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Il Sud è una questione nazionale che richiede le riforme ma anche il risveglio della società civile

La questione meridionale non è una questione locale ma una grande questione nazionale da affrontare a suon di riforme ma anche con il risveglio della società civile – La Casmez e le Partecipazioni Statali non sono riproponibili ma una grande e trasparente stazione appaltante per le opere pubbliche di interesse nazionale e co-investimenti pubblici-privati sì

Il Sud è una questione nazionale che richiede le riforme ma anche il risveglio della società civile

Se il Mezzogiorno affonda nella crisi più e peggio della Grecia la colpa non è del capitalismo finanziario, del liberalismo selvaggio  (!?),della globalizzazione o delle politiche di austerità imposte dalla  Merkel. No! La colpa è nostra e soltanto nostra. E’ delle politiche che le classi dirigenti nazionali e meridionali hanno fatto, ma anche e soprattutto di quelle che avrebbero dovuto e potuto fare e che, invece, non sono state in grado di fare.

La colpa più grave (e davvero inescusabile per gli eredi di Gramsci) è quella di avere banalizzato la questione meridionale. Di averla, cioè, derubricata a questione locale o, tutt’al più, ad una questione di ritardato sviluppo come il Galles, l’Irlanda del Nord o la D.D.R. Ma la questione meridionale italiana ha tutt’altra natura. Essa origina dal modo stesso in cui si è realizzata l’Unità nazionale e si è formato lo Stato Unitario.

E’ la conseguenza diretta, cioè, del prevalere, in quel processo, del modello centralistico Sabaudo a scapito di quello federalistico auspicato dal Cattaneo. Da quel momento il dualismo economico e sociale, che già esisteva nei fatti, si è  aggravato sino a divenire una caratteristica strutturale permanente dello Stato Italiano.

E’ esattamente per questo che la questione meridionale si definisce come questione nazionale, anzi come la questione nazionale per eccellenza. Ed è sempre per questo che essa può trovare soluzione soltanto nell’ambito di un grande processo di democratizzazione, di rinnovamento e di modernizzazione (cioè di riforma) dello Stato e della intera società italiana cui il Mezzogiorno nel suo complesso deve concorrere  attivamente.

Detta in modo meno solenne: il Mezzogiorno non aveva e non ha bisogno (soltanto) di assistenza ma ha bisogno di riforme: di una grande riforma istituzionale, economica e sociale ma, forse, anche, di una riforma morale ed intellettuale (Gramsci).

Questo nesso fra politica di riforme e sviluppo del Mezzogiorno a partire dal 92 è stato semplicemente ignorato e le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Si è cominciato con una ridicola esaltazione e sopravalutazione del localismo e delle sue potenzialità.

Dovendosi dismettere gli strumenti dell’intervento straordinario (Cassa del Mezzogiorno e PPSS) dei quali si era abusato al punto di snaturarli, le classi dirigenti hanno puntato sugli inesistenti “animal spirits” locali, sul decentramento più sconclusionato (riforma del Titolo V della Costituzione), sulla moltiplicazione di Istituti, Enti e Società locali alle quali affidare la promozione dello sviluppo dei rispettivi territori.

Si è inventata la Programmazione “dal basso” (un ossimoro oltre che una stupidaggine). Si è immaginato che i Patti Territoriali o i Contratti d’Area potessero sostituirsi alle PPSS o allo Stato nella attrazione degli investimenti o nella utilizzazione ottimale degli incentivi. Un errore colossale, una dismissione di responsabilità che ha favorito l’emergere di un ceto politico locale famelico e incapace e, da ultimo, persino patetico come dimostra il caso Crocetta o sbruffone come rischia di diventare Emiliano. E’ questa la deriva che bisogna fermare e l’unico modo per farlo è avviare in tutti i campi e simultaneamente un incisivo processo riformatore. Su questo Renzi ha ragione da vendere.

Dal mercato del lavoro alla scuola, dalla P. A. alle istituzioni locali, dal credito alla giustizia: in tutti questi settori e in altri ancora è indispensabile innescare un processo riformatore che duri nel tempo e che miri a cambiare il contesto, a renderlo più democratico ma anche più efficiente e civile. Di questo il Mezzogiorno ha oggi bisogno. Non basta risvegliare gli animal spirits imprenditoriali ma si deve risvegliare l’intera società civile.

E’ un problema meridionale ma anche nazionale. Vale per Napoli ma anche per Roma. Il vero aiuto che il governo e il Parlamento possono dare al mezzogiorno è perciò quello di avviare le riforme.

E’ sufficiente questo per uscire dalla crisi economica? No, non basta. Servono anche infrastrutture e investimenti ,sia pubblici che privati. Ma questi investimenti verranno soltanto se cambia davvero il contesto. In un diverso contesto avrebbe allora senso anche  ripensare a strumenti di carattere straordinario.

La Cassa del Mezzogiorno non è più proponibile. Ma una grande, super qualifica e trasparente stazione appaltante per opere pubbliche di interesse nazionale potrebbe invece avere un senso. L’ANAS ci sta pensando per le strade. Perché non si pensa a qualcosa di analogo anche per altre opere? Anche le PPSS non sono riproponibili  per lo scempio che di loro ha fatto la politica piegandole (Fanfani) a finalità che non sono e non potranno mai essere quelle di una impresa, sia essa privata, cooperativa o pubblica.

Ma un uso intelligente e mirato dei co-investimenti fra imprenditori privati Italiani o esteri e finanziarie pubbliche è certamente possibile e auspicabile. Tutto diventa ragionevole e possibile se si rompe la stagnazione che grava sul mezzogiorno, stagnazione che non è soltanto economica ma è anche e soprattutto politica e culturale  e nel senso più alto (gramsciano) del termine, morale.

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