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La Cina di Franco Fortini: 1973 un nuovo viaggio

La Cina di Franco Fortini: 1973 un nuovo viaggio

Resoconto del viaggio in Cina pubblicato su Quaderni Piacentini

Quasi in contemporanea ad Antonioni (che girò nel 1972 lo sfortunato documentario Cheng Kuo, Cina), un altro brillante, sofisticato e indipendente intellettuale italiano fuori dal coro delle varie orchestre ideologiche del tempo visitava La Cina· Era la seconda volta che vi tornava e lasciò un ampio resoconto pubblicato su “Quaderni Piacentini”. Ecco la Cina vista da Franco Fortini. Nonostante la distanza tra Fortini e Antonioni, la Cina di questi due grandi intellettuali italiani, che hanno mantenuto una libertà di pensiero assoluta, è molto simile. Forse Fortini ira le conclusioni politiche che Antonioni non poté o non volle tirare.

Nel settembre-ottobre 1955 la prima delegazione culturale italiana, presieduta da Piero Calamandrei ed organizzata dal Centro Studi Ferruccio Parri, visitò la Cina in un viaggio “esplorativo” nella nuova Repubblica Popolare Cinese. Ne facevano parte eminenti figure della cultura italiana come Franco Fortini, Franco Antonicelli, Carlo Bernari, Norberto Bobbio, Ernesto Treccani, Antonello Trombadori, Carlo Cassola, Cesare Musatti. Dal 4 novembre 2017 al 21 gennaio 2018 Siena ha ospitato una mostra dal titolo “Je Voudrais Savoir” che mostra anche gli scatti di Fortini e dei suoi compagni di viaggio durante la visita in Cina del 1955. Fortini con la moglie Ruth Leiser tornò in Cina nel 1973

Ancora in Cina

1. Del mio secondo viaggio in Cina non ho finora scritto perché non volevo contribuire a una polemica che giudico sbagliata. «Cina, Cina — tu non sei più vicina — se non ci sei più tu — ritorna il buon Gesù», ho visto scritto su un muro di Firenze. Mi pare detto perfettamente, il dilemma cretino. Cina come alternativa ad una tradizione derisa; ma, in realtà, con identica funzione mitica. No, in questi termini — mi dicevo — non e’è decenza a rispondere, a intervenire.

Mi si dice che la questione è politica. Che non ci si può esimere dal prendere posizione di fronte a fatti che, per quanto si può intendere, significano, con la chiusura della Rivoluzione Culturale, una svolta nella politica interna ed esterna della Repubblica Popolare Cinese. Mi si dice che, per essere stato uno di quelli che, prima d’altri o più energicamente di altri, hanno sostenuto, negli anni Sessanta, il primato rivoluzionario della Cina… Ora a me pare che una opinione politica sul presente cinese possa essere di due sorta, fondata su due specie diverse di fonti e di intenti.

La prima è di chi considera, in fin dei conti, secondaria la verità concreta, la realtà, della Cina come continente, popolo, paese socialista e anche come stato, governo, sistema di difesa e di produzione; e primario invece il senso ideologico, l’insegnamento teorico che dalla Cina ci viene. Il giudizio politico, per costoro, deve essere pronunciato a partire da quel che si sa, non aspettare di sapere quel che non si sa ancora. E le fonti saranno allora, quasi indifferentemente, quelle della stampa nemica alla Cina, quelle della stampa favorevole e quelle delle agenzie di informazione e delle pubblicazioni cinesi (ufficiali o ufficiose) accessibili in Occidente. Non interesserà troppo la qualità o la fondatezza di quelle fonti perché quel che importa non è invero quel che la Cina è ma quel che la Cina sembra. Quel che ci viene chiesto di giudicare è l’immagine della Cina 1968 o 1969 a confronto della immagine della Cina 1972. Questa prima categoria comprende il 99% dei nostri amici e avversari.

La seconda è di chi cerca di fondarsi sulla conoscenza più ampia e fondata possibile del passato cinese e sulle fonti originali: si tratta evidentemente, della opinione degli specialisti. Pochi, per definizione, né necessariamente abilitati ad una valutazione politica. Sono costoro, in questo momento, a rifiutarsi alle pronuncie che vengono insistentemente richieste. In quella categoria prendono posto anche gli interpreti più seri e non pateticamente «di sinistra». Essi si fondano soprattutto sugli elaborati degli specialisti di quei paesi e di quelle culture che hanno forze sufficienti per una informazione autonoma (intendo soprattutto quelle anglosassoni).

È chiaro che solo la prima può esprimere il tipo di risposte politiche richiesto dalle posizioni politiche di «sinistra». Quando si sia accettata o subita la creazione ideologica dell’ente «Cina» e a quell’ente si fanno corrispondere date reazioni e tutta una serie di sentimenti, di razionalizzazioni e di cristallizzazioni ideologiche, diventa inevitabile “rispondere”, ‘’rispondere” sempre e quale che sia la natura o la qualità delle informazioni.

Quelli che, per situazione intellettuale e per posizione politica, dovrebbero lottare contro le mitologie, ne sono spesso le prime vittime. Ne viene l’intenzionale o l’inconscio sforzo di utilizzare le reazioni patetiche al mito, mantenendo a quest’ultimo, in positivo o in negativo, una posizione di privilegio. Quando si ironizza sul bisogno di protezione implicito nella creazione dello “stato guida” o di un suo equivalente si dimentica che il fantasma, sostitutivo di una realtà che di fatto si vuole sfuggire, tende a scatenare reazioni polari. «La Cina è vicina» equivale al «Ha da veni Baffone» dei tardi Anni Quaranta. L’accettazione del mito determina una serie molto ampia di reazioni, che vanno dal giustificazionismo a oltranza alla sofferenza dell’amante tradito per arrivare fino al gusto di trionfare al grido di «l’avevo sempre detto, io!» anche quando non si era detto nulla.

2. Non solo la Cina non è “inconoscibile” ma, in un senso non superficiale, mi pare abbiano ragione gli inglesi che, tradizionalmente, hanno con la Cina un rapporto non diverso da quello che avrebbero con una nazione europea, ossia un rapporto “razionale”, e, con tutti i rischi, immediato. Però questo implica un grado di conoscenza della realtà socioeconomica e dei fondamenti culturali del paese che si visita, se non si vuol cadere in errori e in giudizi semplicistici. Ora, la preparazione media del viaggiatore di “sinistra” che va in Cina è fatta o sui testi ufficiali cinesi (e fra questi, gli scritti di Mao; che sono stati purtroppo presentati per anni dai cinesi, e ricevuti da noi, come corpi dottrinari e fonti di saggezza più che messaggi etico-politici volti a fini e tempi determinati) o su relazioni di viaggiatori e studiosi occidentali nei quali è prevalente l’interesse politico. La conoscenza storica della Cina (e dico anche solo la storia del nostro secolo) è in genere molto scarsa; anche, e più, quella geografica. In breve, si viene in Cina esattamente come negli anni cinquanta si andava in Russia: per “vedere il socialismo”. Ma il socialismo non si vede. Si vedono centrali elettriche e contadini al lavoro, realizzazioni scolastiche e balletti folkloristici, esposizioni industriali e sfilate, non i rapporti tra gli uomini. Questi ultimi li puoi intuire; ma la visita, turistica o politica che sia, non ti permette di comprendere i rapporti familiari, quelli all’interno di una scuola, di una fabbrica, di una organizzazione di partito. Quale è il tipo di autorità che il Partito esercita su i suoi membri e sugli altri? Che cosa significa, in concreto, essere considerato seguace di una linea politica condannata? Come si manifesta il controllo sociale? A queste domande è difficile, sappiamo, rispondere anche per la nostra realtà immediata italiana.

3. Qualche momento.
L’aereoporto di Shanghai, all’arrivo. L’enorme spazio vuoto della sala dove siamo accolti. Il senso di nitido, di probo e discreto; di rispettoso di sé e di altrui.

E allo sguardo incredulo, dopo la campagna meticolosa e lavorata a giardino, i milioni verso il lavoro colmare le vie, i negozi, i palazzi, i sotto passaggi, le ferrovie, i docks.

Il compagno W. parla ininterrottamente e traduce da nove ore. È sfinito. Soffre alla gola, ha il viso lustro di sudore, la voce rauca nel piccolo microfono. Potrebbe chiedere di essere sostituito dalla compagna K., che è presente. Ma, per qualche motivo di gerarchia e di controllo, che ci sfugge.

W. non può né probabilmente deve farlo ora. C’è in questa sua dedizione una serietà, una tensione che ha rinunciato a dissimulare. È il solo che riesca a trasmettere il senso tragico degli anni che ha alle spalle. Senza minimamente esprimerlo (non se lo perdonerebbe mai) egli è il punto di contatto, la connessione. Ci si illude che, fosse possibile parlargli nelle lunghe pause del viaggio in treno… Ancora e sempre, l’illusione di una verità di secondo grado.

Qui vorrei domandare scusa a W. di averlo più di una volta messo in imbarazzo su questo o quel punto che si voleva o celare o camuffare al visitatore.

