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Le Regioni a Statuto Speciale sono un modello per l’autonomia differenziata? No, per l’Osservatorio Cpi: ecco perché

Il Ddl Calderoli sembra prendere come modello per l’autonomia differenziata le Regioni a Statuto Speciali, ma secondo l’Osservatorio dei Conti pubblici italiani (Cpi) potrebbe essere un grande errore

Le Regioni a Statuto Speciale sono un modello per l’autonomia differenziata? No, per l’Osservatorio Cpi: ecco perché

Valle d’Aosta/ Trentino-Alto Adige/Südtirol, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna sono le Regioni a Statuto Speciale introdotte nell’immediato dopoguerra. Ed è proprio al modello dello Statuto Speciale che sembra ispirarsi il disegno di legge sull’autonomia differenziata approvato dal consiglio dei ministri. L’Osservatorio per i Conti Pubblici Italiani guidato da Giampaolo Galli si pone una semplice domanda: “è una buona idea?” Secondo gli esperti del Cpi, la risposta è “No”, per due ordini di ragioni: “la grande complessità nella gestione dell’amministrazione pubblica sul territorio nazionale che ne risulterebbe e per il sistema di finanziamento ipotizzato per le funzioni devolute, basato su compartecipazioni ad aliquote predeterminate sui grandi tributi nazionali. Questo avvantaggerebbe le regioni con una dinamica delle basi imponibili più elevata a discapito della collettività nazionale, costringendo lo Stato a rincorrere con extra risorse gli squilibri che così si possono generare”, si legge nel report. 

Le caratteristiche dello Statuto Speciale

Le Regioni a Statuto Speciale possono essere considerate a loro modo una forma di autonomia differenziata secondo quanto previsto dall’articolo 116 della Costituzione. A differenza delle Regioni a statuto ordinario, le cui competenze sono uniformi sul tutto territorio nazionale, l’attribuzione di risorse e competenze a ciascuna RSS è governata dal proprio statuto, che ha valenza costituzionale, in una dialettica costante con lo Stato.

In particolare, ciascuno statuto contiene gli elenchi delle materie su cui le singole “Regioni speciali” e Province autonome possono esercitare potestà legislativa e amministrativa e specifica anche le materie per cui l’ente locale ha potestà legislativa esclusiva e quelle per cui la potestà è solo integrativa. Nel primo caso, per esempio sull’organizzazione degli enti locali e sull’amministrazione del territorio, le Regioni e le Province autonome possono legiferare in autonomia, nel secondo (un esempio può essere l’istruzione) invece possono solo adattare e/o integrare le leggi statali per renderle più aderenti alle necessità e alle caratteristiche del territorio. 

“È tuttavia necessario distinguere con cura tra le materie che lo statuto attribuisce alle competenze legislative delle varie RSS e quello che queste effettivamente fanno, cioè le funzioni autonome che nelle varie materie sono state poi effettivamente attivate”, sottolinea l’osservatorio Cpi, secondo cui gli statuti possono essere considerati come l’insieme di tutte le materie per cui alla RSS è riconosciuto un certo grado di autonomia, ma tale processo diventa effettivo se e quando le RSS emanano delle leggi, d’intesa con lo Stato centrale, per attivare una o più funzioni rientranti nelle materie statutarie. A parità di autonomia formale garantita dallo statuto, la realtà può dunque essere molto diversa.

Come si finanziano e come spendono le Regioni a Statuto Speciale 

La caratteristica principale del sistema di finanziamento delle Regioni a Statuto Speciale è quella di essere basato su compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riscosso o maturato sui loro territori. Queste Regioni, infatti, trattengono parte del gettito dei principali tributi nazionali incassato sui propri territori. Ogni territorio a Statuto Speciale ha una compartecipazione differente: si va dal 100% della Valle d’Aosta, al 90% del Trentino-Alto Adige ad aliquote via via inferiori e a loro volta differenziate per le altre. 

La diversa attribuzione “riflette l’originaria allocazione delle competenze immaginata per le diverse RSS e la situazione delle loro economie al tempo della stipula dei loro statuti”,spiegano gli esperti. Il fatto che negli anni la situazione economica di queste regioni si sia cambiata spiega anche la diversa attivazione delle funzioni. Per esempio, il Pil pro-capite del Trentino-Alto Adige, sostanzialmente in linea con quello nazionale nel 1951, è diventato nel 2018 del 44% superiore; viceversa, per la Sicilia il Pil pro-capite regionale era il 58% di quello nazionale nel 1951 ed è rimasto tale nel 2018. “Poiché i gettiti tributari seguono sostanzialmente il Pil, l’abbondanza di risorse garantita dalle compartecipazioni ha consentito alla Provincia Autonoma di Trento di assorbire sempre più competenze statali, mentre la bassa crescita della Sicilia l’ha costretta a rimanere fortemente dipendente dallo Stato, rinunciando ad attivare molte delle competenze previste dal suo statuto”.

