatto indigestione fino alla nausea.

Fino ad adesso il premio per la visione più pessimista è andato a Robert Gordon della Northwestern University. Nel suo ultimo libro The Rise and Fall of American Growth, pubblicato a gennaio, Gordon sostiene che la rivoluzione tecnologica è un insignificante passatempo se confrontata con le invenzioni che hanno caratterizzato la seconda rivoluzione industriale –l’elettricità, le automobili e gli areoplani – che hanno cambiato in profondità la vita della gente. L’attuale rivoluzione dell’informazione, al contrario, sta cambiando solo un limitato gruppo di attività

I pessimisti

Adesso, un nuovo libro, The Innovation Illusion (Yale University Press) di  Fredrik Erixon e Bjorn Weigel presenta una visione ancora più pessimistica. Erixon e Weigel scrivono che il grande motore della crescita capitalistica, la distruzione creativa teorizzata da Joseph Schumpeter, è kaput.

Se si escludono una manciata di stelle come Google e Amazon, il capitalismo sta rapidamente invecchiando, rimarcano i due autori. Le 100 più importanti aziende europee sono state fondate più di 40 anni fa. Perfino l’America, dove la cultura imprenditoriale è più forte, sta entrando nella mezza età. La proporzione delle imprese mature (quelle con più di 11 anni) è diminuita da un terzo di tutte le imprese nel 1987 a quasi la metà nel 2012 e il numero delle startup è crollato dal 2001 al 2011. I liberisti danno la colpa di questa stagnazione all’eccesso di regolamentazione. Questa vi ha certamente contribuito. Ma gli autori sostengono che questo stato di cose ha a che fare soprattutto con la struttura del capitalismo stesso.

Le imprese non appartengono più a imprenditori ambiziosi e coraggiosi ma a gigantesche organizzazioni come il Vanguard Group (con più di 3mila miliardi di dollari di patrimonio in gestione) che costantemente comprano e vendono pezzi di proprietà di aziende per conto di investitori anonimi. Queste organizzazioni sono più interessati ai soldi che alle imprese di cui acquistano le azioni.

Non sono tutti dei Mark Zuckerberg, asseriscono gli autori. La maggior parte delle grandi aziende esige la prevedibilità e pertanto ingaggiano dei burocrati per dirigerle. Questi amministratori si tengono lontani da investimenti rischiosi come quelli nelle nuove tecnologie. Dopo essere cresciuti incessantemente nel periodo 1950-2000, gli investimenti in IT hanno iniziato a declinare a partire dal 2000. Invece di sfidare il mercato, i manager burocratici si focalizzano nello spremere i costi e difendere le nicchie. Ammassano fatturati, riacquistano le azioni delle loro aziende e rafforzano le loro posizioni fondendosi con antichi rivali.

Gli argomenti dei pessimisti sono in qualche misura veri, ma esagerati, Gordon ha ragione nel dire che i cambiamenti portati dalla seconda rivoluzione industriale sono irrepetibili. Però questo non vuol dire che la macchina senza conducente non significhi niente.

Erixon e Weigel hanno ragione a preoccuparsi dei dati deludenti riguardo alla nascita di nuove imprese. Ma molte imprese mature non sono affatto guidate da burocrati e hanno saputo reinventarsi molte volte: General Electric ha avuto almeno nove vite. E l’impatto delle nuove imprese nate negli ultimi venti anni come Uber, Google e Facebook non dovrebbe essere minimizzato: esse hanno tutte le caratteristiche schumpeteriane che gli autori ammirano

Nel campo dei pessimisti l’argomento chiave fa perno, non tanto sul comportamento delle imprese e degli investitori, ma piuttosto su statistiche di macro-livello riguardanti la produttività. I dati degli ultimi anni sono veramente deprimenti. Karim Foda, del Brookings Institution, calcola che la produttività del lavoro nel mondo sviluppato è al  livello più basso dal 1950. La produttività totale dei fattori (che misura l’innovazione) è cresciuta di appena lo 0,1% nelle economie avanzate dal 2001, ben al di sotto della media storica.

Gli ottimisti

Erik Brynjolfsson e Joo Hee Oh del MIT, che vanno annoverati tra gli ottimisti, stimano che il valore dei servizi gratis forniti tramite Internet, e non censiti nelle statistiche ufficiali, possa essere valutato intorno allo 0,74% del PIL USA. Prossimo quindi al miliardo di dollari. Sopra, la copertina di un ebook la cui influenza può essere paragonata a quello di Tyler Cowen sulla grande stagnazione.
Gli ottimisti rispondono a tono con due argomenti. La prima è che deve esserci qualcosa che non funziona nelle statistiche. Non rispecchiano lo stato di fatto perché non tengono di conto del considerevole surplus nel consumo che è prodotto su Internet con i servizi a costo zero. Ma questo argomento non convince. Le statistiche ufficiali possono sottostimare l’impatto della rivoluzione di Internet così come minimizzarono nel passato l’impatto dell’elettricità e dell’automobile, ma non la sottostimano a tal punto da fornire una spiegazione all’attuale declino della produttività.

Il secondo argomento degli ottimisti, che la rivoluzione della produttività è appena avviata, è più convincente. Durante lo scorso decennio molte aziende tecnologiche si sono concentrate su cose che erano più destinate al divertimento che ai fondamenti per usare un’espressione di Paul Krugman, che ha sviluppato un vivace polemica con Summers sulla stagnazione secolare. In realtà le imprese migliori della Silicon Valley sono certamente concentrate su cose che cambiano il mondo materiale. Uber e Airbnb stanno portando dei miglioramenti pazzeschi in due grandi industrie che sono rimaste ferme per decenni. Morgan Stanley valuta che la macchina senza conducente può portare incrementi di produttività in America pari a 507 miliardi di dollari, solo per il fatto che le persone possono guardare il loro portatile al posto della strada mentre viaggiano in auto.

La questione reale non è se la rivoluzione tecnologica ha perduto spinta o se la distruzione creativa si sta logorando. In realtà la rivoluzione tecnologica sta prendendo campo e Google e Amazon saranno due delle imprese più innovative ad emergere nei prossimi 50 anni. Piuttosto la questione è se la nuova economia possa respingere le forze che gli schierano contro: l’invecchiamento della popolazione, una classe politica che, per accondiscendere il populismo, restringe il libero commercio e estende la regolamentazione dei business, un sistema di istruzione che sotto molti aspetti sta fallendo.

Il pericolo più grave è che, mentre infuria la battaglia tra ottimisti e pessimisti, il mondo diviene sempre più frammentando in isole ad elevata produttività circondate da un vasto oceano di stagnazione.

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