Aereoporto di Wuhan. Disfatti dal clima bestiale, caliamo giù dalla cabina del piccolo Iliuscin che poco fa ha forato le nuvole lorde del monsone lasciando intravvedere quartieri sterminati di fabbriche e ciminiere delle tre città, congiunte e diverse sulle rive di uno o due o cinque fiumi o laghi, correnti del colore della terra e dell’aria e nebbia calda, e specchi d’acqua e vapori. Nel passaggio da una all’altra sala dell’aeroporto e’è come un patio d’erba verde con qualche alberello. Quattro ragazze cinesi, piegate sui talloni, scherzano con un bambino biondo, figlio di un’europea che da due o tre giorni sembra seguire il nostro itinerario, accompagnata da una anziana cinese. Si vede che sono riuscite a comunicargli qualcosa, perché il ragazzino — avrà forse sei o sette anni — si prova a cantare una cantilena in lingua romanza. A dieci passi di distanza, appoggiata ad una parete, una vecchia cinese guarda la scena.

È una piccola donna, vestita di nero o blu scuro, con i pantaloni stretti, all’uso antico, intorno alle caviglie. I capelli sono quasi tutti bianchissimi, le bande almeno che non nasconde una pezzuola annodata dietro la nuca. Intorno al collo, dove finisce la giubba, porta, appena visibile, un fisciù; se ne vedono di eguali già nelle figure delle dinastie antecedenti quelle degli Han. Non posso dire l’espressione degli occhi, che fissavano il bambino tra le quattro ragazze, o la bellezza abbagliante del viso calmo, dove la vecchiaia era come l’avvizzire di un frutto che non altera le proporzioni ma si ritrae in sé a guardia del proprio sapore ed essenza. La vecchia teneva le mani dietro la schiena, l’un ginocchio piegato, appoggiando a terra la punta della pantofola nera. Lo sguardo era pensieroso. Le ragazze ora sedute in cerchio sul prato e tra gli alberelli ridendo educavano il bambino.

Sui marciapiedi di Pechino le giovani coppie dall’aria di studiosi o docenti, aguzze e attentissime le pupille dietro le lenti, che incontrano il tuo sguardo e questo solo ti comunicano passando: che potrebbero comunicare e che la mia età, il mio sguardo sono un segno di comprensione e ricerca e che la città intorno, il «centro» del «centro», è garanzia che non sarebbe impossibile intendersi. E pochi minuti dopo, in un pullman di giovani americani, basta ti dicano un nome («sì, studiamo con Sweezy») e tutto è detto. Internazionale degli intellettuali, sempre risorgente e sempre risommersa?

4. La Masi mi parlava di questa incredibile elasticità degli intellettuali cinesi, di questa necessità che una parte del corpo intellettuale cinese si armi periodicamente contro un’altra parte, ossia contro se stesso. Dicono che nelle librerie compaiono sempre più libri, vecchie edizioni occultate durante la Rivoluzione Culturale. Questa faccenda dei libri è assai strana. Primo, non vedi leggere nessuno. Non voglio generalizzare ma avrò visto sì o no due persone leggere un libro e tre o quattro il giornale. (Gli interpreti e i funzionari dicevano di non aver avuto il tempo di leggere il giornale, quando si chiedevano loro notizie del Vietnam; ma, in genere, del Vietnam si taceva). Secondo, siccome nelle librerie sembrano esserci poco più che testi canonici, vien da supporre che i libri (scolastici soprattutto o scientifici) debbano avere un loro circuito relativamente invisibile al visitatore.

Detto in breve: quel poco che ho potuto intendere, della interpretazione che la Cina dà di se stessa nelle forme della comunicazione visiva e auditiva, mi è parso quasi sempre o mediocre o incomprensibile. I manifesti di propaganda si conoscono: sono insopportabili, sovietici nel peggior senso della parola, privi di spirito e di inventiva, ripetitivi. Si salvano solo rari esempi di combinazione di tecniche tradizionali e di temi di attualità.

Non è difficile intendere che — e non da oggi — la ricerca di una via cinese alla forma (cinese, ossia diversa da quella seguita, ad esempio, dal Giappone o dall’India) ponga problemi tali che, ove l’autenticità artistica e poetica si manifestasse e anche non ci fossero e si attenuassero le forze di coazione ideologica e amministrativa, sarebbe praticamente impossibile ad uno spettatore o lettore occidentale apprezzarla e confrontarla. Si ha l’impressione che i modi in conflitto (nel teatro, nelle arti visive, probabilmente nella espressione letteraria) differiscano per gradi impercettibili; e basta visitare un buon negozio di antiquariato per verificare che nella Cina dell’oggi come in quella di ieri e’è spazio per l’ottimo e il pessimo, l’autentico e il falso, e che è impossibile comprendere quale luogo reale occupi l’universo delle forme nella esistenza delle popolazioni cinesi.

C’è però un settore nel quale qualche confronto è possibile. Quasi tutte le notti ho ascoltato a lungo le trasmissioni radiofoniche, opere, concerti, musica insomma. La contaminazione fra strumenti o modi tradizionali e quelli “occidentali” e moderni non ha limiti. Si ha l’impressione che mutino solo le proporzioni tra i diversi clementi. Ci sono opere la cui parte vocale somiglia grandemente a quella delle nostre opere ottocentesche (e gli esecutori, m’è parso, reggono benissimo il confronto con i migliori europei). L’orchestrazione si giova di tutto, da Mozart a Puccini incluso; ad esempio, quando si allude al Partito, come se si parlasse di Wotan un curioso wagnerismo fa echeggiare, per tromba solista, le prime misure dell’Internazionale; e gran spreco di Internazionale si fa anche nei finaloni temporaleschi.

Ma non è questo il guaio; il guaio è la presenza massiccia e il consumo diffuso ovunque, dai cortili del Palazzo Imperiale alle vetture ferroviarie[1], di pessime poltiglie musicali, quasi sempre cori, sovietici e militareschi, identici, salve le cadenze nazionali, a quelle che ho sentito nei parchi di cultura intronare i moscoviti e leningradesi. Avere accettato così la degradazione e la manipolazione della musica, questo lo perdono male: perché essa presuppone resistenza di tecnici, ossia di una scelta politica, quella di produrre e diffondere quella roba, in quantità enorme; e quella roba corrompe, come sappiamo, non tanto per la qualità mediocre o pessima (in tutto identica a quella degli equivalenti occidentali) ma per il tipo di canale adottato (l’altoparlante, il transistor) e per la funzione metaforica e simbolica di quel mezzo di trasmissione.

Nella visita che abbiamo compiuto ad un doposcuola di Shanghai era tutt’altro che comune (e pressoché sconosciuta alle nostre scuole) la qualità dell’insegnamento musicale (strumenti e cori) impartito a ragazzi e ragazze fra gli otto e i quattordici anni; ed accettabile il metodo con il quale una classe di bambini, ognuno con i suoi pennelli, le tempere e il cavalletto, copiava e interpretava un modello. Il guaio stava, appunto, nei modelli; là, nelle canzoni strumentate o cantate, che erano quelle medesime della radio, ossia prodotti di mediocrissima serie in tutto simili ai paesaggi cinesi riprodotti sul metallo delle scatole di tè, non canzoni e musiche della tradizione popolare (per quanto m’era dato discernere) oppure autentiche nuove creazioni; e qua, nell’oggetto che i ragazzi copiavano ossia nella effigie di una testa femminile, eseguita dall’insegnante su di un cartone e in tutto identica alle figure dei cartelloni di propaganda che si vedono per le piazze.

Il dilemma, d’altronde, si ripropone ad ogni passo: i compagni che avevano visitato Pechino un mese prima di noi erano stati accompagnati al Palazzo dell’Assemblea Nazionale, l’enorme e brutto edificio che è sulla sinistra di chi guarda il Jen An Men; e avevano pronunciata chiaramente la loro disapprovazione per la pompa e l’inutile spreco di quell’edificio, tutto eredo-staliniano e nazionalpopolare. E bisogna aggiungere che i cinesi sanno benissimo, quando vogliono, lavorare molto diversamente, come dimostrano tanti quartieri d’abitazione o gli aereoporti di Shanghai e di Pechino… Inutile negarlo, in queste materie come in ogni altra, il conflitto è politico: uno vorrebbe sapere a quale “linea” ha corrisposto la decisione (che all’occhio dell’occidentale sembra demente) di abbattere le mura di Pechino (immaginiamo — ma in verità è più grave — di voler abbattere l’intera cerchia aureliana a Roma), a quale la intensa pubblicità fatta alla mirabile esposizione dei tesori archeologici scoperti — così si sottolinea — negli anni della Rivoluzione Culturale e che è visitata quotidianamente, oltre che dalle delegazioni straniere, da circa ventimila cittadini cinesi[2].

Un conflitto politico che porta ad una serie di decisioni apparentemente contraddittorie, forse casuali. Un gioco di spinte e controspinte di cui lo spettatore occidentale può dire appena che, fino a questo momento, non gli è accessibile alcuna forma (letteraria, figurativa o musicale) capace di interpretare o esprimere metaforicamente l’odierna esistenza cinese; in questo senso nessun paese sembra aver realizzato con maggior coerenza la condizione della «morte dell’arte». Si tratta, è chiaro, di una morte apparente e della quale in verità non e’è tanto da dolersi o stupirsi quanto da interrogarsi per quel tanto di arduo che contiene; perché, voglio dire, è ridicolo interpretarla come l’esito di decreti di partito. Tanto è vero che i cinesi non comprenderebbero queste mie affermazioni e le vorrebbero smentire con i loro spettacoli, le mostre di pittura, le raccolte di poesie e di racconti dovute ad operai e contadini, eccetera.

