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Guerra dopo il primo anno: “L’Ucraina deve recuperare tutto ma non è detto che sia subito”. Parla Politi (Nato Foundation)

INTERVISTA A ALESSANDRO POLITI, direttore della NATO Defense College Foundation – “Abbiamo di fronte uno scenario da Prima guerra mondiale” – “La storia dei carri armati è stata fortemente simbolica” e gli ucraini sanno che “il recupero del territorio non può avvenire con un sacrificio di soldati illimitato: meglio una strategia di lungo respiro e non una guerra come se non ci fosse un domani.” – “L’Europa si sta dissanguando e un’Europa senza soldi è di poco aiuto a Kiev”

Guerra dopo il primo anno: “L’Ucraina deve recuperare tutto ma non è detto che sia subito”. Parla Politi (Nato Foundation)

La guerra nel cuore dell’Europa iniziata lo scorso anno dai russi con l’invasione dell’Ucraina si è avvitata in un braccio di ferro che lascia prevedere solo che essa continui a essere lunga e dolorosa. Intanto tutto è fluido e incerto sul terreno, russi e ucraini combattono metro per metro nel Donbass, ora prendendo un villaggio, ora lasciandolo. Perfino il numero delle vittime cambia di volta in volta. 

Quelle ucraine, ammontano a 20mila o a 7mila fra i civili, a seconda che a contare i morti sia l’Ue o l’Onu; e 60mila o 12mila fra i militari se i numeri li dà il governo di Mosca o quello di Kiev. Così come sono diverse le cifre che riguardano le vittime russe: sono oltre 120mila secondo Kiev, nemmeno 6mila per Mosca.

Il numero dei profughi invece non è contestato. Dice l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, che sono oltre 6 milioni di persone, la più grande crisi di profughi dalla Seconda guerra mondiale, la maggior parte dei quali sono scappati in Polonia. Ed è innegabile il disastro economico in cui è precipitato l’Ucraina: secondo le cifre fornite dalla Banca Mondiale lo scorso ottobre, i danni diretti e indiretti provocati dalla guerra sono pari a 350 miliardi di dollari, più di 1,5 volte il Pil del 2021.   

Questa è la foto ufficiale dei risultati del primo anno di guerra, cristallizzata martedì dai discorsi di Biden da Varsavia e Putin da Mosca, in cui ciascun leader ha riproposto la propria posizione nel conflitto, senza fare un passo avanti per mettervi fine.

Ne parliamo con un acuto studioso di politica estera, Alessandro Politi, direttore della NATO Defense College Foundation, docente di geopolitica e di intelligenze presso la Sioi, la scuola che forma i diplomatici italiani, consigliere di quattro ministri della Difesa, attento osservatore degli assetti di politica internazionale.

Professor Politi, la guerra in Ucraina sembra aver spazzato via in un solo colpo la retorica delle “nuove guerre” degli ultimi trent’anni, quelle “chirurgiche”, a “bassa intensità”, a “costo zero”: che scenario abbiamo di fronte a 12 mesi dall’invasione russa?

“È uno scenario da Prima guerra mondiale, dove si muore senza sosta e non si vedono luci in fondo al tunnel. È vero, ci sono stati alcuni combattimenti piuttosto sanguinosi nel Donbass, con qualche successo russo, ma nessuno sfondamento spettacolare. D’altronde lo stesso Prigozhin, il capo dei mercenari della Wagner, ha detto che la situazione sul fronte è molto difficile. Alcune considerazioni però si possono fare. La prima: dal punto di vista strategico Putin ha già perso la guerra. L’ha persa quando non è riuscito a schiantare l’Ucraina nei primi giorni dell’invasione che lui riteneva lampo, perché, come si è visto, ha trovato una compatta resistenza che non si aspettava. E per lo stesso motivo l’Ucraina l’ha già vinta, perché ha dimostrato la solidità del suo senso nazionale e civico. Questo però dal punto di vista militare, si è tradotto nel fatto che dopo le prime puntate meccanizzate fallite, si è passati abbastanza presto a scavare le trincee. E ci si mette in attesa. Scenario da Prima guerra mondiale, appunto”.

