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I Beatles sono tornati grazie a Peter Jackson

La docuserie su Disney+ è come una macchina del tempo che ci consente di capire le porsonalità e il lavoro dei Fab Four

I Beatles sono tornati grazie a Peter Jackson

La docuserie di Peter Jackson dal titolo The Beatles – Get Back su Disney+ è una macchina del tempo. Jackson è l’artista neozelandese che ha creato la trilogia del Signore degli anelli e poi installato a Wellington (Nuova Zelanda) uno dei più grandi laboratori di computer grafic e di intelligenza artificiale del mondo.

Nelle otto ore di filmati d’epoca, molti inediti, restaurati e messi abilmente e pazientemente insieme da Jackson in Get Back, ci sono moltissimi spunti per capire le personalità, il lavoro e l’arte dei Fab Four. Che i Beatles siano un fenomeno epocale è ormai un truismo. I ragazzi di Liverpool sono più di una band, sono case studies inseriti nei curricula delle scuole di business.

La Apple Records derivò il suo nome, come ci ricorda Paul McCartney, dai dipinti di Magritte che raffiguravano una mela verde in situazioni improbabili. La Apple, a sua volta, deve il suo nome alla casa discografica dei Beatles, un mito per i fondatori. “Il mio modello di business sono i Beatles” soleva dire Steve Jobs.

GENNAIO 1969

Il momento dei Beatles che documenta Peter Jackson e lo rielabora con intelligenza e con accuratezza filologica è particolare. Siamo gennaio del 1969: l’anno inizia con l’idea di mettere su un concerto dal vivo e uno speciale televisivo di altissimo profilo (14 nuove canzoni, e un concerto in un luogo specialissimo come, per esempio, la Camera dei Lord) e finisce con qualcosa di meravigliosamente profilo più basso, ma geniale. 

La performance improvvisata e non autorizzata all’ora di pranzo su un tetto nel centro di Londra (il terrazzo della Apple Record, a Saville Road) bruscamente interrotta dai bobbies per disturbo alla pubblica quiete. 

Un atto che ricorda al mondo la maestosità, la spontaneità e la genialità della band. “Spero che abbiamo superato l’audizione”, dice Lennon alla fine dello spettacolo.

Questo periodo era già stato il soggetto di “Let It Be”, un film vérité del 1970 di Michael Lindsay-Hogg; la colonna sonora del film fu anche l’ultimo LP in studio dei Beatles. Si è guardato a quel film come il triste documento del collasso della band, e i ricordi dei quattro Beatle sembrano avvalorare questo sentimento. Lennon descrisse le sessioni documentate in Get Back come “inferno”, e Harrison le definì “l’inverno dello scontento” del gruppo.

Il lavoro di Peter Jackson cambia un po’ questa prospettiva univoca e getta un luce nuova su tutta questa vicenda. Il regista neozelandese ha avuto accesso a quasi 60 ore di filmati inediti posseduti dalla Apple Corps, la società dei Beatles, senza un mandato preciso, ha riferito Jackson: semplicemente gli è stato chiesto di restaurare le riprese grezze e metterle insieme, rispettando l’intento documentaristico del progetto.

GET BACK, LA NOVITÀ

In effetti Get Back ci dàqualcosa che prima non avevamo sui Beatles. Sono otto ore di pura creazione. E questo stato creativo non sembra proprio il canto de cigno dei Beatles, quanto la testimonianza di una band al suo massimo grado di maturità e anche di cameratismo. Vediamo i Beatles prendersi in giro a vicenda, scherzare, mimare accenti snob ed eseguire scenette che sembrano uscite da un episodio di “Monty Python”.

Non mancano certo i momenti di tensione come quando Harrison abbandona le prove stufo di essere un comprimario e il gruppo entra in crisi, si percepisce il nervosismo la tensione nei toni e nei gesti dei presenti (c’è anche l’onnipresente Yoko Ono, considerata da molti l’artefice della rottura del gruppo).

