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I derivati: croce o delizia della finanza?

Future, swap, opzioni, forward rate agreement: servono a ridurre i rischi finanziari o ad accrescere il volume di fuoco dlla speculazione? La questione è aperta: dipende da come si usano – Ma colpisce che i contratti derivati valgano circa 670 trilioni di dollari, cioè 10 volte il Pil mondiale, e che il 90% venga trattato su mercati non regolamentati

I derivati: croce o delizia della finanza?

A seconda della circostanza in cui li si pensa i prodotti derivati danno sensazioni molto diverse. Fino a qualche anno fa – certamente prima dello scoppio, nel 2007-08, della Grande Crisi – la maggior parte degli osservatori ne esaltava le grandi virtù di rendere più efficiente la gestione dei rischi. Oggi, invece, la visione prevalente dà alla finanza derivata una connotazione negativa. Insomma, nella percezione predominante, derivati e finanza strutturata sono passati da “creatori” a “distruttori di valore”. Era esagerato il fulgore che a questi strumenti si assegnava in passato? Certamente sì. È però eccessivo connotarli così negativamente come si fa oggi? Forse sì. Come al solito, per poterne capire di più bisogna scendere in qualche dettaglio.

I derivati sono contratti che si diffondono dagli anni Ottanta al fine di coprire i rischi finanziari. Le principali famiglie contrattuali di derivati sono: futures; forward rate agreement; swap; opzioni.

I futures impegnano a comprare o vendere una certa attività (finanziaria o reale) a una specifica scadenza e a un prezzo prefissato; quantità e scadenze sono standardizzate nel contratto. Qui il movente di copertura del rischio discende dalla seguente considerazione. Supponiamo che mi impegni a comprare tra tre mesi dalla ditta Arturo Cereali una certa quantità di grano al prezzo di 100. Così facendo ho reso certi già oggi i costi futuri della materia prima per la mia impresa molitoria, però mi sto esponendo a un altro tipo di rischio: quello che tra tre mesi il prezzo del grano sia sceso sotto 100, diciamo a 80. Se ciò accade, tra tre mesi pagherò 100 quello che sul mercato in quel momento vale 80, cioè sopporterò una perdita all’incirca del 20%. I futures mi aiutano a superare questo problema. Infatti, stipulando un future nel quale tra tre mesi una terza controparte, diciamo la Allevamenti Orsi, si impegna ad acquistare da me al prezzo di 102 quella stessa quantità di grano che acquisterò proprio allora al prezzo di 100 mi assicuro contro la caduta del prezzo del grano. I futures si distinguono a seconda della attività sottostante: quando sono su un’attività finanziaria parleremo di financial futures; quando si tratta di titoli a reddito fisso, di interest rate futures; quando riguardano attività in valute estere, di currency futures; se stipulati su indici azionari, di stock index futures; se riferiti a materie prime o alimentari di base, di commodity futures. I forward  rate agreement, swap e opzioni costituiscono varianti, più o meno evolute, dei futures, ma, pur tecnicamente differenti, si muovono nella stessa logica di base.

Il complesso dei contratti derivati in essere era stimato, alla fine del 2010, intorno ai 670 trilioni di dollari, ovverosia quasi dieci volte il valore del PIL mondiale. Considerando gli effetti benefici della copertura dei rischi implicita nel discorso precedente, si potrebbe dire che questa intensa espansione dei derivati ha fatto bene all’economia mondiale. Ebbene, le cose non stanno esattamente così. Infatti, oltre a essere strumenti di copertura dei rischi, i derivati possono essere usati anche per accrescere il volume di fuoco della speculazione. Ciò avviene perché quando si stipula un derivato del valore nominale di 100 i fondi propri che vengono impegnati variano tra un minimo di 2 e un massimo di 7. Vale a dire, avendo a disposizione fondi propri per 10 dollari si può riuscire a sottoscrivere contratti derivati fino a un massimo di 70 dollari, se si applica l’impegno del 7%, e addirittura fino a 200 dollari se vale l’impegno del 2%.

Ovviamente, in caso i derivati siano usati non a fini di copertura ma di mera speculazione, questo enorme effetto leva è un’arma a doppia valenza. Se le cose vanno bene – cioè se il mercato si muove nel senso verso cui si è speculato – vi saranno enormi profitti. Ad esempio, se ho investito i miei 10 dollari in derivati di acquisto su una certa attività che prevedono assenza di variazioni del prezzo di quella attività e poi, in effetti, il prezzo dell’attività sale del 2%, porterò a casa un profitto di 4 dollari (avendo sviluppato una posizione speculativa complessiva di 200 dollari) che dà un 40% di rendimento sui 10 dollari di capitale investito. Ma se, invece, il prezzo cala del 5% si matureranno perdite pari a 10 dollari, tali da azzerare il capitale, e ogni calo superiore al 5% determinerà perdite che, superando il capitale investito, possono portare al dissesto dell’investitore. Per inciso, vale la pena di ricordare che fu proprio questo meccanismo sfavorevole a portare al dissesto, nell’estate del 1998, di Long Term Capital Management, fino a quel momento il più grande fondo hedge della storia e anche quello di maggior successo, ispirato dagli algoritmi dei partner Robert Merton e Charles Scholes, ambedue premi Nobel per l’economia per i contributi alla teoria della finanza.

