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Imprese familiari: vanno meglio se aprono a manager esterni

Presentati nella sede della Borsa i risultati dell’Osservatorio AUB dell’Università Bocconi sulle aziende a controllo familiare che, dati alla mano, crescono più delle altre ma devono affrontare i problemi del cambio generazionale e della governance

Le imprese familiari italiane sono quelle che meglio hanno retto alla crisi, che più sono cresciute, che più hanno creato occupazione e redditività. A patto, però, che siano sempre meno familiari. E’ questo il paradosso che emerge dalla nona edizione dell’Osservatorio AUB sulle aziende familiari, a cura dell’università Bocconi, presentata a Milano a Palazzo Mezzanotte: “Le imprese familiari hanno salvato l’Italia”, ha detto Bruno Pavesi, consigliere delegato della Bocconi.

Ma quanto devono essere familiari per produrre questo risultato? Sempre meno, soprattutto dalla seconda o terza generazione in poi. “C’è un detto in ambito imprenditoriale – ha spiegato il professor Guido Corbetta, coordinatore della ricerca – il quale la prima generazione costruisce, la seconda consolida e la terza distrugge”. Ed è anche grazie alla crescita di una management non familiare o non solo familiare che restano ottime le performance delle imprese familiari, in particolare quelle prese in esame dall’Osservatorio ovvero quelle con un fatturato di almeno 20 milioni (sono circa 10mila), che rappresentano due terzi di tutte le aziende con ricavi da almeno 20 milioni.

Negli ultimi due anni infatti, su 253 casi di successione di un’impresa familiare italiana con un fatturato compreso tra 20 e 50 milioni, in ben 59 casi (quasi uno su quattro) si è passati da un leader familiare a un leader non familiare. Con risultati inequivocabili: nell’ultimo quinquennio le aziende analizzate dall’Osservatorio AUB hanno visto crescere l’occupazione del 15% contro, ad esempio, il +10% dei consorzi o addirittura i saldi negativi delle aziende statali o delle filiali di multinazionali. Più in generale, nell’ultimo decennio le aziende familiari sono cresciute del 147%, dieci punti percentuali in più rispetto al +137% delle altre, la redditività operativa e quella netta sono sensibilmente migliori, mentre leggermente minore è l’indebitamento, pari al 5% del patrimonio netto, contro il 6% delle imprese non familiari.

Il risultato è ancora evidente nel benchmark di grandi aziende selezionato dallo studio per un ulteriore approfondimento: le migliori 300 aziende familiari con un fatturato di almeno 50 milioni sono quelle ancora più propense a un management misto o esterno e risultano ancora più performanti sull’internazionalizzazione, l’export, le acquisizioni. “Di solito la terza generazione ha dei problemi, ma questo non accade più l’azienda è grande, più il Cda è aperto a figure esterne e più la leadership è collegiale, superando la figura dell’amministratore unico che invece ancora funziona nelle realtà più piccole”, spiega Corbetta, ricordando che delle 178 aziende familiari con un fatturato di almeno mezzo miliardo, solo il 37% è di tipo familiare, contro il 65% di tutte quelle dai 20 milioni in su.

Oltre un terzo delle aziende benchmark, il 36%, esporta una quota almeno pari al 70% della propria produzione, il 54% opera con sedi all’estero e il 38% è presente in almeno 6 Paesi. Nel periodo 2010-2015 quasi un’azienda ogni quattro ha compiuto acquisizioni, con un numero medio di acquisizioni di 4,1. Le aziende familiari con queste caratteristiche sono anche le più longeve: “Non tanto per le dimensioni – illustra Corbetta della Bocconi – quanto per la composizione del management”. Le aziende centenarie infatti mostrano una maggiore apertura verso i non familiari nel CdA: solo il 23% di loro ha un Cda “pure family”, contro il 45% del totale delle imprese analizzate dall’Ossservatorio AUB. La maggior parte delle aziende centenarie è nel settore alimentare.

Infine, le familiari quotate in Borsa, che sono 130 sul totale di 194 aziende quotate con un fatturato superiore ai 20 milioni. Queste sono ancora più longeve (il 28% “campa” oltre 50 anni, contro il 10% della media dell’Osservatorio), crescono di più, hanno un tasso di indebitamento di due punti percentuali inferiore al totale delle imprese familiari esaminate, sono più internazionali e hanno un modello di gestione ancora più aperto verso l’esterno: solo il 44% ha una leadership “pure family” mentre il 40% è pure outside, contro il 12% della media generale. Nessuna di loro, lo 0%, ha un Cda composto solo da membri della famiglia.

Le quotate sono anche le più giovani e propense alle quote rosa: manca infatti tra le aziende familiari un buon ricambio generazionale, tanto che un’azienda su quattro è tutt’ora guidata da un leader di oltre 70 anni di età. Tra le quotate, solo il 18% dei leader ha più di 70 anni mentre la maggior parte è nella fascia 50-59. Il 92% delle società familiari quotate in Borsa hanno almeno una donna nel Cda alla fine del 2016, con un boom dal 57% del 2011. A quel livello, intorno al 55,5%, è invece rimasta la quota rosa delle aziende familiari non quotate.

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