Eppure il visitatore continua ad aver l’impressione di un interdetto disposto su tutta una parte del modo di essere, di vivere, degli uomini; e si domanda se per caso o, meglio, per uno di quegli ammonitori e grandiosi quaresimali che la storia non ignora, quella parte del modo di essere e di vivere degli uomini cui quattro secoli di civiltà borghese hanno dato il nome di arte e poesia non esista e non si manifesti invece ma in modo ed in forme diverse. Voglio dire, non in quelle forme che tradizionalmente chiamiamo artistiche o letterarie. D’altronde, anche nella remota Cina storica la cultura sapienziaria aveva conosciute queste radicali metonimie, ove una parte dell’uomo sta per un’altra. Tengo appesa alla parete della mia stanza, dono di un contadino cinese, una piccola tazza emisferica, fatta con la scorza di un frutto e che un pezzetto di spago legava alla cintola. È coppa di elemosina, probabilmente. Il dono ha un senso simbolico, probabilmente. Un intellettuale californiano lo intenderebbe meglio di me.

Altro discorso, ma forse non troppo diverso, per la (almeno apparente) assenza di valutabili contributi nel campo della riflessione filosofica, economica, storica. Quando si legge una pagina di Mao — penso alla lettera del 1966 edita recentemente — è impossibile non avvertire una straordinaria pienezza e circolarità di discorso, una sorta di agio intellettuale e morale supremo; però non si vive di solo Mao e i cinesi sono i primi a saperlo, anzi il primo a saperlo è il vecchio presidente, e a volerlo. Va detto che. probabilmente, forme e modi di teorizzazione ed elaborazione della esperienza o prendono la forma dei documenti ufficiali (interni o esterni al partito) o rimangono in forma orale. Di qui la impressionante giustapposizione — su cui la Masi ha richiamato la mia attenzione — di un aspetto superficiale, persino risibile, che hanno certi documenti cinesi, certe loro discussioni, e di un aspetto invece assolutamente “serio”, capitale, decisivo. Abbiamo dimenticato che quel che si innalza sarà abbassato e quel che si abbassa sarà innalzato… Essi continuano a porgerci una risposta cifrata e noi invece continuiamo a chiedere la cifra, dimentichi che «la porta è aperta per noi». Vogliamo sapere la «verità» sulla Rivoluzione Culturale (che cosa risponderemmo — mi diceva un conoscente — se i cinesi ci chiedessero la «verità» sulla Rivoluzione francese?) senza spendere, senza spenderci…

5. È una strada famosa, sull’asse nord-sud della città, che per essere stata nei secoli quella di ingresso dalla più gran parte della nazione è rimasta via di commerci e di folla, di baraonda, piccoli teatri, traffici. L’autobus si arresta in un punto qualunque, tra la gente, e la gente si ferma, come al solito, a guardarci. Ci fanno cenno di entrare in un negozio. Di stoffe, mi pare; o di abiti per bambini, ci dicono. C’è molta gente. Tutti osservano o comprano. Nel locale e’è una scaletta di legno che sembra portare al magazzino o alle cantine. Scendiamo e qualche metro sottoterra comincia un lunghissimo corridoio illuminato. Camminiamo svelti sul fondo di terra battuta, sotto le volte di cemento, tra le voci di piccoli altoparlanti. Le pareti intonacate alla meglio colano, in qualche punto, umidità. Il corridoio sarà largo forse tre metri e alto altrettanto. Nella costruzione vedo impiegati i semicerchi di cemento che si ammucchiano in quasi tutte le strade e le piazze di Pechino e Shanghai, in una quantità grandissima. A intervalli si aprono ad angolo retto corridoi laterali, a perdita d’occhio. Alcuni sono incompiuti, visibile il fronte d’attacco nella terra gialla friabile; altri chiusi da assiti di legno.

Camminiamo da dieci minuti almeno, ogni tanto ci viene detto di accelerare il passo. Si scorgono dei vani con i cessi, porte col segno della Croce Rossa, tubature, prese d’acqua. Sul capo, il parlottio o le fanfare degli alto parlanti. Chi ci guida ci dice, di tanto in tanto, di mutare direzione, ad angolo retto, a destra o a sinistra. Si riesce in una sala abbastanza ampia, ben illuminata, con i tavoli a ferro di cavallo e le tazze del tè. Da una scala che porta al livello stradale vengono voci. Ci parla un militare, poi una ragazza scosta una tendina e mostra una planimetria del quartiere. Il militare dev’essere un ufficiale di grado medio o elevato; l’ho rivisto qualche giorno dopo all’aereoporto di Pechino insieme ad anziani ufficiali in attesa di partire per una riunione a Changsha.

La ragazza espone con precisione, indicando sulla planimetria il percorso delle gallerie principali e di quelle secondarie. Hanno uno sviluppo di diversi chilometri, in uno spazio abbastanza ristretto, perché sono come un sistema di affluenti. Quasi ogni cortile ha un ingresso, altri ingressi sono, come quello che abbiamo veduto, dai negozi; si tratta di accogliere, ci viene detto, una zona molto popolata, non solo dagli abitanti delle case ma da chi viene e va per acquisti o piacere, cinquanta, ottantamila persone. Insomma, queste gallerie non sono rifugi. Lo possono essere ma non è quello il loro scopo principale. Sono dei passaggi, dei canali di sfollamento. La gente deve disperdersi nella campagna, in caso di bisogno. In città, dicono, dovrà restare chi può continuare la lotta.

In una decina di minuti quaranta o cinquantamila persone di questo quartiere possono scomparire quattro o sei metri sotto il livello del suolo. «Le gallerie a soli quattro metri», dicono, «sono vulnerabili». In caso di attacco atomico, come si provvederebbe a filtrare l’aria? Le risposte sono evasive. Non ce lo dicono ma è chiaro che il quartiere è collegato ad altri, a tutta la città; le gallerie sono sotto le case, ogni casa ha il suo ingresso, ogni comunità ha contribuito a lavorare. «Hanno prestato lavoro volontario, dopo la giornata di lavoro». Solo cosi hanno potuto portare a compimento quest’opera sterminata. Ma portare a compimento non è la parola giusta. Un lavoro del genere non si compie mai. La Cina ama costruire simboli di se stessa.

6. I sinologi sono spesso noiosi; non già per il naturale atteggiamento pedagogico di chi sa o sa di più nei confronti di chi sa di meno, ma perché tendono ad accettare il codice cinese per quanto è della terminologia idcologica-politica e a non compiere di continuo quel lavoro di traduzione senza del quale non si capisce più nulla. Quando si sia svolto fino in fondo il discorso preliminare, sacrosanto e necessario, sulle diversità, sulla inevitabilità di una decodificazione paziente del discorso cinese, viene il momento in cui bisogna opporre il nostro codice, i termini nostri, occidentali. Nella guerra dei linguaggi che si sta svolgendo un po’ dappertutto mi pare necessario chiarire ai cinesi l’esistenza di una traduzione, il fatto che dobbiamo e vogliamo tradurre. Perché potrebbe accadere che i cinesi credessero accettato il loro codice linguistico dagli interlocutori occidentali quando quella accettazione è solo apparente, di cortesia o di servilità. È vero che nel linguaggio politico è assurdo pretendere alla univocità; è vero che l’equivoco è l’anima della politica; è vero che una delle prove di forza capitali di una politica è l’imposizione del proprio codice linguistico; ma i cinesi sanno troppo bene che non possono andare oltre un dato limite, pena la fine della comunicazione.

7. Qualche esempio di comunicazione “disturbata”. Primo. A. mi dice: «So che gruppi di Guardie Rosse o attivisti si recano nelle campagne per compiere lavoro di propaganda presso i contadini; e, tra l’altro, diffondono e raccomandano l’uso del reggipetto, altrimenti ignorato dalle cinesi. Si tratta evidentemente di un episodio di introduzione di un elemento di costume e di perbenismo di origine borghese che, ecc.». Ma poi si viene a sapere che è esattamente il contrario: le contadine cinesi, anzi le cinesi in generale, si fasciano strettamente il seno, da secoli e secoli, in relazione a specifici tabù sessuali e, in definitiva, sociali, fino a fingere l’assenza di seno. Diffondere il reggipetto è quindi diffondere una promozione della femminilità in quanto tale. E perché non allora il seno libero delle giovani americane? Perché le giovani americane dal busto sciolto non lavorano, in genere, in risaia o nell’edilizia come le loro coetanee cinesi.

Secondo. Il viaggiatore in Cina ha certo sperimentato alcuni luoghi comuni del costume contemporaneo di quel paese; lo scrupolo col quale si ricerca e si riporta al distratto quel che egli può aver dimenticato (c’è tutta una collezione di aneddoti sull’argomento); la meticolosa puntigliosità dei conti; la preoccupazione costante per la salute dell’ospite. Questo elenco potrebbe continuare. Ma il significato secondo di questi elementi del rituale tende a sfuggire. La correttezza commerciale dei cinesi è ormai proverbiale; e non è senza ricordare allo storico quella dei dissenzienti religiosi nella Inghilterra del Cinque e del Seicento, origine di molte potenze del credito. Ma è facile rendersi conto che questo sistema di comportamenti-segni è anche, o soprattutto, un complesso di adempimenti ad un codice — quello dell’interlocutore: straniero, occidentale, capitalista ecc. — dal quale il proprio tiene a distinguersi nell’atto stesso in cui sembra accettarlo.

