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La Fiat e le riforme mancate: quello che insegna la sfida Marchionne-Marcegaglia

Lo scontro con Confindustria dimostra quanto sia difficile fare le riforme in Italia – Roma (Censis): “Il Paese appare immobile: siamo nei guai, ma non sappiamo come uscirne ” – Anche la casa torinese ha fatto i suoi errori, soprattutto di comunicazione: “E’ un’azienda apolide, che tende a recidere i legami con la politica ma anche con il tessuto sociale”

La Fiat e le riforme mancate: quello che insegna la sfida Marchionne-Marcegaglia

La Fiat è ancora un’azienda italiana oppure è una multinazionale senza un Paese di riferimento per cui si muove secondo le proprie convenienze industriali senza voler rispettare le regole del suo Paese di riferimento? E’ questo il senso vero della uscita dell’azienda dalla Confindustria che inoltre rischia di indebolire i soggetti intermedi indispensabili per salvaguardare quella coesione sociale da tutti invocata in un momento di grave crisi come l’attuale?

Queste sono le due domande fondamentali a cui i commentatori dei principali giornali e molti politici di tutte le tendenze hanno tentato di dare una risposta dopo la decisione di Marchionne di staccarsi da Confindustria. Per il Corriere della Sera, indebolire la rappresentanza delle imprese in un momento come questo è un grave errore, mentre per la Repubblica questa decisione sta a dimostrare che la Fiat è sempre più intenzionata a lasciare l’Italia.

I problemi posti dalla decisione della Fiat sono tanti ed intrecciati tra loro. Per evitare di fare solo polemiche, bisogna dire che appare illogico continuare a pensare che Fiat vuole andare via dall’Italia quando annuncia due importanti investimenti a Mirafiori e a Pratola Serra dopo quelli di Pomigliano e Grugliasco. E poi è soprattutto contraddittorio pensare che uno che vuole andare via dall’Italia si sia impegnato in una difficile battaglia per aggiornare le relazioni industriali e soprattutto per offrire una alternativa al declino dell’industria e dell’intero paese. Una alternativa che passa per lo scambio tra maggiore competitività e più sicurezza del posto di lavoro e, in prospettiva, più elevati salari.

La verità è che tutta questa vicenda Fiat mette in evidenza quanto sia difficile fare le riforme in Italia: a parole tutte le invocano ma poi quando si tratta di modificare qualche cosa delle vecchie abitudini tutti insorgono ed invitano ad occuparsi per prima cosa del proprio vicino. “Il Paese appare immobile – dice il direttore generale del Censis Giuseppe Roma – e si ha la sensazione che per il momento nessuno abbia individuato il bandolo della matassa. Siamo nei guai, ma non sappiamo come uscirne. Forse non c’è nemmeno l’esatta percezione delle difficoltà che dobbiamo affrontare. L’impressione è che ancora si possa tirare avanti. Ma per quanto tempo?”

Quando qualcuno prova a cambiare le cose, viene invitato dagli amici alla prudenza, ed attaccato pesantemente dai nemici in nome della salguardia della situazione attuale ritenuta comunque migliore di quella nuova che si vorrebbe costruire. Infatti la frase che più spesso pronuncia la Camusso è: “Questi padroni vogliono tornare all’800”. 

“Certo però – dice Giuseppe Roma – anche la Fiat qualche errore di comunicazione l’ha fatto e lo fa. L’impressione infatti è che ci si trovi di fronte ad una azienda apolide, che tende a recidere ogni legame non solo con la politica, ma anche con il tessuto sociale di questo Paese. Se si decide di uscire da Confindustria, allora si dovrebbe potenziare la propria presenza diretta sul territorio e con le varie articolazioni della società civile, proprio per tenere aperti canali di spiegazione e di dialogo in assenza dei quali l’azienda rischia davvero di essere percepita da tutti, non solo dagli storici oppositori, come un corpo estraneo, un oggetto misterioso e spesso fastidioso. E questo è l’opposto del campione nazionale che mette la bandiera italiana sulla 500 e sulle tute dei propri operai”.    

Poi c’è la questione di cosa è e cosa sarà la Confindustria dopo lo strappo della Fiat. I giornali di destra gioiscono perchè pensano che Marchionne abbia voluto prendere le distanze dai più recenti atteggiamenti della Marcegaglia che mostra una forte insofferenza verso l’inazione del Governo Berlusconi. Niente di più lontano dal pensiero di Marchionne che casomai accusa la Confindustria di eccessivo tatticismo, di essere come il Governo, sempre pronta a fare un passo indietro pur di non perdere il consenso della Cgil o di qualche altro gruppo di pressione.

“Le rappresentanze- dice il direttore del Censis – sono un pò tutte in crisi. La Confindustria è una macchina molto grande e burocratica che rischia di perdere mordente sul piano della politica generale, e capacità di aggregazione sul territorio per l’impossibilità di rispondere alle nuove esigenze delle imprese che non si accontentano più dei tradizionali servizi, ma hanno esigenze nuove di sviluppo dei propri affari. Bisognerà forse pensare a una nuova riforma ma non so se questa si potrà fare con la presenza ormai preponderante delle imprese pubbliche che sono destinate a contare sempre di più e che, peraltro, sono sempre di più legate alla politica.”

Il cuore del problema è quello delle riforme. Farle significa cambiare profondamente comportamenti di tanti gruppi sociali e soprattutto delle centinaia di migliaia di persone che vivono intorno alla politica. Chi potrà mai farlo? Marchionne, nel suo piccolo, prova a muovere qualche passo. La Confindustria saprà riconquistare quel ruolo di agente dell’innovazione che forse in altre circostanze aveva ricoperto con maggiore coerenza?

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