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Giornalismo scientifico, come si cercano e si valutano gli studi scientifici

Durante il lavoro giornalistico può capitare di imbattersi in approfondimenti che prevedono la capacità di districarsi tra studi e pubblicazioni scientifiche. In assenza di una preparazione specifica o di un collega specializzato a cui chiedere aiuto, è opportuno attenersi a talune regole e principi per non rischiare di compromettere la correttezza dell’informazione

Giornalismo scientifico, come si cercano e si valutano gli studi scientifici

Navigare tra gli studi scientifici può essere un compito arduo, soprattutto per un giornalista. Provenire da un percorso formativo di tipo scientifico, a volte mitiga il disagio, ma in tutti gli altri casi, non c’è scampo: occorre apprendere lentamente da chi ha più esperienza e, perché no, partecipare a corsi e seminari organizzati da enti e associazioni di promozione della divulgazione scientifica.

Il punto di partenza è non peccare di presunzione: la scienza merita una cautela in più rispetto ad altre materie che sono oggetto di indagine giornalistica, soprattutto per le conseguenze che possono verificarsi a fronte di una comunicazione errata. Il compito del giornalista non è quello di vestire i panni del ricercatore o dell’esperto di turno, ma quello di compiere i dovuti approfondimenti rispettando tutti gli aspetti metodologici e deontologici dell’informazione scientifica. Per raggiungere questo obiettivo, un giornalista desideroso di raccontare la scienza in maniera corretta deve dotarsi degli strumenti giusti. Il primo ferro del mestiere è sicuramente la comprensione profonda del metodo scientifico, quindi occorre necessariamente addentrarsi nello studio delle caratteristiche delle pubblicazioni scientifiche, degli ambiti entro i quali avviene la pubblicazione e dei criteri generici di valutazione di questi lavori. Non tutti gli studi, infatti, sono valutati allo stesso modo. Alcuni possono essere basati su dati robusti e su metodologie solide, mentre altri possono essere più discutibili. È quindi fondamentale essere critici e valutare attentamente la qualità della ricerca prima di accettarne le conclusioni. Sempre sul piano delle conoscenze, un giornalista che ambisce ad essere un punto di riferimento per la narrazione tecnico-scientifica, è tenuto ad approfondire il concetto di “comunità scientifica“, per non avere alcun dubbio su estensione e confini. Come già enunciato in una precedente guida all’analisi critica delle informazioni, la comunità scientifica non è l’insieme di tutti gli scienziati o di tutti i ricercatori che si occupano di questa o quella branca delle scienze. Piuttosto è un concetto astratto che coinvolge persone, cose e situazioni, partendo da un gruppo di esperti, che svolge attività di ricerca organizzata con procedimenti metodici e rigorosi. Alla comunità scientifica, ad esempio, non appartiene un medico radiato dall’albo per condotta antiscientifica o deontologicamente scorretta. Non vi appartengono quegli scienziati che non danno più alcun contributo alla comunità, perché non si aggiornano o perché non si confrontano con i pari, nemmeno quelli che, invece di dibattere con i colleghi (che hanno le competenze per criticarli), si rivolgono direttamente alle persone comuni (che il più delle volte non hanno gli strumenti per muovere obiezioni). Non appartengono alla comunità scientifica di una determinata branca della scienza, tutti quelli che commettono trasgressioni epistemiche, salendo in cattedra in ambiti in cui non hanno competenze, criticando il lavoro di tutti gli altri scienziati che invece rimangono nei ranghi della propria specializzazione. Va da se che non appartengono (più) alla comunità scientifica tutti quegli scienziati che smettono di utilizzare il metodo scientifico, per non parlare di quelli che vengono colti ad ingannare la stessa comunità, ad esempio, utilizzando dati falsi, parziali o falsati.