Voglio dire che è abbastanza evidente la preoccupazione di assicurare il “servizio”; il che equivale a distinguersi, non ad unirsi. Questo viene ai cinesi, è chiaro, dalla materiale impossibilità di distinguere il compagno (straniero) dal curioso, l’ospite benevolo dal nemico. Ma, in conclusione? Ancora una volta si deve concludere che la nostra ricerca di un significato secondo e vero viene, e giustamente, frustrata. La lezione della Cina è questa: proprio perché ogni cosa significa se stessa e altro da sé; proprio perché tutto è segno; proprio per questo, di momento in momento, di attimo in attimo, si fermano e si disciolgono i patti semiologici tra emittenti e ricettori. Alla domanda di che cosa abbiano voluto dire con il tale comportamento, il tale gesto, la tale parola, il cinese potrebbe rispondere — proprio perché appartiene ad una civiltà simbolica che non esclude affatto una robusta dose di pragmatismo — di aver voluto dire, come il poeta francese, quel che ha detto, «alla lettera e in tutti i sensi».

8. Quando si siano passati quasi vent’anni a ripetere che la tradizione marxista ha ignorato o sottovalutato tutta una parte della vita umana, quella che si può chiamare delle passioni interpersonali; e quando si sappia quali voci e menti, più fondate e autorizzate della propria, abbiano discorso di quel medesimo tema; leggere — come mi accade in uno scritto di Fachinelli nell’ultimo numero dell’«Erba voglio» — quella tematica riscossa e rimescolata a proposito della Cina, della morte di Lin Piao e nella analisi di un comunicato ufficioso su questa vicenda, mi induce a chiedere subito: perché ora? Perché questa “lettura”, questo svelamento del linguaggio dei comunicati ufficiosi, perché questo esercizio semiologico è destinato a trovare tanto consenso, ad essere liberatorio (nel senso del soulagement) presso quei tanti, militanti o no nella «sinistra», che la Cina, insomma e non da oggi, l’avevano a fastidio?

«L’impossibilità storica del marxismo insediato a rappresentare nei suoi termini ciò che Marx giovane chiamava “la passione dell’uomo”… i resti notturni della vita dell’uomo». Questa è l’obiezione classica al marxismo e fino ad oggi inconfutata. Ma quale senso può avere la sua ripetizione se non la si svolge al di là dell’enunciato? Se non la si sperimenta? Chi crede non riformabile. incorreggibile, in questo punto, il marxismo (come io che scrivo, lo ritengo incorreggibile e non riformabile. Quale almeno ci è stato trasmesso dai suoi tutori più autorizzati), smette di prendersela col “marxismo” e indirizza le proprie energie a render conto della “passione dell’uomo” e dei “resti notturni”: non si fa un amalgama di marxismo, politica cinese e problema dei “resti notturni”; si scelgono diversamente i propri pretesti.

Ma tutto questo non è sufficiente per sbarazzarsi delle argomentazioni che ora ho rammentate. Non ho dubbio che la scomparsa di Lin Piao sia stata comunicata al mondo (per quanto riguarda i suoi connazionali sospendo invece il giudizio) in modo propriamente indecente. In un modo che offende gli amici della causa cinese ma più ancora i compagni che combattono gli stessi nemici della Cina. Non ho, in questo senso, nulla da aggiungere a quanto ebbe a dire, nell’agosto di quest’anno. me presente, Aldo Natoli ai compagni cinesi e di cui una trascrizione molto prossima al vero si legge nella prima delle corrispondenze di Gianni Corbi. il direttore dell’«Espresso», pubblicate da quel settimanale. O. tutt’al più, che la replica dei compagni cinesi, rifiutandosi di esprimere la benché minima comprensione per le “perplessità” diplomatiche messe innanzi da Natoli, mentre testimoniava indirettamente di una fiera lotta politica in corso oggi in Cina sotto le apparenze della concordia e unanimità, rammentava a chi se ne fosse dimenticato la differenza e la distanza fra una conversazione politica di rappresentanti o delegati di partiti comunisti che reciprocamente si riconoscono come tali e una fra delegati, tutto sommato, “turistici” e portavoce unilaterali di esigenze informative o propagandistiche del Partito comunista cinese.

Certo, esercitarsi con strumenti consumati dal Barthes o da Eco per interpretare una scrittura informativo-politica emessa dalla ambasciata cinese ad Algeri, come fa lo psicanalista sopra citato, equivale ad esercitare la critica letteraria italiana su di una poesia di Tu Fu tradotta in inglese. Ma dire questo, lo ripeto, è insufficiente: la questione politica chiede una risposta politica.

Già. Una risposta politica. Questo è il punto. Non è soltanto il modo con cui dati eventi ci vengono comunicati che è da contestare o da rifiutare: sono gli eventi. Solo una mente perdutamente fida alla semiologia può credere che la forma verbale dica più di quanto non dica una sequenza di eventi. Essa tutt’al più dirà altro, ecco tutto[3]. Quel che rifiutiamo nella faccenda Lin Piao e, certo, il suo carattere di faccenda, i tempi della sua comunicazione, l’uso della nozione di complotto, insomma il suo codice politico. Ma è il suo significato politico che va discusso, non solo il metalinguaggio dei comunicati. In questo senso, che le obiezioni ai discorsi magico-didascalici con cui i compagni cinesi ci hanno parlato di Lin Piao siano state formulate nel linguaggio diplomatico, da partito cugino, usato da Natoli nel nostro dialogo di Shanghai. Per me oggi va benissimo quanto, allora, mi erano sembrate eccessivamente diplomatiche. La critica politica ai modi ai tempi della faccenda Lin Piao va separata dalla critica al linguaggio della sua comunicazione; necessaria anche questa seconda e rivelatrice; ma si tratta di due linguaggi e di due codici. E se vorremo criticare la faccenda di Lin Piao ci occorra dare un giudizio storico-politico, la cui fondatezza sarà anche proporzionale al grado di informazione (e quindi secondo la parola di Mao, di «inchiesta») che ne avremo. E tale giudizio potrà essere anche durissimo ma svelerà, nella sua stessa pronuncia, il «punto», la «piattaforma» politica del giudicante; cosa che lo scritto di Fachinelli non fa, coerente, tutto sommato, con la propria visione di psicanalista fondata necessariamente sull’implicito e non sull’esplicito e proponente al proprio lettore una chiave non diversa da quella che, come lettore interprete, concede a se stesso.

Una critica al linguaggio che non sappia veramente di essere solo tale o che unifichi segni e significato, discorso e oggetto del discorso, porta a queste conseguenze; cade sotto la stessa scure critica che impugna, è tutta un «ribollire di passioni livide», è «un groviglio di rabbia, rancore, invidia, attacco, delusione», per impiegare le espressioni qui usate a definire la leggenda nera di Lin Piao.

9. Ci sono dei brevissimi attimi, al mattino, prima che la delegazione inizi la sua giornata, in cui può accadere di incontrare, attraversando una hall di albergo, uno degli interpreti. In quell’attimo egli porta, come un bambino svegliato dal sonno, una traccia della sua realtà privata. Non è ancora l’interprete che sarà fra pochi minuti, lo strano fantasma apparentemente fraterno che ci accompagna e ci giudica.

10. Il rapporto fra identità e differenza: la seconda volta, lo si sa, è la volta vera. E ora per me la Cina è vera, ha una sua realtà misurabile. Fa parte del mondo.

11. Ostinatamente, la scena-madre della comunicazione su Lin Piao, continua, nella memoria, a ricomparire nella modesta stanza di riunione della fabbrica di tubi e profilati e non in quella che ne è stata veramente teatro, la sala di riunione della grande fabbrica delle macchine utensili di Shanghai. Solo ora, scrivendone, mi pare di riuscire a rivederla: le grandi poltrone rivestite di cretonne a fiori, il ronzio dei ventilatori verdi azzurri e, davanti a me, la Kao con la sua faccia tonda e, starei per dire, sbrigativa, sopra il lungo corpo di ragazza magra. Poi, nelle poltrone, gli altri compagni cinesi, che per il caldo hanno rilevato i pantaloni alle ginocchia e paiono ragazzi in gita scolastica, coi loro calzerotti dentro i sandali e i ventagli in mano.

12. In qualunque paese uno vada, la distanza tra l’ordine della valutazione politica e l’esperienza immediata è necessaria, inevitabile. In Cina quella distanza è massima: perché la valutazione ideologica e politica è lacerante, per l’occidentale di “sinistra”, è una prova cruciale; e perché l’esperienza immediata è resa cifrata dalla eterogeneità dei passati, dalla impossibilità di ridurre la Cina ad un qualche altro termine noto.

Di qui gli atteggiamenti paradossali dei visitatori. Ora difensivi, volti a recuperare tutti i possibili punti di identità e di somiglianza: un albergo è un albergo, una birra è una birra, le ragazze sono — dopotutto — ragazze e nelle fabbriche gli operai sono come i nostri. Ora perplessi: la diversità e l’ambiguità di ogni comunicazione messa in evidenza, anzi esasperata…

13. I cinesi osservano, intimamente non saprei se divertiti o sgomenti, questa ritmica richiesta di “verità” e “autenticità” da parte degli occidentali. Come spesso accade, la pupilla conservatrice vede più chiaro di quella progressista: Giorgio Manganelli, sul «Giorno», ha detto una verità molto seria sulla Cina d’oggi, quando ha celebrato nel comportamento di quelle genti un civile senso dello spettacolo opposto al nostro romantico bisogno di essere “se stessi” e di “autenticità”.