In questo contesto, bisogna aggiungere che a partire dal 2012, anche le Regioni a Statuto Speciale sono tenute a rispettare i patti di stabilità interna e a contribuire agli obiettivi di finanza pubblica e di riduzione del debito. 

Passando dai finanziamenti alla spesa, l’Osservatorio Cpi utilizza come base la banca dati dei Conti Pubblici Territoriali. Numeri alla mano, ad eccezione del Lazio, la spesa complessiva media di tutte le amministrazioni pubbliche in termini pro-capite nelle Regioni a Statuto Ordinario ammonta a 14.400 euro. Simile la Spesa pro-capite di Sicilia e Sardegna, mentre per le due Regioni a Statuto Speciale del nord e le due Province autonome si sale invece attorno ai 18.000 euro pro-capite. Perché? “L’impressione generale è che nel passaggio di una funzione dallo Stato alle ricche RSS del nord, queste abbiano approfittato delle loro abbondanti risorse per offrire maggiori servizi ai propri cittadini, spendendo di più per le funzioni delegate di quanto faccia lo Stato centrale per gli stessi servizi nei territori delle RSO”, si legge nel report.

Lo Statuto Speciale è un modello per l’autonomia differenziata?

Secondo l’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani sarebbe meglio cercare di non utilizzare il modello dello Statuto Speciale per la “nuova” autonomia differenziata. Per due motivi: Il primo è “per la grande complessità che la presenza di cinque Regioni a statuto speciale, ciascuna caratterizzata da un set di funzioni e risorse diverso, ha comportato per la gestione dell’amministrazione pubblica sul territorio di queste regioni”.  “Il meccanismo attuale, con lo Stato che prima attribuisce generose compartecipazioni alle RSS e poi gliele toglie in parte per finalità di solidarietà nazionale, per quanto comprensibile alla luce della rigidità degli statuti, appare quantomeno singolare”, aggiungono gli esperti.

Il rischio è dunque che, nel prossimo futuro, l’attuazione del ddl Calderoli trasformi tutte le Regioni a Statuto Ordinario in Regioni a Statuto Speciale, ciascuna delle quali con funzioni e risorse differenziate, dando vita a un caos nazionale che potrebbe rendere difficile la vita a imprese e cittadini che saranno chiamati a confrontarsi con 21 legislazioni regionali differenti sulle stesse funzioni.

La seconda ragione riguarda il sistema di finanziamento. Nelle RSS sono state prima stabilite delle quote di compartecipazioni ai tributi erariali e poi a seconda di come le risorse derivanti da queste quote si sono evolute si è deciso, attraverso una contrattazione con lo Stato, quali funzioni queste risorse dovevano coprire. Così, nelle RSS dove la dinamica delle basi imponibili è stata particolarmente vivace, le RSS hanno assunto via via nuove competenze, mentre nelle altre è intervenuto lo Stato nazionale per garantire comunque le risorse necessarie per finanziare i servizi.

“I nostri conti – si legge nel report – suggeriscono che sia almeno probabile che le risorse lasciate a questi territori tramite le compartecipazioni siano state complessivamente maggiori di quanto sarebbe stato necessario per finanziare i servizi devoluti. E se questa “generosità” è sostenibile per il bilancio pubblico finché si parla di realtà assai piccole, è difficile che lo sia se lo stesso processo riguardasse le grandi Regioni del nord del paese, dove si concentra una gran parte della base imponibile dei tributi nazionali”. A preoccupare gli è esperti è dunque il fatto che il ddl Calderoli “sembri prefigurare un processo di finanziamento per le funzioni devolute alle regioni del tutto analogo a quello descritto sopra per le RSS…Ma così non può evidentemente funzionare: è un chiaro win-win per le regioni, ma rischia di essere un lose-lose per lo Stato e la restante collettività nazionale, costretti a rincorrere con extra risorse gli squilibri che così si possono generare. Non ci sembra un modello sostenibile”, concludono.

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