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Fake news e information disorder, guida all’analisi critica delle informazioni in 5 punti

Questo approfondimento nasce dalla volontà di creare un algoritmo universalmente valido per il riconoscimento di un’informazione distorta o completamente falsa. Lo spunto è nato dall’osservazione delle dinamiche della disinformazione originata nelle chat tra amici e conoscenti su WhatsApp

Fake news e information disorder, guida all’analisi critica delle informazioni in 5 punti

L’assunto è che ci arrivi una notizia attraverso una delle tantissime fonti di informazione che, ad oggi, possiamo annoverare come mezzi di comunicazione: un sito Internet, un social network, una testata online, un giornale di carta, la radio, la televisione o semplicemente una conversazione tra amici. L’obiettivo è capire se si tratti di un’informazione corretta, se questa informazione possa rappresentare davvero una notizia e se la notizia abbia o meno un’implicazione giornalistica o addirittura i connotati per coinvolgerci direttamente, soprattutto nel caso di una notizia che investe la sfera sanitaria. L’algoritmo da seguire per stabilirlo è composto dai seguenti passi:

1 – Interrogarsi su chi diffonde la notizia e in quale circostanza

Ognuno di noi ha un odio più o meno inconfessabile per qualcosa o qualcuno. Allo stesso tempo abbiamo a cuore determinati argomenti, questioni o personaggi e non sempre tendiamo a rendere palese questo amore. È assolutamente umano che sia così. Dovremmo imparare a rendercene almeno conto. In gergo tecnico (psicologia), questo atteggiamento si chiama “bias di conferma” e spinge le persone a muoversi entro un ambito delimitato dalle proprie convinzioni acquisite, tentando di ricondurre a tale ambito qualsiasi situazione si trovino a sperimentare.

A volte sono anche le circostanze ad essere foriere di informazioni scorrette. In un ambito in cui si vuole stupire la platea, in una situazione in cui si vuole apparire più informati, più scaltri, più rapidi ad afferrare i concetti, più “studiati”, si tende a “spararla grossa”, sapendo che – dopo pochi giorni – si potrà contare sull’oblio che la memoria garantisce naturalmente alle sparate tra amici.

Come possiamo però evitare il bias di conferma e quello di circostanza? A volte non si può evitare. È sufficiente tenerne conto. Non è nemmeno detto che, una persona affetta da bias di conferma o di circostanza diffonda un’informazione falsa o scorretta. Però è opportuno prendere in esame tale possibilità, drizzando le antenne.

2 – Raccogliere tutte le informazioni possibili sulla fonte dell’informazione

Questo passaggio è davvero fondamentale. L’optimum sarebbe quello di evitare “intermediari” nel processo di acquisizione delle informazioni. Arrivare alla fonte primaria e indagare in maniera diretta sulla storia di questa fonte è chiaramente il miglior modo di procedere. Un giornale, un divulgatore, una persona informata sui fatti, che siano stati ripetutamente colti a mistificare la realtà, a sfruttare i chiaroscuri o peggio ad inventare di sana pianta le notizie, devono essere necessariamente abbandonati per inaffidabilità. Nessuno è infallibile, ma è proprio per questo che si valuta una fonte in base all’abitudine che ha di riportare i fatti in maniera corretta. In genere andrebbero escluse a priori tutte le fonti di parte (per ragioni politiche, per questioni di conflitti d’interessi, per amicizia o parentela con le persone coinvolte nei fatti). Questo non significa che siano fonti non attendibili in assoluto, ma – in presenza di altre fonti più neutrali – è bene scegliere quest’ultime o prendere le prime con le pinze.

Viviamo in un momento storico in cui, chiunque apra un blog si sente giornalista, chiunque abbia un account Instagram, fotografo e chiunque possegga una videocamera o uno smartphone, reporter. Però i giornali e i giornalisti, siano essi pubblicisti o professionisti, sono considerati ancora importanti e autorevoli, così come tutto quello che proviene da tv, radio, carta stampata e testate online registrate. Eppure questa considerazione non ha più ragione di esistere, perché essere iscritti all’albo dei giornalisti, parlare in tv o scrivere su giornali propriamente detti, non è più garanzia di nulla. Né di competenza, né di professionalità. Così come non è garanzia di indipendenza, correttezza o trasparenza il fatto che qualcuno pubblichi le proprie inchieste o propri approfondimenti in una bacheca pubblica. Quello che conta, oggi, è la reputazione che ognuno di questi attori si costruisce. L’affidabilità di una fonte è data dalla sua storia. Punto.

Attenzione, però: qualunque fonte che esprima opinioni, per quanto colorite e accalorate possibili non diventa automaticamente una fonte non affidabile. Tutti siamo liberi di pensare quel che ci pare. Quello che non è consentito è tramutare le nostre idee, le nostre opinioni o le nostre ipotesi in tesi, in fatti. I fatti vanno dimostrati. Il tifo politico non è sbagliato, le nostre passioni sono sacrosante e possiamo dedicarci ad esse anche ingannando noi stessi. Quello che non dovremmo fare è ingannare gli altri, solo perché una cosa ci piace particolarmente.