14. [Alle tre di notte, ora locale, quando i trecento e passa, intontiti, intronati escono dal ventre del Jumbo per calarsi nel consommé caldo dell’aria, tra le labbra viscide dell’aereoporto delle isole Barhein, i più di noi ignorano dove cazzo siano queste irreali Barhein, chi dice che siano nel Mar Rosso e chi nell’Oceano Indiano. Si sale a frotte, vacillando sotto il colpo del bollore fetido, verso un’aria condizionata dove bere un nescafè, osservare una carta, farsi perquisire da due guardie arabe… Il sole, lo fuggiamo da iersera ma è più veloce di noi, corrono le palme in fila, a chiome dimesse, passano gli sheds delle miniere di alluminio delle Barhein, le acque di pescecani del Golfo Persico. Il viaggiatore si commuove alla vista del deserto violetto, ha vergogna di essere così avanti negli anni, con quelle sue curiosità fuori moda, vorrebbe saper dormire come il suo vicino neozelandese, che non ama la geografia].

15. I giapponesi per gli alberghi e per le città. Molti, attivissimi. Due categorie: quelli “americani”, giovani, efficienti, capelli lunghi, aria spedita, qualcosa fra il paparazzo, il giornalista, l’architetto, anglofoni, esperti in obiettivi, biglietti di aereo, antifecondativi, editoria di massa; e quelli “americani” anch’essi, ma stile cinquant’anni fa, businessmen con cravatta e gilet, commessi viaggiatori infelicissimi, piccoli mikado occhialuti, sudati, squallidi. I cinesi li guardano il meno possibile. Deve essere molto strano essere un cinese in Giappone, un giapponese in Cina. Le analogie con i nostri complicati rapporti intraeuropei non sembrano opportune.

16. Si può parlare di maleducazione per i cinesi che abbiamo conosciuto? Essi, fra loro, avranno certo un loro codice di valutazione. Io non ho potuto rilevare che qualche forzatura, qualche stridore nell’ironia («Lo vedrete la prossima volta che verrete in Cina» mi dice sogghignando un funzionario alle mie rimostranze per la mancata visita a non so quale museo), qualche goffaggine intenzionale contro gli “intellettuali”, qualche — e frequente, questa — demagogia “operaistica”. Ma che cosa sono questi tratti negativi di fronte alla qualità del modo di essere, muoversi, parlare, di tutti; quel difficilissimo senso dello spazio fisico che è spazio psichico, educazione tutta transnaturale alla convivenza? Solo a Londra, ma ormai sempre meno, nell’ora del rush, quel senso di privato-nel-pubblico che si vede, in Cina, percorrendo le terze classi dello Shanghai Express, dove i viaggiatori vivono e dormono. Una lezione di convivenza, appunto.

17. «Senti, qualche militare, da voi, si fa aggiustare l’uniforme, da un sarto o dalla mamma? Da noi usa. Hai visto, per esempio, l’uniforme del compagno giovane dell’Esercito popolare che è docente a Chinghua, al Politecnico? È chiaro che è stata ritoccata da qualche mano sapiente».

«Osservi sempre le piccole cose tu», mi risponde, più seccato che addolorato, l’interprete. È un uomo non giovanissimo, serio, preparato, molto intelligente. Una volta che ho cercato di spiegargli i motivi di un certo modo italiano di ironizzare anche sulle cose più serie, mi ha detto, in tono di rimprovero: «Ci sono cose su cui non si può scherzare».

Credo di aver capito che questo rifiuto allo scherzo verbale con lo straniero — in un popolo che di giuochi verbali dev’essere ricchissimo, almeno se penso al poco che so della sua letteratura — dev’essere collegato con la diffidenza, con quell’inestricabile nesso di superiorità-inferiorità nei confronti dell’occidentale che mi par di intendere debba essere una dominante del cinese, confermata dalle testimonianze storiche, dalle osservazioni che mi è occorso di leggere.

18. Con tutto questo, i pianti degli interpreti alla frontiera di Hong Kong restano poco spiegabili. Dire che gli orientali hanno “le lacrime in tasca” non mi pare una spiegazione. Bisognerebbe conoscer meglio i motivi che ad una data condizione associano un alto grado di emotività. Può anche darsi che quel pianto abbia un carattere rituale e sia quindi autentico e insieme di convenienza. Ma no. È più probabile (fu così anche diciassette anni fa) che la spinta emotiva sia a un tempo originata dalla coscienza di restare, essi, nel luogo di una avventura vitale tremenda, dove essi, come minoranze consapevoli, possono essere, ad ogni ansa del fiume storico, travolte; dura e a un tempo esaltante nel sacrificio. Questo non contraddice il tema della separazione, del “mai più” che è ricorrente in secoli e secoli di poesia cinese (cfr. Demieville, Anthologie de la poésie chinoise classique, Gallimard, 1962, p. 26, «il tema ossessivo del mutamento di dimora»).

19. Sull’ora di mezzogiorno, in uno dei cortili interni del palazzo imperiale, sto aspettando insieme a C. che la ragazzina interprete torni dal posto telefonico dov’è andata a chiamare un tassì per riportarci in albergo. Non c’è quasi più nessuno, i cortili sono deserti, nitidi sotto il sole e il turchino limpidissimo. Scintillano le ceramiche gialle, i vecchi muri rosa e viola con le ombre azzurre, le erbe cresciute fra i marmi che lastricano i percorsi fra i padiglioni, i tetti di legno dipinto, le melograne, i pini.

Sono felice di questi minuti di attesa in mezzo al silenzio dell’architettura, sotto il cielo meridiano marino. Mi chiedo se vorrò scrivere quanto ho visto ora. Penso a quelli che leggendo diranno tra sé e sé «letteratura» e vorranno sapere che cosa penso di Lin Piao.

20. Torni in Italia e i compagni ti chiedono: Allora, Lin Piao? È vero che la rivoluzione culturale è seppellita? Come va in Cina?

Questo tipo di domande è l’indice di un errore. Sulla Cina e su di noi. Malati di ideologismo, di astrazioni, di miti e di emblemi; e tanto più quanto più siamo entrati o stiamo appena uscendo da una sconfitta o da una ritirata politica, dopo avere per alcuni anni (penso ai più giovani) disprezzato le realtà esistenziali o empiriche, le “inchieste” raccomandate da Mao e la modestia, a favore di dispute sulla collocazione di classe degli studenti e sulla “cultura alternativa”, e ci incontriamo con una società, quella cinese, che presenta un quoziente di ideologismo assai più grande di quanto non ne avesse l’Unione Sovietica vent’anni fa. Con la differenza che il formulismo e l’uso degli slogans nei paesi dell’Europa orientale era il risultato di una visibile oppressione, della costrizione di un pensiero creativo (che aveva prodotto non solo la grande letteratura del secolo precedente a Lenin, ma la ricchissima vita ideologica degli anni venti) mentre in Cina — vedi Schurmann — anche se è evidente la presenza di una conformità, o conformismo, soprattutto nei confronti di stranieri (e di forme ideologiche e culturali preoccupanti, di cui dirò), il gusto della formulazione e classificazione, quindi dell’intarsio ideologico, l’uso (tipo giuoco del “domino”) di elementi modulari del linguaggio politico, fa parte di una struttura culturale e linguistica profonda, innovata certo da Mao e dalla rivoluzione ma ricevuta dal passato ed essenziale, insostituibile per rendere ideologicamente omogeneo un paese fin troppo contraddittorio e multilaterale, per portare innanzi la doppia istanza della conservazione (come unità culturale complessiva, storica, l’enorme blocco di civiltà) e della trasformazione ossia del rapporto con l’Occidente secondo una via inedita, né giapponese né indiana. Quando un quadro cinese dice «Liu Shaochi, ultrasinistra, organismo dirigente, servire il popolo, borghesia, rieducazione» e così via, dice qualcosa di assai diverso da quel che noi diciamo, non perché la Cina sia “altra” o “intraducibile” ma perché il valore che questi termini hanno, come tessere di una composizione, è stabilito da un senso di valori, di rapporti, che non è il nostro anche se gli va sempre più somigliando[4].

I compagni cinesi tengono moltissimo alla correttezza della terminologia ideologica; ma, spogliata di tutti gli elementi vivi che là la legano alla realtà, quella terminologia ci appare lignea. Se poi si aggiunge che non pochi europei portano in Cina le loro frustrazioni politiche, il loro bisogno di speranza e di autorità e uno dei più indispensabili e insieme pericolosi doni del marxismo, cioè la disposizione a concettualizzare, pensate a che cosa avviene in Cina: una conversazione con i dirigenti di una Comune o la visita ad una scuola elementare si trasformano in pura teologia. I cinesi, tutto sommato, se ne infischiano perché questo è un modo di imporre il loro codice di discorso; i nostri, tornati in Italia, o esultano fideisticamente o tacciono.

21. I comitati rivoluzionari, ci viene detto, sono organi amministrativi. Ce lo hanno detto nelle comuni e nelle fabbriche, all’università, dovunque. Ad altri, visitatori giunti dopo di noi, hanno parlato di un vero e proprio assorbimento dei comitati rivoluzionari in quelli di partito. Ma anche a noi è stato detto senza reticenze che spesso gli uomini del comitato rivoluzionario erano, almeno in parte, gli stessi del comitato di partito. La mia impressione, su questo punto, è stata che i comitati rivoluzionari siano diventati una sorta di organismo intermedio e di difesa, una sorta di “capitano del popolo”. Mi sono persuaso che se non vengono ancora aboliti è perché ricoprono una parte delle funzioni che erano state del sindacato, travolto dalla rivoluzione culturale.

Nessuno o quasi mette più l’accento sulla partecipazione volontaristica alla edificazione socialista; anche se è ovviamente escluso ogni riferimento esplicito agli incentivi materiali.