In una nota alla riedizione dell’album Let It Be, McCartney scrive che il film originale, cioè Let It Be, “era piuttosto triste perché mostrava lo scioglimento della band, ma il nuovo film mette in luce il cameratismo e l’amore che noi quattro avevamo l’uno per l’altro”. 

Viene allora da chiedersi, anche alla luce delle parole di McCartney e delle vicende che effettivamente portarono alla separazione, se la band fosse gioiosa e creativamente feconda, oppure stufa della reciproca compagnia umana e artistica. La risposta potrebbe essere: entrambe le cose. Ma lasciamo questo dubbio ai cultori della storia dei Beatles e ai fan che continuano a interrogarsi, senza rassegnarsi, sulle ragioni della divisione del gruppo. In Get Back si può cercare anche altro.

E il trovare anche altro rende speciale la serie di Jackson. In che senso?

IL SALE DI JACKSON

Jackson non ha solo collazionato e curato un immenso materiale d’archivio inedito. Piuttosto, come scrive Jere Hester sul “New York Times”, Jackson, pur senza forzare l’intenzione di restare nel cinéma vérité, ha fatto una cosa diversa e migliore: “ha cucito ore e ore di riprese grezze in una propria trama creativa profonda e multidimensionale”. 

Quella di Jackson è, in ultima analisi, la rappresentazione analitica di un processo creativo-collaborativo che cristallizza un metodo ben preciso: iniziare con un’intuizione, lasciare che Paul metta giù due note mentre aspetta l’arrivo di John, proseguire con improvvisazioni di George e Ringo; … la session va avanti per ore, intanto è arrivato John, e termina con una magia.

Tutto questo sotto l’immensa pressione del mondo esterno che si aspetta la luna da ogni nuovo disco della band già scossa da dissidi e da differenti prospettive di vita che di lì a pochissimo li avrebbero divisi per sempre.

LEZIONI DI CREATIVITÀ

Il film di Jackson contiene alcune preziose lezioni di comportamento creativo che Jere Hester ha saputo ben estrapolare in un bell’articolo sul “New York Times” dal titolo ‘Improvise It, Man.’ How to Make Magic Like the Beatles. Ve ne riassumiamo qualcuna con l’aiuto di Hester, autore anche di un libro sui Beatles e loro profondo conoscitore.

Ripetere e provare e se non funziona ripetere ancora

Le prove per affinare i testi del pezzo Don’t Let me down, per esempio, e trovare i giusti arrangiamenti musicali sono infinite, estenuanti e massacranti (sembrano gli incontri di “Rocky”). È questo ripetere e ripetere che infonde alla band la fiducia necessaria per portare lo spettacolo sul tetto. Mentre salgono su Paul dice “La parte migliore di noi – lo è sempre stata e sempre lo sarà – è quando ci mettiamo con le spalle al muro e proviamo, proviamo, proviamo”. Lassù, poi, danno il massimo per 42 minuti, fino a quando i bobbies mettono fine alla performance del secolo.

LAVORARE DURO, ANZI DURISSIMO

Il gruppo è puntuale, disciplinato, focalizzato e concentrato durante le prove nello sforzo di trovare le parole che servono e suonare l’armonia giusta. Nonostante la birra e il vino, c’è quella che oggi chiameremmo (con termine forse compromesso) una “professionalità” immensa. Altro che bravi ragazzi di Liverpool! Sembrano un commando dei Lagunari.
“Errare senza meta è assai poco swinging”, dice McCartney. “Molto, molto vecchia maniera”, ripete. Paul è il grillo parlante del gruppo e anche il suo stakanovista.

PENSARE IN GRANDE

All’inizio del film McCartney cerca di convincere il gruppo a comporre in 17 giorni ben 14 nuovi pezzi per presentarli in uno speciale televisivo. La proposta crea tensione e Harrison entra in crisi ed esce di scena (per poi ritornare). Pensare in grande spezza la schiena, ma è fruttuoso. Apre nuove possibilità creative e reali e se si associa al ruota libera – i Beatles, per esempio, favoleggiano cercando un luogo non convenzionale dove tenere il concerto –, getta i semi del frutto che verrà. Per il concerto dal vivo sarà poi scelta la terrazza-tetto della Apple Record nell’edificio di Savile Row, nel cuore di Londra (dove si terrà il 30 gennaio 1969). L’intero concerto è documentato nel film di Jackson.