Fatte queste premesse, la cassetta degli attrezzi si può ora arricchire di elementi più che tangibili, come ad esempio i motori di ricerca delle pubblicazioni scientifiche. Lo strumento più conosciuto, troppo spesso scambiato per una rivista scientifica vera e propria, è PubMed. Si tratta di un servizio gratuito che permette la ricerca di letteratura scientifica biomedica dal 1949 ad oggi all’interno di diversi database. Punto di riferimento per i ricercatori è invece “Scopus“, una banca dati immensa creata nel 2004 dalla casa editrice “Elsevier” che opera nella pubblicazione di testate in ambito medico e scientifico in generale. “Web of Science” fornisce l’accesso a più database allargando il campo alla ricerca interdisciplinare. Anche tramite Google Scholar è possibile fare ricerche interdisciplinari, ma in più si possono trovare tesi di laurea e dottorato, rapporti tecnici di tutti i settori della ricerca scientifica e tecnologica, articoli culturali e anche versioni digitalizzate di libri cartacei. Per quanto riguarda la letteratura informatica e le scienze sociali, uno dei migliori repertori del mondo è CiteSeerX, (con i suoi satelliti ChemXSeer per la chimica e ArchSeer, per l’archeologia). Altri motori di ricerca che operano su uno o più database di pubblicazioni accademiche di diverso genere sono: DOAJ, acronimo di Directory of Open Access Journals, ScienceDirect, IEEE Xplore, per la ricerca di pubblicazioni nel campo ingegneristico, ads (astrophysics data system) per quella in campo astronomico/astrofisico e JSTOR, che è in realtà una biblioteca digitale che comprende libri, periodici e altre fonti primarie nell’ambito delle scienze umane. Per quanto riguarda il mondo “open access”, ossia quello che consente accesso libero agli studi in maniera completa, senza alcuna restrizione, il portale di riferimento è Springer. Menzione a parte merita invece ResearchGate, vero e proprio social network per ricercatori dove però è possibile reperire pubblicazioni scientifiche di ogni genere, potendole collegare direttamente agli autori presenti nella piattaforma social. Nella maggior parte dei casi, gli abstract (sintesi) e le conclusioni sono leggibili senza alcuna forma di pagamento mentre, per scaricare il lavoro intero con la descrizione completa, occorre pagare o abbonarsi alle varie riviste.

Ma quali risultati forniscono questi strumenti di ricerca? Purtroppo l’elenco delle tipologie di contenuti indicizzati è abbastanza corposo e non tutto quello che viene fuori per una determinata frase/parola chiave è determinante per un approfondimento. In base allo scopo dell’indagine è però possibile selezionare le categorie di contenuti che sono più utili ad un giornalista. Ipotizziamo di voler collezionare un numero significativo di conclusioni di studi scientifici su un argomento specifico. Ad esempio, una terapia farmacologica. I contenuti da prendere in considerazione sono quelli classificati come:

  • Studi clinici (T)
  • Studi clinici controllati (CT)
  • Studi clinici randomizzati controllati (RCT)
  • Revisioni paritarie (PR)
  • Revisioni sistematiche (SR)
  • Meta analisi (MA)

Da scartare sono, invece:

  • Editoriali
  • Lettere e corrispondenza varia
  • Documenti prestampa (pre-print)
  • Commenti
  • Linee guida
  • Qualunque altro file classificato diversamente

Questi ultimi elementi potrebbero essere utili per una documentazione rapida superficiale o per capire meglio un determinato contesto, ma non sono da considerarsi alla stregua dei contenuti del primo elenco e non devono essere utilizzati per riscontrare alcunché. La differenza è nel fatto che gli studi, le revisioni e le meta analisi seguono dei protocolli standardizzati. Non in tutte le branche della scienza è sempre possibile ottenere questo tipo di risultati. Le scienze “fortunate” sono quelle correlate con la vita e la salute (soprattutto medicina e biologia), mentre altre hanno meccanismi assimilabili, ma non tutte prevedono il coinvolgimento di esseri umani. Di fatto, tutte le considerazioni che si fanno prendendo come esempio un’indagine fatta per una terapia farmacologica – come nell’ipotesi proposta – sono abbastanza generali da poter essere applicate, mutatis mutandis, in tutti gli altri casi.

