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Marittimi, sui traghetti italiani solo lavoratori comunitari o no?

Entro l’11 giugno la Ue deve rispondere sull’idoneità delle modifiche al Registro Navale italiano che obbligano le navi traghetto a impiegare solo personale comunitario: l’intento è di difendere il lavoro italiano e comunitario ma c’è il rischio di favorire gli armatori iscritti a Registri navali stranieri che potrebbero assumere extracomunitari senza vincoli facendo saltare 2 mila posti di lavoro – Che farà la Lega?

Marittimi, sui traghetti italiani solo lavoratori comunitari o no?

Il nuovo Governo dovrà, tra le incombenze più urgenti e di grande rilievo, come disinnescare l’aumento automatico dell’IVA e la soluzione da trovare per l’ILVA di Taranto, affrontare anche una vicenda “minore” ma di un certo rilievo politico per le implicazioni che ne derivano. Si tratta del Dlgs 221 del 2016, che modifica alcune regole del Registro Navale italiano con lo scopo di difendere (ed estendere) l’occupazione di lavoratori italiani o comunque comunitari. Il provvedimento, firmato a suo tempo dal senatore PD Roberto Cociancich, imporrebbe l’obbligo di imbarcare personale solo comunitario alle navi traghetto iscritte nel Registro, che svolgono viaggi di cabotaggio, compresi quelli che seguono o precedano un viaggio internazionale, senza la possibilità di concordare deroghe con le organizzazioni sindacali. Il testo è stato inviato alla UE che dovrebbe rispondere entro l’11 giugno, termine al di là del quale il decreto potrebbe diventare operativo. Senonchè il Presidente di Confitarma Mario Mattioli e il segretario di Uiltrasporti Paolo Fantappiè, manifestano qualche dubbio sul’efficacia del provvedimento.

Anzi esprimono la preoccupazione che possa produrre risultati opposti a quelli desiderati perché sulla medesima tratta gli armatori iscritti a Registri stranieri non sarebbero vincolati ad assumere solo italiani (o comunitari) ma addirittura potrebbero avere solo extracomunitari. Col risultato di ridurre la competitività del naviglio italiano e col rischio di favorirne la fuga sotto altre bandiere e la perdita di posti di lavoro “italiani” che nel comparto interessato, il traffico di cabotaggio misto, sono circa circa 2000. Il presidente di Assoarmatori, l’associazione nata recentemente da una scissione di Confitarma, Stefano Messina sostiene invece che il Decreto in questione sia “utile per chiarire l’utilizzo dei marittimi sul cabotaggio nazionale”. Una cosa è certa, l’uscita dal nostro “Registro Internazionale” imporrebbe agli armatori italiani oneri e procedure faticose: questa sembra essere la carta su cui punta l’apparato burocratico del potente ma grigio Ministero delle infrastrutture, che spinge molti operatori del settore a rivendicare la ricostituzione del defunto Ministero della Marina Mercantile. 

Forse sarebbe opportuno che in una sede istituzionale, con il coinvolgimento delle parti sociali e prima di rendere operativo il decreto, si procedesse ad un esame approfondito di merito sugli aspetti sostanziali del provvedimento, sulla fondatezza o meno delle temute conseguenze negative e sulle possibili misure per evitarle. La questione assume un certo valore politico perché uno degli orizzonti strategici di qualunque prossimo Governo (a maggior ragione se anche la Lega di Matteo Salvini ne facesse parte) sarà tra gli altri anche quello di difendere il lavoro “italiano” compatibilmente con le regole dell’Unione Europea e del Diritto Internazionale. Ma è una materia molto delicata su cui deve essere bandita la demagogia e che richiede equilibrio e competenza. Il nostro paese ha spesso peccato di autolesionismo sulle politiche di sviluppo. Questo è un lusso che non possiamo più permetterci. 

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