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Moda e tech: addio al mito del dolcevita alla Steve Jobs

Il maglione nero paricollo, inventato dallo stilista giapponese Issey Miyake e reso celebre dal fondatore di Apple, è diventato la “divisa dei cattivi” per colpa di Elizabeth Holmes, autrice di una delle più rivoltanti truffe in ambito medico.

Moda e tech: addio al mito del dolcevita alla Steve Jobs

T-shirts, felpe, cravatte

Indossare una maglietta piuttosto che un’altra può significare niente o può significare qualcosa di importante, di molto importante. Certamente per chi la indossa, ma anche per chi la osserva. Il nostro Salvini ha costruito una fortuna politica sulle felpe, indossate in ogni circostanza come strumento primario di comunicazione, che precede addirittura i social media, di cui è il superman.

La forza politica greca Syriza, che ha governato il paese ellenico per 5 anni e si avvia al crepuscolo, vieta ai propri membri di indossare la cravatta, simbolo dell’élite politica. Consiglia una camicia con il colletto sbottonato. Un gesto di informalità che di per sé irrita i tedeschi.

Nello sfrenato mondo della tecnologia c’è l’esempio preclaro di Steve Jobs, cioè di una storia di successo, forse, senza pari. Le sue magliette nere dolcevita sono diventate un mito, quasi lo simboleggiano. Se non ci fosse la bandiera dell’ISIS tra le scatole, potrebbe essere issata sul pennone di ogni innovatore. C’era la felpa di Zuckeberg, ma Mark adesso ha preso a indossare magliette modello-Jobs.

C’è poi stata Elizabeth Holmes, la fondatrice di Theranos, una delle truffe più bieche e ributtanti nella storia dell’innovazione tecnologica in campo medico e biologico. Elizabeth aveva la sua divisa: una maglietta nera dolcevita e raramente si vedeva giro vestita diversamente. La Holmes adesso ha preso il posto di Crudelia nel pantheon dei cattivi. E la maglietta nera è diventata la divisa dei cattivi, con il contributo anche dei pick-up dell’esercito islamico.

Una storia speciale

Hbo ha appena rilasciato il film documentario, The Inventor: Out For Blood In Silicon Valley, che ricostruisce in modo documentato le vicende di Theranos, una startup di biotecnologia della Silicon Valley e della sua affascinante e magnetica fondatrice, Elizabeth Holmes. Dopo aver raggiunto una valutazione di 10 miliardi di dollari, Theranos è implosa brutalmente al punto da trasformarsi in uno scandalo che potrebbe rivaleggiare con quello della Enron.

Si tratta di una storia che sembra avere tutto, meglio congeniata di una fiction ideata da Vince Gilligan. C’è l’ambizione, l’inganno, un amore segreto, la compiacenza di politici e magnati dei media e dell’informazione, ci sono le celebrità, c’è una giovane, attraente e audace bionda, un suicidio, l’ascesa e la caduta della finanza, centinaia di milioni di dollari bruciati, la salute di migliaia di persone a rischio e la prospettiva di una lunga pena detentiva per la protagonista.

Nell’immaginario pubblico Elizabeth Holmes è sinonimo di scandalo, inganno, frode, bullismo e… Steve Jobs. Si perché la Holmes, a un certo punto, era stata dipinta come la reincarnazione del vero Steve Jobs, non solo per il suo stile manageriale, per la sua fanatica ammirazione per la Apple e il suo iconico fondatore, ma anche per le magliette nere a dolcevita (a collo di tartaruga) che la Holmes, al pari di Jobs, usava come una vera e propria divisa.

Il modello Jobs

Jonathan Kim in un articolo su Medium, Elizabeth Holmes and the Ghost of Steve Jobs, traccia un parallelo tra la “nuova Steve Jobs” e l’“autentico Steve Jobs”, mostrando la differenza fondamentale tra le due esperienze seppur accumunate da molti tratti, soprattutto per l’approccio mimetico della Holmes alla leadership e alla visione de co-fondatore della Apple. A partire dalle magliette.

Le magliette della Holmes non erano delle magliette dolcevita qualsiasi, bensì provenivano dallo stesso stilista giapponese, Issey Miyake, da cui si serviva Steve Jobs per ordini massivi. Ogni un modello con girocollo di Miyake può superare il costo di 250 euro. Al tempo di Jobs valeva 175 dollari.

Chi è Issey Miyake?

Miyake, nato a Hiroshima nel 1938 e sopravvissuto all’olocausto atomico, è lo stilista giapponese che ha saputo, più di altri, miscelare la tradizione orientale e occidentale nella sua attività di designer innovativo di moda. È senza dubbio uno dei più famosi stilisti giapponesi nel mondo.

Ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni ’60, lavorando con couturier come Hubert de Givenchy e Guy Laroche. Ha fondato la sua impresa nel 1970 e nel 1973 ha mostrato la sua collezione in una sfilata alle giornate della moda di Parigi.