Ma se agli ucraini arrivano le armi necessarie a nuovi assalti, non cambierà la situazione? Il presidente Zelensky ne è convinto.

“Posso essere franco? Questa storia dei carri armati è stata fortemente simbolica. Partiamo dal fatto che i carri armati che per ora arriveranno in Ucraina sono pochi. Ne sono stati promessi 88, diciamo pure 100, ma anche se fossero dislocati nei punti giusti del terreno e fossero usati in maniera perfetta, non è che detto che essi risolvano l’esito della guerra. So che adesso gli annunci delle cifre fanno salire i numeri a 300 (faccio notare che il solo VII corpo d’armata statunitense in Kuwait ha schierato più di 500 M1A1 Abrams per raggiungere risultati decisivi, di cui 355 in una sola divisione corazzata). In secondo luogo: i carri in questione richiedono una logistica importante, senza di essa non si va avanti. E i carri americani sono quelli meno adatti perché sono complicatissimi da mantenere. Inoltre, Biden li farà costruire perché non vuole intaccare i propri arsenali. Pensa cioè, come è ovvio, prima alla sicurezza del suo Paese, poi a quella dell’Ucraina. Una stima molto approssimativa calcola dai 9 ai 12 mesi tra produzione, addestramento e rischieramento in teatro. Quale sarà il tempo reale di addestramento? Buona domanda”. 

Dove ci porta questo ragionamento?

“Una valutazione della situazione porta a pensare che Zelensky può chiedere armi per un’offensiva dai risultati difficilmente decisivi (visto che gli è anche proibito portare guerra sul territorio del nemico), sapendo però che dovrebbe pensare all’incasso. Gli ucraini sanno che il recupero del territorio non può avvenire con un sacrificio di soldati illimitato. Se la storia può offrire spunti, basti pensare che il Piemonte, non fece l’Unità d’Italia in una sola guerra. Dopo la prima guerra perduta nel 1848 ci vollero più di dieci anni per la costruzione della prospettiva unitaria. E se vuole un altro esempio storico che ci riguarda: Roma è diventata capitale d’Italia ventiquattro anni dopo la Prima repubblica romana. Come si fanno piani di guerra per ogni contingenza, così è saggio farne di trattativa anche per situazioni sgradite. Se la guerra dovesse arrivare ad una pausa, qual è il territorio che più preme recuperare? Si può immaginare quello che congiunge la Russia alla Crimea perché l’Ucraina non può avere solo Odessa come singolo sbocco al mare e perché così si ha una situazione la più vicina possibile allo status quo ante. Questa pausa può servire a cose essenziali: ricostruire pezzi vitali dell’economia (sminare le terre arabili per esempi), rinforzare le forze armate e preparare le condizioni per poi entrare in Europa. Il futuro dell’Ucraina può essere ben diverso dal suo passato tormentato ed incerto e da un presente orribile, perché, in linea di principio ha scelto il campo delle democrazie”.

In Europa potrebbero entrarci lo stesso: con la guerra non si sono guadagnati una via più rapida?

“Credo che l’ingresso in Europa non sia, a torto o a ragione, un fatto di sangue: i popoli dell’ex Jugoslavia, tra cui i bosniaci ed i kossovari come aggrediti, hanno pagato questo pesante prezzo e non sono ancora inclusi. Tutti paesi fondatori dell’Europa non l’hanno fondata per il sangue passato, ma per la pace futura e duratura, su solidi valori che ancora oggi non sembrano sempre condivisi tra stati membri. Promettere scorciatoie, sapendo che i tempi concreti di assimilazione dell’acquis non sono realisticamente comprimibili, significa esporre i candidati a potenziali cocenti delusioni. Ci vogliono dieci anni solo per quelle che sono le condizioni in cui versa il Paese. E la guerra ha solo aggravato i problemi enormi che l’Ucraina aveva anche prima del conflitto, dal punto di vista delle regole economiche, sociali e democratiche. Abbiamo polemiche su passati allargamenti affrettati, abbiamo concreti problemi di riforma del sistema europeo: credo che l’Ucraina meriti di entrare in un’Europa che non sia un bancomat disfunzionale, forse non più così ricco”.