La tendenza è a chiamare ultranistra tutto quel che emerge dalla Rivoluzione Culturale. Materialmente si cancellano le tracce di certa iconoclastia; mentalmente, quelle di certi episodi. Al politecnico di Pechino la mattinata di conversazione è stata occupata quasi interamente da una ricostruzione del passato immediato tutta zucchero ottimista; oggi sappiamo, dal libro dello Hinton, quanto dure e sanguinose e in parte insensate lotte si siano svolte, appena quattro anni fa, fra quegli edifici. Lungo le muraglie interne del Palazzo Imperiale s’intravvedono grandi sequenze di caratteri coperti da una mano di pittura. In un antico monastero di Nanchino tutta una serie di riquadri recanti iscrizioni antiche era stata a suo tempo verniciata ed un enorme carattere era stato dipinto su ognuno di quelli; ora un’altra mano di tinta grigia gli si è sovrapposta.

Al Giardino d’Estate quasi tutti i riquadri decorativi recanti immagini umane erano stati coperti di tinta bianca e vanno ora riemergendo. Numerosi musei sono in “restauro” per far scomparire le immagini di dirigenti non più graditi. Nel museo di Mao a Shaoshan, per sale e sale, il Presidente (come egli stesso avrebbe detto una volta a Malraux) è «solo con le masse». Ma anche troppo: alla Lunga Marcia è dedicata appena una parete, con una carta geografica e alcune fotografie. Da quel trofeo di superstizioni si esce sconcertati come, a suo tempo, dal musco Lenin di Mosca; e avviliti, lo sappiano i compagni cinesi.

Ma inutile continuare con queste notazioni, la stampa occidentale ne è piena. Piaccia o no, se confronto le mie impressioni di questo agosto con quelle di mia moglie Ruth che ha passato un mese in Cina nel novembre del 1970 — con la delegazione che documentò il proprio viaggio in un grosso fascicolo di «Vento dell’Est» — mi vien fatto talvolta di chiedermi se stiamo parlando del medesimo paese, delle stesse città. Posso valutare cosi, penso, la profondità dello sconvolgimento portato dalla Rivoluzione Culturale e quello del presente riassestamento. Ma credo che abbia poco senso parlarne in termini di “destra” e “sinistra”. Torno a ripeterlo: usare le variazioni politiche cinesi come simulacri per il discorso politico che svolgiamo in Italia è inutile o serve solo ai dottrinari, a quelli che ogni giorno infiorano e adorano la propria professione di fede.

So di dire qualcosa di oltraggioso per costoro: oggi, secondo me, soltanto una interpretazione liberal, in senso americano e che quindi, almeno in parte, prescinda delle premesse ideologiche del marxismo, del leninismo e del pensiero di Mao. può introdurre ad una lettura non falsificata della esperienza cinese i nostri compagni della Nuova Sinistra. Se è impossibile — come mille volte è stato ripetuto — capire qualcosa dei cinesi fuor della conoscenza del quadro ideologico generale in cui si muovono, per un altro verso l’eccessiva vicinanza (o lo sforzo ad una vicinanza) ostacola la comprensione anziché aiutarla. L’esperienza storica dei Quadri cinesi permette loro di distinguere, non dirò sempre[5], ma spesso, fra una riflessione politica fondata su dati reali e una fondata solo su schemi ideologici. E si capisce allora che essi porgano o sembrino porgere più attento orecchio a quanto vien loro detto da operatori economici o diplomatici del mondo capitalistico che non ai discorsi dei compagni, soprattutto se i primi forniscono dati da elaborare e i secondi non di rado elaborazioni con pochi o punti dati.

Per acquistare credibilità agli occhi dei compagni cinesi non c’è che contare «sulle proprie forze», come essi non si stancano di ripetere. Pena la catastrofe, essi sono costretti a praticare un’arte e una scienza della rilevazione del reale di cui sembriamo difettare, molto incerti sul come si «faccia ricerca». La sua rilevazione, intendo dire, delle contraddizioni, antagonistiche o «in seno al popolo», la comprensione delle tendenze, delle esigenze, delle forze, insomma l’analisi politica della lotta di classe, è, per loro, la condizione stessa del potere; se una oscurità essi incontrano in quelle indagini, essa è prevalentemente dovuta all’ombra che lo stesso potere comunista porta sulla realtà circostante, dal dover essere a un tempo giudice e parte. Noi invece abbiamo a che fare con una opacità del reale che è prevalentemente indotta dal potere capitalistico; e i nostri errori, per tragici che possano essere, non immediatamente sono scontati in termini di potere e solo eccezionalmente in quelli di distruzione fisica.

Gli errori della Sinistra e della Nuova Sinistra italiana, ad esempio, vengono per la massima parte scaricati sulle masse operaie, contadine e piccolo-borghesi e divengono così relativamente invisibili. I nostri sbagli si confondono con la monotonia storica. Uscir da quest’ottica, sentirsi pienamente responsabili, rischiare nella propria le sorti altrui, questo distingue il politico vero dall’ideologo; questo accade da noi troppo di rado; questo comprendono i cinesi; e questo spiega la loro prudenza, il loro cortese rifiuto a parlarci da eguali. Come non dar loro ragione, quando io che parlo per primo rifiuterei una responsabilità non ideologica e, in Cina, nulla di meglio avrei gradito di una conversazione di opinione, non impegnativa e senza conseguenze effettuali, con un mio simile?

22. La scuola “Sette Maggio” che abbiamo visitata mi è parsa una istituzione prossima ad essere liquidata. Non saprei darne le ragioni. Quelle «scuole» sono state istituite in una situazione d’emergenza. Confronto la descrizione che mia moglie me ne ha fatto, nella sua visita del novembre 1970. La scuola era stata creata da poco più di diciotto mesi, in una landa. Il periodo eroico era stato quello iniziale, con la costruzione degli alloggi, dissodare i campi, vivere del lavoro delle proprie mani: e questo, per quadri, in genere, con più di trent’anni di età.

Credo che tra noi ci sia una sottovalutazione istintiva di questo genere di esperienze. Istintiva e pericolosa. È chiaro che l’uso della vanga e le durezze della vita militare non modificano il cervello della gente e non fanno il socialismo; d’altronde quando i cinesi parlano del lavoro manuale come scuola di realtà, ho l’impressione che per una sorta di pudore culturale facciano un po’ torto a se stessi. Nel senso che sono, sì, portati a dire che il valore pedagogico del lavoro manuale consiste nel far comprendere di qual genere sia la fatica contadina o operaia, quali i riflessi di quel lavoro nei criteri di giudizio, negli schemi mentali eccetera, ma sono portati invece a non rilevare un aspetto certamente altrettanto importante e più legato al passato tradizionale, quello che ha istituita una lunga disciplina del corpo ed un rapporto con lo spazio e con le dimensioni meno che da noi riconducibile al “pratico-inerte” di cui Sartre ci ha parlato.

La Scuola “Sette Maggio’”, per essere la più vicina a Pechino, dev’essere ininterrottamente visitata da delegazioni di visitatori; come è difficile però cogliere il cliché, l’elemento di ripetizione! Ancora una volta, in questa civiltà trionfa l’impegno assoluto nella esecuzione della copia. C’è il punto d’onore del professionista che alla ennesima esecuzione sa conferire la medesima naturalezza alla sua battuta, la stessa intensità allo “staccato” orchestrale. Dove l’identità di maschera e di volto diventa la premessa morale di una autenticità superiore a quella nostra, di discendenza introspettiva, borghese, romantica; come, nel nostro occidente, avevano capito (malintesi e possibilmente ammazzati da un secolo di “rivoluzionari”) i formalisti dellearti e delle lettere.

Si prolungava, nel pomeriggio grigio e caldo, più del dovuto la conversazione. Seduti ai lunghi tavoli di legno, i compagni ascoltavano la discussione, apparentemente tranquilla ma in realtà carica di sottintesi, di finte e di tensione, tra i cinesi e Natoli che con fredda determinazione aveva espresso il proprio stupore per l’immutato luogo che in Cina si faceva al compagno Stalin, aggiungendo non pochi richiami alla storia del P.C.C. per concludere dolcemente che proprio Stalin avrebbe dovuto essere considerato il padre del revisionismo sovietico. Intanto vedevo oltre le finestre, nella corte di grigia terra battuta, passare e ripassare, in attesa, uomini e donne con drappi e fiori rossi di carta, per il piccolo spettacolo che ci era stato annunciato e che avrebbe dovuto svolgersi sulle tavole rialzate in fondo al refettorio, simili a quelle di un nostro circolo ricreativo di campagna; e mi dispiaceva che dovessero aspettare così a lungo le nostre, tutto sommato abbastanza vane, precisazioni ideologiche.

Mia moglie mi aveva parlato con particolare entusiasmo di quel modesto spettacolo di canti e danze, eseguito da — stavo per dire, dagli internati — dai “volontari” quadri del «Sette Maggio» in rieducazione. Avevo creduto a quell’entusiasmo. Ma ora ero scettico. Mi pareva impossibile che — dopo le trasformazioni politiche che ogni giorno ci venivano testimoniate — lo spettacolo non avesse un sottofondo sinistro. La gente della mia età conosce, di persona o per sentito dire, le mistificazioni, ora tragiche ora ridicole, delle “visite guidate” ai campi di prigionia e di “rieducazione”. Come i bambini delle scuole disposti lungo l’itinerario dell’illustre ospite, dall’aereoporto all’albergo, ad agitar bandierine; come gli operai plaudenti a Vnukovo; o le danzatrici, qui, se la sorella dello Scià di Persia viene ricevuta da Chou Enlai… Il disagio e quasi la vergogna, questo mi aspettavo; non dello stesso genere di quello che, in qualche momento, avevo provato davanti ai balletti dei bambini, per quel tanto di inevitabilmente meccanico, per l’oscura intenzione di sedurre un genere particolare di benevolenza che mi pare sempre connesso con l’uso dei bambini a fine di spettacolo — ma più grave, come per la rigida imposizione di una formula di cortesia.

