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Maurizio Nichetti, Ratataplan e il cinema tra realtà e follia, rieccolo: “Torno: sto preparando un nuovo film”

INTERVISTA A MAURIZIO NICHETTI – Un po’ Woody Allen, un po’ Charlie Chaplin, tra mimo e surreale, tra sarcasmo e candore, il regista di Ratataplan, unico del suo genere in Italia, tornerà al grande schermo l’anno prossimo – Mentre documentari e scuola di cinema restano l’altra faccia della sua passione. Con un punto chiave: sul set, come in azienda, le competenze devono intrecciarsi per poter dare il miglior prodotto

Maurizio Nichetti, Ratataplan e il cinema tra realtà e follia, rieccolo: “Torno: sto preparando un nuovo film”

Ci sono temi che restano eterni: in Ratataplan, il candidato per un posto di lavoro che viene scartato per la sua creatività, resta il simbolo di una certa visione del mondo. Eppure è datato 1979.

L’attore di un film che improvvisamente diventa cartoon, oppure l’ombra che vuole scappare dal corpo, o la ragazza di uno spot pubblicitario che si sposta all’interno nel film: sono idee che hanno fatto la storia di un certo tipo di cinema “out the box” italiano. Da allora Maurizio Nichetti ha fatto un’infinità di cose, ha un sacco di progetti e, come annuncia in questa intervista a FIRSTonline, si appresta a tornare sulla scena con un nuovo film. Sentiamolo.

Maurizio Nichetti, ci manca la follia dei suoi film, unici e anticipatori di trend. Non vuole tornare al grande schermo?

“Se me l’avesse chiesto anche solo un paio di anni fa, le avrei detto di no. Ora invece credo sia arrivato il momento. Ci sto lavorando. E penso di poter partire il prossimo anno”.

Ratataplan, Ladri di saponette, Volere Volare, Stefano quantestorie, Ho fatto splash, Domani si balla, Luna e l’altra sono alcuni dei film che hanno segnato la sua carriera, ma anche il suo pubblico: sono i film che rispecchiano la sua indole un po’ visionaria, aerea, assurda e sorprendente tanto amata dai suoi fan. Lei era il solo a fare quel genere di film in Italia, non è vero?

“Effettivamente c’ero solo io in Italia a fare quei film: qualche altro indizio c’era, ma poi si è perso. Io sono nato con la generazione di Nanni Moretti, che nei primissimi film aveva avuto spunti ironici e surreali, anche se molto radicato nel sociale e nella politica. Poi però si è specializzato come autore drammatico. C’è poi Carlo Verdone che è stato nel solco di Alberto Sordi, ma ha portato avanti la commedia all’italiana romanesca. Renzo Arbore ha fatto un film pazzo, “Il Papocchio”, figlio di quella certa follia presente anche in “Alto gradimento” e in “L’altra domenica” che ho fatto anch’io. Ma anche Arbore non può considerarsi un regista cinematografico. E poi c’è Roberto Benigni, anche lui con una sua dimensione surreale. Ma tutti hanno poi preso altre strade”.

Guardando oltre i confini italiani, ci sono registi che hanno fatto un cinema come il suo? Qualcuno la paragona a Woody Allen. Qualcuno a Charlie Chaplin…

“Nei primissimi film di Woody Allen in parte mi riconosco, direi i primi 6 o 7. Poi Allen è diventato uno sceneggiatore di plot drammatici, di psicologie molto articolate. Il riferimento a Chaplin è legato al fatto che anch’io ho utilizzato spesso il muto. Il mio è un genere di film di follia al quale era difficile che un produttore del mondo ufficiale del cinema potesse dare carta bianca. La gente preferiva le commedie o anche altri film. E infatti, a parte i primi due, poi ho prodotto io stesso i miei film. E’ la condanna di chi fa scelte eccentriche. Lo stesso ha fatto Jacques Tati in Francia: per essere fedele a un suo modo di fare cinema, finchè ha potuto, si è prodotto da sé i suoi film. Carriere eccentriche: l’industria cinematografica non poteva fare i soldi con i nostri film. Il privilegio di fare quello che vuoi lo paghi stando un po’ fuori dall’ufficialità della produzione, ma anche dal consesso in cui si riconosce”.

Poi il filone si è interrotto. Che cosa è successo? Si era chiusa un’epoca?

“Si, effettivamente, c’è stata una grande svolta nel nostro settore che mi ha fatto virare professionalmente. Quei miei film, così come certi miei spot pubblicitari, sono stati concepiti tra gli anni 80 e i 90. Erano caratterizzati, come dicevamo, per lo più dall’intreccio tra realtà e fantasia. Poi, tra la fine degli anni 90 e l’inizio del 2000, sono arrivati i primi “effetti speciali” che molto presto sono diventati prevalenti nei film: se avevi un buon digitale era relativamente semplice far “volare” i personaggi”.