Il termine “studio clinico” (T) si riferisce a uno studio condotto su pazienti umani per valutare l’efficacia e la sicurezza di nuove terapie rispetto a quelle già esistenti. Esiste una fase pre-clinica che prevede ricerche su animali e cellule in vitro, ma è una fase che, appunto, non permette di arrivare a conclusioni definitive e complete per l’uomo. Gli studi clinici passano attraverso 4 fasi, con controlli rigorosi per garantire la sicurezza dei pazienti e l’efficacia delle terapie testate. In particolare, nella 3a fase la terapia viene messa a confronto con un placebo (sostanza priva di effetti farmacologici – in genere una pillola di zucchero – ma che produce effetti psicosomatici) o altri farmaci di riconosciuta efficacia, per dimostrarne il vantaggio terapeutico (CT). Per evitare poi che i dati siano influenzati dalle attese del paziente o di chi somministra la terapia, la sperimentazione viene condotta con somministrazioni casuali (randomizzazione) in “doppio cieco” (RCT). In sostanza né il paziente, né lo sperimentatore sono a conoscenza della presenza del principio attivo nella somministrazione. Questi accorgimenti sono il fulcro della sperimentazione efficacie e fanno la differenza nella valutazione della serietà di uno sperimentazione. In questo modo si riesce ad evitare anche l’innocente somatizzazione positiva da parte del paziente di fronte all’assunzione di un farmaco. Nell’ultima fase avviene la cosiddetta “farmacovigilanza” ossia la produzione di studi osservazionali che, in genere, confermano quanto emerso dalle fasi precedenti, ma che forniscono spunti per l’ottimizzazione della terapia o, in rari casi, la sua modifica. Uno studio che presenti tutte queste caratteristiche (randomizzazione, verifica tramite gruppo di controllo, doppio cieco) rappresenta quello che i Paesi di lingua anglosassone definiscono come “gold standard“, ovvero lo standard migliore, proprio in relazione alla sue insuperate doti di accuratezza.

La peer review: il filtro della validità

Aver trovato uno, dieci o cento studi scientifici propriamente detti, anche con la robustezza garantita dalla randomizzazione, dalla verifica tramite gruppo di controllo e dal doppio cieco, non è sufficiente a decretare la validità di una terapia. Serve una “revisione dei pari” (peer review), un processo in cui, esperti dello stesso campo valutano – in modo critico – la correttezza, la metodologia, la trasparenza, la riproducibilità e le conclusioni di uno studio. Questo filtro è davvero un meccanismo – quasi perfetto – per ridurre al minimo il rischio di contraffazioni, accordi sottobanco o iniziative temerarie. La revisione dei pari è una fase sempre aperta. Prima della pubblicazione avviene già una revisione paritaria degli studi da parte degli esperti che daranno l’avallo finale alla pubblicazione. Dopo la pubblicazione, è sempre possibile fare riferimento al lavoro di un collega e confutarlo o confermarlo. Questo è possibile grazie alle revisioni sistematiche (SR) e alle meta analisi (MA), oltre che attraverso le semplici revisioni paritarie (PR). Più elementi di questo tipo si raccolgono, maggiore sarà l’attendibilità e l’affidabilità di quella particolare terapia.