E invece quando due o tre lampade si sono accese e i cembali e i tamburi hanno preso a tempestare e sono saliti sulle tavole una dozzina di ragazze e di uomini, sotto il solito sorriso del Presidente — tutto è cambiato, la verità è apparsa indiscutibile, assoluta; dico la verità della ripetizione, nel senso che ho precisato prima. Vorrei potervi dire che cos’erano, come erano, quelle ragazze, che sembravano aver lasciato allora la scopa, il mestolo o il forcone; carine alcune, bruttine altre; vestite con il vestito da lavoro, le loro pantofole col cinturino, le trecce secche e divaricate o grasse e pendenti. E come cantavano o agitavano i poveri fiori di carta; come ridevano o sorridevano. E gli uomini, in maniche di camicia, senza nessuna preoccupazione di scena e senza nessuna eccessiva modestia; in coro o due soli sul palco, con la fisarmonica, con appena un baldo atteggiamento e i pugni stretti per fierezza, come prescritto dai manifesti e dalle immagini dei calendari.

23. La mattina della partenza, il viale della Lunga Marcia era vuoto fino all’orizzonte e il cielo era pulito. A oriente si vedeva sorgere il sole. I suoi primi raggi toccavano le dorature del Tien An Men, le travi color rosso drago e i parapetti di marmo. Contro la muraglia esterna si potevano distinguere le ombre delle sentinelle, piccole per la distanza.

La calma del momento che precede il giorno può essere immagine di forza e di speranza.

Prima del ritorno abbiamo avute altre giornate di viaggio. Ma quella mattina è stata la vera partenza. Per molti anni avevo creduto di non rivedere mai quegli edifici. Quando si è vecchi si dice: «i mici occhi videro».

La mattinata è alta, le lontananze sono quelle del bacino di San Marco.

I compagni hanno guardato come batteva alla brezza la seta delle bandiere. Nei loro occhi ora corrono nuovi quartieri e alberete di giovani piante lungo i canali.

24. Questi appunti sono disordinati e contraddittori. Note polemiche piuttosto che interpretazioni. «Ma allora, se la Cina questo non è né quest’altro, se questo sconcerta o delude e quello è criticabile o incomprensibile, che cosa ami tanto in quel popolo e in quella loro rivoluzione? Perché continui a magnificarla? Che cosa mai sarà questa Cina se la ritieni l’unico luogo che tu conosca al mondo dove si possa cominciare a dirsi, senza troppa vergogna, uomini?».

«Nessuna risposta, amici cari», è la mia risposta. «Dovrei spiegarvi il rapporto esattissimo e delicato che, a mio modo di vedere, intercorre tra le formule della politica comunista cinese e il sistema idraulico delle campagne dello Hunan? Il giuoco di rifrazione fisica e intellettuale che passa fra gli spazi di quella nazione e il modo in cui paiono muoversi, in quello, gli esseri umani? No certo. Non solo perché di rado la presunzione è una virtù e, a parlare della Cina, se ne abusa sempre; ma soprattutto perché queste cose non vi interessano. Perché tentare di spiegarvi che non mi passa nemmeno per la mente di identificarmi con quella cultura e con quelle forme di interpretazione del mondo? Che so bene di illuminare quei paesaggi e quei volti con gli antichi effetti teatrali della metafisica greco-cristiana, a loro tanto estranei? Che quando essi parlano delle celesti potenze accorse in aiuto al vecchio che spostava le montagne, sanno di impiegare un linguaggio solo figurato mentre io ne sarei meno sicuro? Che non porto nessun “amore” alla Cina ma che essa — o quel che ho creduto capirne — è termine necessario, né solo a me, per capir meglio di che storia e natura noi si sia, qui, fatti?

Il dissenso nostro sta, mi pare, e come si usa dire, più a monte. Sarebbe utile chiarirlo; non fosse così tardi, non fossimo tutti così nervosi e indispettiti o mal disposti».

25. «Ma, insomma, ci andresti a vivere?», è stata la domanda, intenzionalmente sciocca, di un intelligente intellettuale di sinistra.

Sono riuscito a impedirmi la sola risposta vera; che sarebbe suonata falsa, soprattutto ai miei interlocutori, così certi della propria vitalità. Vivere in Cina? Certo no; una inutile fatica, un tormento di malintesi ed equivoci. Ma penso all’importanza di affidare con ragionevole fiducia la sopravvivenza di tutto quello che si è amato di più; anche se chi speriamo lo debba proteggere lo farà credendo di promuovere altro da quel che gli commettiamo: nessun’altra parte d’uomini saprei eleggere più vicina di quella che chiamiamo cinese, intenta a scavare oggi sotto la terra i suoi rifugi e a difendere e accrescere sopra la terra fabbriche e compagne. Che dunque ci si possa andare, in questo senso di lascito, a morire — nella persuasione che vi si abbia pietà e rispetto del percorso compiuto vivendo, beni da noi andati distrutti; e anche nella speranza di ritrovarsi così e veramente da una sola parte e non più, come qui da noi, da due parti a un tempo — questo almeno per me io lo credo possibile.

26. Dell’odio alla Cina sono qualità diverse.
Non dimentichiamoci che per molti anni, almeno fin verso il Sessanta, abbiamo associato la Cina al Terzo Mondo; cioè a una categoria che si è rivelata sempre più equivoca. I «marxisti» digerivano male l’idea che un paese così «arretrato» per quanto era degli indici produttivi, così «contadino» e, perché no, «feudale», pretendesse di essere considerato diversamente dall’India, dall’Egitto o dal Congo in nome di un livello di «civiltà», impreciso e inverificabile. L’ignoranza sulla storia cinese — non quella dell’Impero ma proprio quella dei primi trenta e quarant’anni del nostro secolo — autorizzava molti compagni a vedere, tutt’al più, con sufficienza, nel popolo cinese il serbatoio di un futuro proletariato. Queste cose sono state scritte, nero su bianco, e credute anche, da compagni che, coerentemente, d’altronde, avrebbero poi finito col tornare o con l’entrare in quel PCI che si era sempre distinto nel tacere, per anni, sulla Cina o per raccattare i motivi del disprezzo mascherato da «marxismo» che i sovietici rovesciavano sui barbari orientali.

Il marx-trotzchista, con i suoi bei schemini in testa, si infuriava alla prosa di Mao; questi cinesi che parlavano in termini di etica e che impiantavano gli altiforni nei cortili, via! E il marx-trozchista si incontrava col neoluxemburghiano e con l’eredo-giacobino per scuotere insieme la testa e deplorare che in quel paese la «classe operaia» fosse così debole. Non sapevano di star ripetendo gli argomenti che gli avversari di Mao avevano, in Cina, ripetuto per trent’anni. Quanto poi alla gioventù anarco-esistenziale, situazionista, immediatista, criptocristiana — Ho Chi Min piaceva più di Mao, e Guevara più di Ho Chi Min. La saggezza del grasso nonno non li entusiasmava. Nella misura in cui vi fu nella Rivoluzione Culturale o in una parte di quella una coincidenza con alcuni temi della ribellione internazionale della gioventù, in quella misura credettero di amare la Cina e di capirla, pronti a correr via allegramente non appena se ne fossero creduti delusi.

E non ho voluto parlare di qualcosa di più scempio e vile che pure entra spesso nella composizione di quell’odio; la tenace superstizione eurocentrica, lo sprezzo, la boria e il dispetto di chi, dall’alto di un marxismo inteso inteso come philosophia perennis… e, in fondo, lo schema di filosofia della storia per cui, come Abramo generò Isacco e Isacco generò Giacobbe, era così confortante il fruscio della sequenza che dalla società feudale portava alla borghese e da questa al socialismo.

No, al fondo dell’odio o del risentimento verso la Cina sta qualcosa di grave e serio che non fu, negli anni Venti e Trenta, nei sentimenti ambivalenti degli Occidentali verso l’Unione Sovietica. Quel che ha fatto della Cina un simbolo e un trauma, un segno di contraddizione e uno spettro, che si respinge con un riso di scherno o si dimentica volentieri — è proprio il fatto di essere associata con il grande evento semisecolare della rivoluzione sovietica e con la sua lunga, ventennale agonia.

Lascio agli specialisti la precisazione in termini di classe di questo fenomeno di riverberazione storica. Ci diranno probabilmente che l’area piccolo borghese italiana (europea), con tutte le sue estensioni e infiltrazioni e reciprocale nell’area proletaria è, per definizione, la più sensibile a queste traduzioni “psicologiche”. Concediamolo. D’altronde, è chiaro che non più della realtà-Cina si tratta ma del fantasma-Cina; quel fantasma che accompagna spesso il viaggiatore al punto da sostituirsi alla realtà-Cina, quella che scorre oltre i vetri del treno e del pullman. Sì che m’occorreva di dire che, come v’ha gente che passa la vita a parlar della vita, così non pochi compagni hanno passato la Cina a parlar della Cina…

La paura della speranza e l’amore per la disperazione.