È solo questo il motivo per cui ha smesso di produrre quel tipo di film?

“No. C’è anche un altro motivo: un’altra svolta epocale con tanto di data precisa, l’11 settembre 2001. Con i video che tutti abbiamo visto dell’attentato alle Torri Gemelle abbiamo capito che la realtà aveva superato persino la finzione dei film più catastrofici di Hollywood. Da quel giorno abbiamo iniziato a parlare di Talebani, Iraq, Iran. E’ così nata e cresciuta la curiosità per i problemi del mondo che sono fonte inesauribile di storie e personaggi molto interessanti: dall’inizio del 2000 mi sono spostato dalla fantasia alla realtà e ho iniziato a produrre cinema documentario. Da tre anni poi sono anche direttore artistico di Visioni dal Mondo, il Festival Internazionale del Documentario fondato da Francesco Bizzarri”.

A settembre ci sarà una nuova edizione del festival. Quale sarà il leit motiv di quest’anno?

“L’ottava edizione del Festival del Documentario (si terrà a Milano tra il 15 e il 18 settembre, ndr) avrà come sottotitolo “Più conoscenza, Più coscienza” e si intrecceranno testimonianze reali con storie di vita personali. Scienza, medicina, geopolitica, clima e conservazione ambientale sono temi di cui non si smetterebbe mai di parlare: per capire, per prevenire o anche semplicemente per avere meno paure, più coscienza della realtà, quella realtà che il cinema a volte riesce a rappresentarci in modo onesto. Un’immagine vale sempre più di tante parole”.

In questi anni ha continuato a coltivare un’altra sua passione: il cinema d’impresa e la pubblicità. Come è cambiato questo settore?

“Anche nel mondo della comunicazione d’impresa c’è stato un grosso cambiamento. Un tempo tutto era canalizzato solo nella tv. Ora invece il messaggio transita attraverso i molti social creando una frammentazione: per un singolo prodotto bisogna saper creare una storytelling trasversale che accompagni una persona attraverso diversi canali e con diversi linguaggi fino a portarlo nel sito dell’azienda, il quale a sua volta è fatto di immagini. L’immagine online è diventata assolutamente centrale in tutta la comunicazione”.

Maurizio Nichetti

Si ritiene che la pubblicità sia un anticipatore dello sviluppo economico. Secondo l’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, il mercato della pubblicità online a fine 2021 è cresciuto del 24% rispetto all’anno precedente. E anche per il 2022 è previsto un andamento positivo. Dalla sua prospettiva, vede segnali di una ripresa?

“Gli anni passati, con la chiusura per la pandemia, sono stati cruciali per determinare un cambiamento nella comunicazione impresa-cliente. Si è imparato ad utilizzare l’online e le tecnologie per allargare il bacino di utenza, sviluppando in 2-3 anni un processo che era già in atto, ma per crescere ci avrebbe messo 10 anni. Ora si è capito che con gli audiovisivi si può raggiungere chi vuoi, ovunque vuoi e con il messaggio che vuoi: sono loro ad essere indispensabili per la comunicazione d’impresa e non più l’audience come quando esisteva solo la tv. Per questo tipo di pubblicità c’è moltissima richiesta. E siccome è vero che la pubblicità è sempre stato un anticipatore di un trend dell’economia, c’è da ben sperare che effettivamente una ripresa economica ci possa essere”.

Ora lo insegna anche in una scuola: che cosa deve saper fare chi si occupa di pubblicità? Che cosa si studia nel suo corso?

“Dal 2014 sono direttore artistico della sede di Milano del Centro sperimentale di cinematografia, specializzata in pubblicità e comunicazione di impresa. Fin da subito la mia idea è stata di fondere competenze fino a quel momento rimaste rigidamente separate e anzi pensate come antagoniste tra loro: gli studenti invece devono saper maneggiare regia, sceneggiature e produzione in modo trasversale. Questo vale nel cinema come in un’azienda e in molti altri ambiti: dopo anni di specializzazione estrema, ora la contaminazione di esperienze diverse è la vera formula vincente. Tutti i grandi registi, soprattutto all’estero, sono stati anche produttori dei loro film.

In altre parole: un creativo deve saper fare preventivi e rispettare budget e tempi del cliente e al contrario un produttore deve saper leggere una sceneggiatura per poter fare una proposta concreta. Infatti ora parliamo di produttore creativo o regista produttore. Da questa scuola sono già usciti una settantina di giovani che possono fare i co-produttori o gli assistenti alla regia”.

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