Finora abbiamo dato per scontato che le pubblicazioni estratte dalla nostra ricerca avessero tutte i requisiti minimi per essere prese in considerazione. Eppure non è sempre pacifico che l’indagine non sia viziata da qualche fattore non contemplato. Il primo fra tutti è la qualità – dal punto di vista accademico – della testata scientifica che propone lo studio. Non esiste un sistema infallibile per certificare la qualità di una rivista scientifica, ma esistono diversi indici di classificazione delle riviste di settore e degli autori basati sul numero delle citazioni (un po’ lo stesso principio del “Link Analysis Ranking” dietro all’algoritmo di Google). Esiste l’impact factor (IF), il citation index (CI) e l’Hirsch index (HI). L’impact factor è una valutazione fatta sul supporto, cioè sulla rivista scientifica, il citation index invece valuta l’autore di uno studio e l’Hirsch index lo studio. Questi parametri sono molto utili, ma non devono essere presi come un metodo per stilare delle classifiche. Di sicuro ci mettono al riparo dal prendere in considerazione quelle che vengono comunemente chiamate “riviste predatorie” ossia prodotti editoriali che, a pagamento, consentono a chiunque di far parte della propria produzione con contenuti anche di scarso valore scientifico. Le riviste predatorie, in genere, non sono proprio indicizzate oppure hanno un indice molto basso. Yang Liying, esperta di letteratura accademica presso la Biblioteca Nazionale delle Scienze dell’Accademia Cinese delle Scienze a Pechino, dal 2020 guida un team di circa 20 ricercatori responsabili della produzione e dell’aggiornamento della “Early Warning Journal List“, una lista di riviste predatorie classificate in base al tipo di pratica poco corretta riscontrata e al livello di attenzione da mantenere. Esiste anche un’altra lista, anche se non aggiornata e ferma al 2021.

Dopo aver vagliato tutti questi aspetti, prima ancora di poter valutare nel merito lo studio, magari con l’aiuto di un esperto del campo, un giornalista può ancora – da solo – aggiungere dati alla sua indagine: il conflitto di interessi degli autori degli studi. In genere, nelle riviste scientifiche, questo conflitto di interessi è riportato in fondo ai paper o appena sotto il titolo del lavoro. I conflitti più lampanti sono quelli dei ricercatori che lavorano per la stessa azienda che produce un rimedio o una terapia medica, quella che potrebbe aver finanziato la ricerca. Più difficile da valutare è invece il conflitto di quegli studiosi che lavorano per le agenzie che producono prove a sostegno di una tesi, utilizzando i cosiddetti “Real World Data“, cioè i dati raccolti nel mondo reale. Questa raccolta viene fatta post-marketing, durante la normale pratica clinica o durante il normale utilizzo dell’innovazione proposta. I RWD svolgono ormai un ruolo fondamentale e sempre più rilevante nell’ambito della raccolta e dell’analisi dei dati, ma esiste la possibilità che un’azienda paghi l’agenzia per ottenere solo le evidenze a favore della propria tesi o del proprio prodotto (cherry-picking). Bisogna ovviamente tenerne conto.

A questo punto è possibile addentrarsi nella lettura degli studi. Il consiglio, anche per un giornalista scientifico, è quello di farsi aiutare da un vero esperto del campo. Questa scelta farà la differenza nell’accuratezza del prodotto giornalistico finale. Occorre, in generale, tenersi lontano dal vittimismo di taluni presunti geni incompresi che ritengono di stravolgere – da soli – con le loro “scoperte”, ciò che si è appreso in decenni di esperimenti complessi e raffinati. Rimanere vittima di ciarlatani e complottisti è molto facile e il giornalismo scientifico deve fare la sua parte per aiutare il progresso della società. Produrre uno studio falso, gridare al complotto, è molto più facile, veloce e poco oneroso che smentirlo. Una esperto o presunto tale, che sia stato ripetutamente colto a mistificare la realtà, ad “inquinare il pozzo” o peggio ad inventare di sana pianta correlazioni e/o causalità, deve essere necessariamente abbandonato per inaffidabilità. Noi giornalisti potremmo essere il suo megafono e potremmo diventare complici della disinformazione scientifica. E la società di oggi non ne ha affatto bisogno.

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