Non si tratta d’un medesimo sentimento né si ritrovano nella stessa persona. Non necessariamente. Ma parliamone, perché la «Cina» scatena l’una e l’altra.

Quanto spesso abbiamo letto, fra i nostri o i prossimi ai nostri, in questi anni, contro l’«ignobile» speranza, questa miserabile accattona, questa virtù cristiana! Tutto lo sdegno del Nietzsche sovveniva di argomenti gli eroici e furenti spregiatori della speranza. Che della speranza volevano vedere solo l’aspetto di mistificazione e consolazione. Ora la Cina era questo, appunto: non era la predicazione della speranza, non annunciava ai fascisti e ai borghesi ancora pochi mesi, ma era la realizzazione di qualcosa di quotidiano e concreto che era speranza per noi. Quella speranza si presentava come dovere e come tentazione.

I delusi, che eravamo, dalla grande delusione storica, erano fin troppo portati a temere l’inganno, l’entusiasmo, la perdita del controllo critico. Non volevamo — non vogliamo ancora — chiederci che cosa veramente si debba chiedere alla storia. Per aver sempre mantenute sottintese le sovrumane o inumane speranze della Rivoluzione come Fine della Preistoria e mutazione radicale della condizione umana, sottintese e come coperte dal realismo politico ma non criticate, ma non veramente superate, la speranza finiva con l’assumere il volto di quel sentimento e di quella volizione che avrebbe potuto collegare il “realismo” e la sua mèta, la tattica e la strategia, il presente e il futuro. Per questo ci faceva, ci fa, paura.

E l’amore della disperazione, in quanti di noi non lo abbiamo veduto, intrattenuto, covato, come fonte occulta di forza apparente, da cui derivare acque di purificazione privata! Mentre i timorosi della speranza vestono il “realismo” politico per respingere la tentazione del dovere essere, gli amanti della disperazione manifestano, al contrario, durezza di fede e contenuto entusiasmo doveroso per nascondere agli altri che l’avvenire è spoglio. Gli uni e gli altri non vogliono rischiare.

E infatti, nei migliori — penso ad un Adorno — la battaglia era stata quella di fronteggiare la caduta della “speranza” sovietica senza cadere nella atonia. La tensione permaneva ma trasferita in termini tali da diventare, di fatto, metastorica. La Cina veniva omessa, o posta fra parentesi, considerata l’eccezione, l’anomalia, il vitello con due teste, soprattutto perché da essa, voglio dire, dal più profondo insegnamento di Mao (quali che siano per essere i suoi accenti ricorrenti all’inevitabilità del comunismo) veniva, inequivocabile, una affermazione che era pur stata presente in Marx ma che era stata di fatto lasciata cadere dalla storia rivoluzionaria della prima metà del nostro secolo: e cioè che il socialismo non è scritto nei cieli o, per essere più precisi, che le contraddizioni non sono sopprimibili, ma solo sostituibili, che nulla è acquisito una volta per tutte, che le fasi storiche non si seguono come le dinastie egizie, che nulla è certo e tutto può essere perduto per un intero ciclo storico o, se si vuole, che l’uomo non può uscire dalla sua condizione di uomo. (E se questo non è “marxismo”, tanto peggio per il “marxismo”).

Tutto questo — ripugnante alla secolare banalità di sinistra perché somigliante troppo alla ideologia cristiana — veniva bensì accompagnato in Cina da fierissimi attacchi all’«umanesimo», inteso come l’affermazione di una permanente “natura umana”; ma non riuscivano, i cinesi, a mascherare l’immensa importanza teorica che avrebbe dovuto avere per noi l’idea di una rivoluzione che si affermava bensì come tale ma non più nell’ordine di un “progresso” garantito, non più come permanente recupero di tutto il passato e del perduto e invece come scelta dell’essenziale.

La prospettiva che la Cina ci ha aperto all’inizio degli Anni Sessanta, con la rottura con i sovietici, e che non è mutata attraverso la Rivoluzione Culturale e l’attuale fase, non è quella della «rivoluzione-socialista-nella-autenticità-e-fedeltà», garantita dai rischi delle involuzioni staliniane, da influenze capitalistiche, da ricostituzioni, dall’interno, del potere borghese; non è la bandiera della miserabile speranza fideistica di chi vuol credere ad una guida, ad un vindice. È la proposta di un rischio che si giuoca di giorno in giorno, di singolo in singolo, sulle «proprie forze» di ogni singolo e che, proprio per questo, coincide con la libertà e col rischio etico; onde produrre la rivoluzione, lottare per il socialismo ed essere-nella-autenticità, sono — o per meglio dire: tornano ad essere — la stessa cosa.

Questo aveva confusamente sentito una nuova generazione, alla seconda metà degli Anni Sessanta. Ma “contare sulle proprie forze” invece che sulle proprie debolezze è stato precetto troppo grave. Chi ebbe a scrivere che “la verità ci toglie la speranza e ci lascia la certezza”? La verità cinese lo fa: ci toglie la speranza inferiore, la speranza del sogno e della fantasticheria; e anche la disperazione inferiore, quella che è sempre sull’orlo del cinismo. Ci chiede tutto un altro ordine di virtù, come la forma, la modestia, l’inflessibilità sorridente; e m’avvedo ora che sono queste quasi alla latterà le stesse parole con cui concludevo diciassett’anni fa il libro sul mio primo viaggio in Cina. Propone un dover essere verificabile o, se così si vuol chiamarla, una speranza controllabile, a termine breve e — nello stesso tempo — un arco, o un cerchio, storico dove collocare tutta la nostra «sconfitta» biologica, come già Hegel sapeva e quindi una superiore non-speranza ma certezza. Sensibile, empirica, reale, quotidiana; ma, proprio perché priva visibilmente di dimensione tragica, immagine tersa della condizione terrestre e senza illusioni; come qualsiasi altro luogo della terra certo ma come nessun altro dei nostri giorni a me noto, capace di proporre nello stesso tempo l’intimità, la cortesia, l’ironia dei limiti e gli spazi illimitati di compiti anche feroci, anche apparentemente sovrumani.

Da Quaderni Piacentini, anno XII, n 48-49 , gennaio 1973, pp.119-139

Note

[1] Anche nelle fabbriche. Ma che al Complesso Siderurgico di Pechino, la colata sia accompagnata dalle note di L’oriente è rosso, lo trovo corretto elemento cerimoniale e, non so se per i cinesi, ma certo per il visitatore straniero, giustamente emotivo.

[2] Magari ad una e medesima tendenza. Quando si leggono, nelle cronache degli inizi della Rivoluzione Culturale, i significati simbolici che i gruppi politici attribuivano alle scelte ideologiche relative alla cosiddetta Opera di Pechino, per un verso vengono in mente i conflitti politici della Francia del sec. XVII mediati dalle compagnie teatrali ma, per un altro, quelli sovietici nei tardi Anni Venti. In ogni caso questo gioco di maschere costa un prezzo oggi non tollerabile più, a teatro e per le vie.

[3] E mi devo di segnalare che, così parlando, rovescio la posizione che fu la mia vent’anni fa, in polemica, allora, col linguaggio della stampa comunista. Allora («Chi non spiega è responsabile» in Dieci inverni, Milano. 1957; di prossima ristampa), scrivevo che ci si doveva mettere al livello del più modesto lettore del quotidiano del partito e, nella indecifrabilità delle propagande, basarsi, per cosi dire, su di una sorta di stilistica dei testi della sinistra. Che la critica alle «scritture» sia necessaria, nessun dubbio; anche se rischia di diventare esercizio di sociologia linguistica. Ma l’errore di quella mia posizione era l’errore di credere alla possibilità di isolare la comunicazione verbale e di far intervenire l’esperienza e quindi il momento del giudizio politico solo dopo Io smontaggio sociologico-linguistico del messaggio. Errore veramente letterario che presupponeva una sospensione dei contenuti a favore del contenuto della forma, come si suol dire.

[4] E quando dico “nostro” non intendo dire “del nostro marxismo”, anzi; ma, se così si può dire, del codice ideologico occidentale dominante il linguaggio degli strumenti di comunicazione di massa. L’ingenua allocuzione di una giovanissima apprendista interprete ad alcuni compagni che stavano per salire su un autobus urbano a Pechino («Il nostro presidente Mao ha raccomandato di non dimenticare mai la lotta di classe; quindi in autobus, compagni, fate attenzione ai portafogli») ne è una piccola prova. La lotta di classe include a tal segno l’ordine morale che l’eventuale borsaiolo è automaticamente connotato come nemico di classe. (E certo è necessario mettere in guardia i compagni cinesi dalla loro durevole tendenza di invertire il rapporto e di fare di ogni nemico di classe un delinquente; un vizio sovietico e nero di conseguenze). Analogamente, stupendomi della, almeno apparente, mancanza di protezione a fragili e preziosi reperti archeologici di una delle tombe dei Ming, mi si rispondeva che i ladri (e anche i malati di mente) non esistono in Cina. Dove il «non esistono» doveva essere inteso come una implicita separazione dalla maggioranza buona o “recuperabile”, come quel cinque per cento che (nella tradizione del linguaggio comunista cinese) rappresenta l’accettabile quota di negativo irriducibile, la reale presenza delle contraddizioni antagoniste, ideologicamente ridotte a valori e presenze simbolici.

[5] Non dimentico gli errori anche grossolani in cui i compagni cinesi sono incorsi nel valutare qualità e consistenza delle forze antirevisionistiche, in Europa e in Italia, una diecina di anni fa.

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