Che interessi ci sono per un allargamento affrettato?

“L’obiettivo è chiaro: indebolire l’intera struttura europea. L’Europa è una costruzione fragile, che affronta tensioni notevoli ogni volta che imbarca Paesi nuovi, ognuno con le sue questioni. Non penso sia utile a nessuno la situazione di uno stato membro che prenda i soldi europei, ma disprezzi l’Europa ed i suoi valori, oppure che insegua relazioni speciali con grandi paesi senza un concerto europeo. Bisogna capire che i rischi maggiori risiedono nelle eredità lunghe mentali e politiche, sovietiche o veteronazionaliste, talvolta con tendenze autoritarie; sarebbe paradossale lottare contro gli autoritarismi fuori dall’Unione e non prevenirli dentro”.

Che ruolo stanno svolgendo gli USA in questo conflitto?

“Sto dicendo che al di là delle entusiasmanti dichiarazioni degli ultimi giorni, gli americani non dimenticano che questa guerra per loro è meno importante della Cina. Certo, c’è l’emotività e anche il peso di parte importante dell’opinione pubblica americana, quella che grida: dai, un ultimo sforzo per i valorosi ucraini! Più che comprensibile perché accade anche da noi. Tuttavia, in certi ambienti si continua a registrare una certa allergia all’Europa, ritenuta non veramente virile e guerriera come altri: un mero assioma e pregiudizio. Questi ambienti purtroppo influenzano anche un dibattito serio e concreto sulla guerra, anche se Biden ha un’idea molto chiara di come venire incontro ad un sano legame transatlantico (come con le sue scelte con il cancelliere Scholz sui carri)”.

Messa così, la pace mi sembra di capire sia una parola straniera.

“La parola pace è una parola grossa, importante, difficile, ma non straniera, specie se si fonda sull’analisi fredda della situazione per tenere assieme l’essenziale. Questa guerra sta dissanguando l’Europa. Sarebbe opportuno parlare di cifre, ma ci basti ricordare che noi paghiamo il costo del sostegno finanziario agli ucraini, il costo delle nostre forniture di armi, il costo dell’inflazione generata dai picchi di speculazione e manovre sui beni energetici, il costo di una perdita di competitività manifatturiera perché il gas costa molto di più. Insomma, siamo il tacchino al pranzo di Natale. Questa guerra non corrisponde purtroppo a molti degl’interessi concreti dell’Europa e nemmeno, temo, della sostenibilità ucraina nel futuro. Un’Europa senza soldi è di poco aiuto a Kiev”.

Come se ne esce?

“È una situazione molto difficile, ma non impossibile da affrontare, con o senza il piano di pace cinese. Gli americani dietro le quinte danno sostegno certo, ma non illimitato ed i nostri partner ucraini sanno che è un fatto, come sanno che gli europei fanno il possibile. Molto è riposto nella controffensiva ucraina, ma sarebbe imprudente contare solo su di essa, come fanno intendere anche generali americani. La domanda è cruda: perché dissanguarsi se forse la pausa del conflitto può permettere un primo recupero importante, sempre se l’avversario russo vede il suo interesse? L’Ucraina deve recuperare tutto, anche nell’interesse supremo della sicurezza della NATO e dell’Europa, ma non è detto purtroppo che sia subito. È meglio una strategia di lungo respiro e non una guerra, come se non ci fosse un domani”.

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