MIXARE STRUTTURAZIONE E IMPROVVISAZIONE

Quando McCartney si inalbera a capetto della band e cerca di metterla in riga, Lennon e Harrison si irritano, non tanto per ragioni di potere quanto perché Paul infrange un modo di lavorare fatto di improvvisazioni spontanee e condivise, senza prevaricazioni. Quando McCartney abbandona il ruolo di capoclasse, che gli viene spontaneo, si rilassa e la musica prende forma attraverso la jam session a cui tutti contribuiscono. Da lì nasce la spina dorsale del pezzo.

QUANDO IL GIOCO SI FA DURO, FARE SQUADRA

Anche mentre questionano tra loro nel caliginoso studio di Twickenham prima che Harrison lasci, i Beatles si stringono a coorte come se fossero di nuovo sul piccolo palco del Cavern Club di Liverpool, dove suonavano insieme prima di raggiungere il successo.
Gli amici di lunga data, membri della band più famosa del mondo, si parlano a malapena ma suonano, cantano e “riffano” l’uno sulle idee dell’altro. Tra i tanti casi: I’ve Got a Feeling, l’ultima vera composizione Lennon-McCartney. Come John Lennon disse più tardi, “Tutto quello che abbiamo siamo noi”. Difficilissimo essere noi. Una grande meta, facile da smarrire.

CAMBIARE SCENARIO AIUTA

Dopo che Harrison torna nella band (e viene abbandonata l’idea di prendere Eric Clapton in sua vece) e il progetto dello special televisivo è messo da parte, i quattro ragazzi di Liverpool si riuniscono nell’angusto seminterrato della Apple Records, e lì iniziano ad improvvisare, scherzano, si sciolgono e la musica sgorga senza sforzo.
“State lavorando così bene insieme”, dice il produttore discografico George Martin a Harrison. “Vi guardate, vi vedete? Sta succedendo davvero!”

IMMETTERE SANGUE FRESCO

L’arrivo del tastierista Billy Preston migliora l’atmosfera e unisce il gruppo. Lo spirito creativo ravvivato da Preston si irradia oltre la band — ai vocalizzi estemporanei di Yoko Ono e a Linda Eastman che cattura le session con degli scatti. Ognuno ci mette il proprio marchio creativo. Ringo passa dalla batteria al piano per scrivere Octopus’s Garden.
John Lennon invita Preston a diventare un Beatle, e George chiede di estendere l’invito a Bob Dylan. McCartney la butta sull’umorismo: “È già abbastanza terribile essere in quattro”.

MORALE

Niente dura per sempre al di fuori dell’arte, ci dice Get back. I Beatles non volevano terminare tutto quello che avevano costruito insieme. Erano però determinati a cambiare lo stato delle cose per andare avanti. E Jackson ci mostra lo strazio di questi quattro ragazzi, non ancora trentenni, che vogliono crescere senza allontanarsi l’un l’altro non solo sul piano creativo.

Quando George si allontana e non si sa se tornerà, Paul sogna un futuro ritrovarsi di quattro amici (al bar?) e John più ambiziosamente dice: “Quando saremo tutti molto vecchi, torneremo ad essere d’accordo e canteremo di nuovo insieme”.

Non è successo. Però grazie al bellissimo lavoro di Jackson, possiamo vedere la band suonare di nuovo insieme e andare alla fonte dell’ispirazione che ha reso i Beatles la più grande forza creativa della cultura pop di tutti i tempi.

Non è una visione facile quella di Get Back, come non lo sono i film di Andy Warhol o il cinema sperimentale di New York che ha nutrito l’immaginazione dei Valvet Underground (ottimo film di Todd Haynes su Apple Tv+). Se però suonate in una band Get Back è pappa reale.

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