Negli anni ’80 Miyake ha raggiunto la fama internazionale, entrando nel gruppo degli stilisti più apprezzati insieme da altri designer giapponesi come Rei Kawakubo (di Comme des Garçons) e Yohji Yamamoto.

Nel 2005 e nel 2006 Miyake è stato insignito del Praemium Imperiale dalla Japan Arts Association ed è diventato il primo stilista di moda a ricevere il Premio di Kyoto in Arte e Filosofia alla carriera assegnato dalla Fondazione Inamori. Nel 2014 Miyake ha avuto un riconoscimento importante anche in Italia con l’ambito premio Compasso d’oro assegnatoli dall’Associazione per il disegno industriale. Lo ha vinto per la creazione della famiglia di lampade IN-EI Issey Miyake, prodotta da Artemide.

Miyake è conosciuto anche per la sua linea Pleats Please e per il suo capo A-POC (A Piece of Clothing)), realizzato da una macchina industriale programmata per tessere un enorme pezzo di tessuto continuo.

Dopo la morte di Jobs nel 2011, le vendite delle magliette dolcevita sono aumentate vertiginosamente. Nello stesso anno, però, Miyake decise di ritirare il capo dalla sua linea di abbigliamento. Vi fu reintrodotto solo nel 2017 a un prezzo maggiorato.

Steve Jobs e Miyake

La fama acquisita da Miyake si deve anche a Jobs. Secondo il biografo, Walter Isaacson l’interesse di Jobs per Miyake sarebbe nato quando l’allora presidente della Sony, Akio Morita, disse a Jobs di aver chiesto allo stilista di disegnare le divise de dipendenti. Jobs aveva un’ammirazione straordinaria per la compagnia giapponese che citava spesso come un modello di intersezione tra arte e tecnologia. Le divise di lavoro avevano contribuito a creare un legame tra i dipendenti della Sony e la società. Jobs voleva la stessa cosa per Apple.

Incaricò quindi Miyake di creare una casacca per i dipendenti di Apple. Ma quando Jobs mostrò ai suoi alcuni campioni del capo disegnato da Miyake, capì che nessuno voleva una divisa. La cultura del lavoro dei californiani era diversa da quella dei giapponesi. Ma questo non interruppe il rapporto di Jobs con lo stilista. Scrive Isaacson: «Grazie a quell’operazione, però, Jobs strinse amicizia con Miyake, che cominciò a visitare regolarmente. Ebbe anche l’idea di procurarsi un’uniforme personale, sia per la comodità nell’uso quotidiano (la razionalità da lui tanto invocata) sia per la capacità di trasmettere un segno di stile distintivo. «Chiesi a Issey di farmi uno dei suoi dolcevita neri che tanto mi piacevano. Lui me ne confezionò cento». Notando la mia sorpresa di fronte a questo racconto, Jobs me li ha fatti vedere, impilati nel suo armadio. «Ecco che cosa indosso» ha detto. «Ne ho a sufficienza per il resto della mia vita». Jobs pagava ogni maglietta 175 dollari a pezzo. Un prezzo neanche trattato un poco, per un “bullo” dei negoziati d’affari come Jobs.

Elizabeth Holmes e Miyake

La Holmes ha più volte pubblicamente dichiarato di essere stata ispirata dalla cifra estetica di Jobs, anche nella scelta delle cose da indossare.

Stando al podcast di ABC News The Dropout, che narra l’ascesa e la caduta della Holmes, le magliette dolcevita non sono sempre state il capo distintivo della Holmes. Sembra che a indirizzarla verso quella scelta sia stata Ana Arriola una ex dipendente di Apple (dove la Holmes faceva shopping di risorse umane) nel raccontarle la storia di Jobs, della Sony, delle divise e del rapporto tra Jobs e Issey Miyake. Dopodiché, continua la Arriola, la Holmes si mise sulle tracce dello stilista giapponese e il resto della storia è noto. “Ha così cambiato il suo abbigliamento — conclude la Arriola– ed è stato per il meglio”.

Non è proprio la stessa versione della Holmes. In un’intervista del 2015 a Glamour ha detto che indossava i dolcevita neri fin dall’infanzia.

«Mia madre mi ha fatto un dolcevita nero quando avevo otto anni. Adesso ne ho 150. È la mia uniforme — ha detto la Holmes. Semplifica la vita. Ogni giorno metti su la stessa roba e non devi pensarci, una cosa in meno da fare. Tutta la mia attenzione è sul lavoro. Lo prendo molto seriamente; sono sicura che ciò si riflette anche nel modo in cui mi vesto».

Holmes ha riaffermato questa versione nel documentario HBO The Inventor. Ha infatti affermato «Devo rivelare che indosso magliette dolcevita nere da quando avevo 7 anni».

Se Holmes indossasse davvero i dolcevita dall’infanzia o se li avesse semplicemente adottati da adulto per emulare un certo CEO, non è quindi chiaro. Ma se le persone le credono, allora, si chiede Vanessa Friedman — il fashion critic del New York Times: «La gente potrà guardare ancora con lo stesso guardo benigno le magliette nere paricollo?»

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