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I banchieri in coro: tassi su ma con cautela. Frena il Tech, sale la finanza

La settimana delle Banche Centrali – ben 18 si sono riunite – si chiude lasciando poche certezze agli investitori. La musica è cambiata, i tempi della stretta sui tassi si vedranno. Ma la Borsa già si muove rilanciando i finanziari e ridimensionando il Tech

I banchieri in coro: tassi su ma con cautela. Frena il Tech, sale la finanza

Non tutto è andato per il verso giusto, ma accontentiamoci: il peggio è stato evitato. È giunta l’ora, però, di cambiare musica. È il messaggio uscito dal coro delle banche centrali, 18 in tutto, che si è esibito in settimana un po’ a tutte le latitudini. Compresa la bizzarra eccezione della Turchia di Erdogan che, come dichiara al Financial Times il professore Refaat Gutkaynak dell’università di Ankara, “se non fosse per le sofferenze che sta infliggendo a 84 milioni di turchi, andrebbe applaudito per l’affascinante e folle esperimento economico in atto”. Trattasi ora di capire se finirà prima in galera l’economista oppure se verrà cacciato il Sultano che pretende di combattere l’inflazione abbassando i tassi. 

Per gli altri governatori la medicina non può che passare dall’aumento del costo del denaro, preceduto dal taglio degli aiuti utilizzati nel corso degli ultimi due anni per attutire l’impatto della pandemia. Si comincerà dai Paesi più legati all’energia (vedi la Norvegia) o più sensibili al rialzo del dollaro (vedi il Messico). E dal Regno Unito che, comunque, si limiterà ad un modesto +0,1%, buono sul piano psicologico più che efficace a fronteggiare la crisi di credibilità dell’esecutivo. Poi, in primavera, si muoverà la corazzata americana, trascinando con sé la maggior parte dei satelliti. Infine, sarà la volta della Bce che per il 2022 si limiterà a ridurre progressivamente gli aiuti, sperando che la ripresa economica da sola permetta di tamponare gli effetti dell’impennata del debito pubblico.

Una terapia adottata a malincuore dopo aver sostenuto per mesi che l’inflazione altro non era che un fenomeno “transitorio” destinato a rientrare dopo una fase eccezionale legata ai guasti provocati dalla pandemia. Ma, ahinoi, la realtà non ha obbedito ai desideri della politica. Complici le varianti del virus ed i vari colli di bottiglia che hanno frenato la crescita, i prezzi hanno preso la via della salita e le previsioni si sono rivelate una dopo l’altra sbagliate: il Covid non è ancora debellato; la crescita si è progressivamente ridotta sia in Cina che negli Usa, oltre che nella locomotiva tedesca. I prezzi viaggiano al doppio, se non di più, di quanto già stimato. Intanto l’azionario, approfittando dei tassi bassi, ha continuato a gonfiarsi e ha permesso agli indici, aiutati anche dagli ottimi utili societari, di andare ben oltre le previsioni di inizio anno. 

Di qui la necessità da parte della Fed di elaborare una strategia alternativa, agitando l’arma dei tre aumenti dei tassi all’anno per il triennio 2022/24 ma con un’avvertenza trasmessa ai mercati: siamo pronti a tornare indietro se la terapia si rivelerà troppo forte. L’economia, a detta dei banchieri, è ancora troppo fragile per procedere con le proprie forze senza stampelle di vario tipo.  Più in generale è il mondo alle prese con la pandemia, alle prese con le tensioni geopolitiche (il gas ucraino in testa) che minacciano di esplodere a più latitudini, non può concedersi il lusso di una battaglia all’ultimo quartiere contro l’inflazione. La sensazione è che al primo segnale di difficoltà della crescita, il programma dei rialzi verrà interrotto quale che sia in quel momento il livello dell’inflazione. In Usa dove la Fed (rimpolpata da febbraio da nuovi banchieri ancor più colombe) non esiterà a rinviare i rialzi in caso di bisogno, come desiderano i democratici, per ora preoccupati dal prezzo della benzina ma pronti a cambiar rotta se lo imporranno le esigenze del made in Usa. Ancor di più in Europa. Certo anche Francoforte ha aumentato (per la quinta volta) le stime sull’inflazione nel 2022 ma ha al tempo stesso ribadito che i tassi rimarranno inchiodati a zero: la priorità resta la crescita, non l’inflazione.

I mercati si sono subito sintonizzati con questo sentiment un po’ ondivago all’insegna del “vorrei ma non so finché potrò”. Immediata la punizione dei titoli tech, da anni abituati ad abbondanti iniezioni di denaro a costo vile: perde colpi Apple, ancor di più la Tesla di Elon Musk, l’uomo dell’ultimo anno ruggente. Rivian, la matricola dell’anno elettrica prezzata 93 miliardi all’esordio, lascia sul terreno il 9% dopo aver annunciato di non aver raggiunto la produzione dei primi 1.250 pezzi. 

Altrettanto eloquente l’ascesa del settore bancario, avvantaggiato dalla ripresa dei tassi. Alla caduta del Nasdaq (giovedì sera -2,50%) ha corrisposto il rimbalzo delle Banche statunitensi (giovedì sera +1,1%) a piena conferma del nuovo scenario dipinto dagli ultimi interventi delle banche centrali. L’Europa ha seguito a ruota: le Banche europee sono diventate giovedì il miglior settore da inizio anno con un guadagno del 30,50% contro +27% dei Tech, secondo miglior settore.

Sarà questo il copione del 2022? Gli esperti hanno drasticamente abbassato le attese di guadagno per l’anno a venire: i più prevedono oscillazioni tra -5-10% e uno stentato pareggio. All’interno del quadro, però, non dovrebbero mancare le buone occasioni sui listini specie se discese troppo marcate faranno scattare la rete di protezione che le banche centrali possono riattivare quasi in tempo reale (come hanno sottolineato sia Powell che Christine Lagarde). Ma, in prospettiva, si profilano tempi contrastati. Già nel 2023 i mercati potrebbero iniziare a preoccuparsi per la combinazione tossica di inflazione che rimane alta, crescita che perde velocità e tassi più alti. Potrebbe trattarsi di un atterraggio morbido ma le incognite non mancano. Inutile, però, fasciarsi la testa fin d’ora: godiamoci il rally di Babbo Natale, con buona pace del vescovo di Noto che ne contesta l’esistenza. 

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