Dunque, se i derivati sono usati esclusivamente in funzione di copertura nulla questio, ma se sono usati anche per fomentare la speculazione possono contribuire a portare il sistema finanziario sul lastrico. E vale un’altra importante considerazione riferita a come avviene il trading dei derivati. Se si realizza su mercati ufficiali, multilaterali e vigilati, è meno probabile che prevalgano le operazioni guidate dal movente speculativo. Invece, si deve osservare che la quota di scambi su derivati realizzata sulla base di transazioni bilaterali e/o su mercati non ufficiali (Over the Counter – OTC) è di gran lunga dominante: sempre con riferimento al 2010, tale quota superava il 90%.

Le riflessioni che precedono riguardano il mercato mondiale nel suo complesso. Però, negli anni recenti, il ricorso ai derivati ha assunto in Italia connotazioni decisamente più negative. Si è spesso discusso dei danni provocati alle imprese che, spesso con insufficiente consapevolezza, avevano sottoscritto swap d’interesse e/o valutari rivelatisi forieri di ampie perdite. Sono emersi molti problemi sull’uso dei derivati da parte delle Amministrazioni Pubbliche locali e anche centrali. Da ultimo, sono entrati nell’occhio del ciclone nell’affare Monte dei Paschi alcuni contratti derivati dal nome esotico che, si dice, erano stati pensati per occultare perdite diluendole nel tempo. Su quest’ultimo aspetto, per quanto filtra attraverso i media, mi pare inopportuno elevare al rango di contratti derivati dei contratti stipulati su base bilaterale tra MPS e singole banche d’affari con il precipuo obiettivo di truccare i conti della banca. Infatti, nessuno, neanche per un momento, ha mai pensato che questi contratti sarebbero stati suscettibili di scambi su un qualsiasi mercato, attributo che invece doveva valere se si fosse trattato di derivati “veri”; al contrario, sempre stando ai mezzi di informazione, tali contratti furono scritti in gran segreto e poi tenuti ben occultati. Perciò, in questo caso, è fuorviante parlare di derivati.
Riguardo a derivati e PA, il fenomeno si è diffuso negli anni scorsi perché gli enti pubblici trovavano conveniente ricorrere ai derivati per attenuare gli effetti restrittivi del Patto di stabilità interno. Purtroppo, molti di questi derivati si sono rivelati contratti capestro per gli enti locali che li avevano sottoscritti. Forse punta dell’iceberg, con una sentenza da molti giudicata storica, a dicembre scorso il Tribunale di Milano ha condannato in primo grado quattro banche estere – Deutsche Bank, Depfa Bank, Ubs e JP Morgan – per truffa aggravata per oltre 100 milioni di euro ai danni del Comune di Milano, in relazione a operazioni su contratti derivati, irrogando a ciascuna banca una sanzione da un milione di euro. Sebbene sia difficile quantificare il fenomeno, a settembre 2012 la Banca d’Italia stimava che 210 enti locali erano esposti con banche italiane su strumenti di finanza creativa per una cifra superiore agli 11 miliardi su cui è maturata una perdita potenziale di 6,2 miliardi.  Perciò il fenomeno è tutt’altro che irrilevante.

Relativamente alle imprese non finanziarie, sempre la Banca d’Italia ha rilevato nel corso del 2011 un’esposizione in derivati per oltre 42 mila imprese, con un’esposizione alla fine del periodo di circa 7,4 miliardi di euro. Anche in questo caso si tratta di valori che, in caso di evoluzione negativa potrebbero generare rilevanti perdite.

Dai ragionamenti precedenti si possono trarre due lezioni. Primo, gli strumenti derivati possono essere utili, creando valore per le controparti coinvolte, ma possono al contrario contribuire a generare perdite e fomentare instabilità. Tutto dipende da quanto i derivati sono effettivamente usati in funzione di copertura di rischi, la missione per la quale furono concepiti all’origine, oppure vengono funzionalizzati ad alimentare la speculazione. Secondo, il prevalere del ruolo (positivo) di creazione di valore su quello (negativo) di distruzione di valore in capo ai derivati dipende da una complessa interazione tra grado di educazione finanziaria – e, dunque, di consapevolezza – da parte di enti pubblici e imprese sottoscrittori, dal quadro istituzionale e regolamentare (che dovrebbe imporre più di quanto non faccia l’attrazione degli scambi su mercati regolamentati) e anche dalla corretta deontologia degli intermediari nel proporre la sottoscrizione di questi strumenti. In sostanza, i derivati servono se sono “integri”, altrimenti potrebbe esser meglio farne a meno.

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