Va ricordato che “raccogliere tutte le informazioni possibili sulla fonte” significa indagare tanto sui gruppi quanto sui singoli: se un giornale o un sito hanno una storia di comprovata correttezza, non è detto che i singoli autori non possano avere un canale da dove diffondano informazioni scorrette. Inoltre occorre fare indagini senza mai fermarsi al principio di autorità, cioè dando per scontata l’affidabilità di una persona solo perché dotata di un titolo o di un riconoscimento. Basti pensare che, perfino i premi Nobel sono finiti a diffondere informazioni false, o perché affetti da demenza senile, o perché sotto effetto di stupefacenti con effetti a lungo termine, o per trasgressione epistemica (espressione di giudizi da parte di chi ha la competenza o esperienza adatta a dare giudizi in un campo particolare, ma si sposta in un altro campo nel quale non ha alcuna o poca competenza, per esprimersi allo stesso modo) o ancora per mancato aggiornamento sulla materia.

Ma quand’è che si può pensare di dare un’altra possibilità ad una fonte che, in passato, si è resa responsabile di disinformazione? E come possiamo essere sicuri che una fonte affidabile non inizi proprio durante la nostra indagine a diffondere informazioni scorrette? Molto semplice: per prima cosa, possiamo dare una nuova possibilità a chiunque ammetta gli errori del passato. Chi persevera nell’errore e tiene il punto nonostante le evidenze lo abbiano ampiamente sbugiardato – al contrario – è da cancellare totalmente dal novero delle fonti. Occorre inoltre essere sempre sul chi va là e non dare mai nulla per scontato. Purtroppo, dai “futuri impazzimenti” non ci tutela nessuno. L’unica arma a disposizione, in questi casi, è quella della pluralità delle fonti di informazione. In passato, lo Stato ha finanziato le fonti d’informazione proprio per garantire la pluralità, cioè per evitare un’informazione a senso unico (anche se i meccanismi di finanziamento erano molto ambigui e si prestavano ai soliti inganni all’italiana). Per fortuna, anche senza i finanziamenti pubblici, grazie soprattutto alla tecnologia, il problema della correttezza dell’informazione riguarda solo i pigri, i superficiali, i dannatamente stupidi e – ahimè – quelli che si fanno sopraffare dalle proprie paure o dai propri sogni/desideri (attraverso il bias di conferma).

3 – Valutare la fonte per competenza

Chi è che parla? Un meccanico che ci illustra le ultime scoperte in campo medico? Un nutrizionista che ci spiega come si balla il tip tap? Possibile e magari anche ineccepibile dal punto di vista dei contenuti e della correttezza, ma sicuramente non auspicabile per una questione statistica: in genere, chi svolge una determinata professione, ha le competenze per fare quella specifica professione e non altre (con le dovute eccezioni). A sentire il parere di tutti, in un campo in cui sono necessarie determinate competenze, si rischia – oltre alla perdita di tempo – di giungere alle conclusioni sbagliate. Il miglior compromesso, in questi casi, è quello di attribuire dei pesi alle opinioni dei vari interlocutori, proprio in funzione delle competenze di ognuno, in quel determinato campo. Questo non significa che poi ognuno sia libero di dire qualunque castroneria gli passi per la mente, perché – ricordiamolo – chiunque avanzi un’ipotesi, in un ambito dove è possibile dimostrare le proprie affermazioni, ha poi l’onere della prova (cioè deve essere lui a dimostrare quello che dice). Ci sono degli ambiti infatti, dove, le opinioni possono avere la loro dignità indipendentemente dalle dimostrazioni. La politica, ad esempio. La cucina, l’arte, la filosofia, lo sport, lo spettacolo. C’è solo un ambito, invece, in cui proprio non si può prescindere dalle competenze: la scienza.

Quando si parla di competenza, è sempre bene fare una distinzione tra chi argomenta le proprie ipotesi e chi indica le tesi degli esperti di quell’argomento. Una persona che non ha competenze in una determinata materia e pensa di poter impartire lezioni alla platea che lo ascolta è chiaramente un presuntuoso e va ascoltato solo finché è in grado di dimostrare le sue tesi. Una persona senza competenze, che però illustra le teorie – dimostrate e verificabili – degli esperti, tenendo sempre conto delle circostanze e della storia di questi esperti (vedi punto 1 e punto 2), dà un contributo positivo al dibattito e non potrà mai essere tacciata di presunzione o di arroganza. Una persona senza competenze che si rifà a teorie di persone con competenze, che però hanno conflitti d’interessi, storia passata di mistificazione della realtà, inganni, propaganda politica o soffrono di demenza senile, è una persona che dà un contributo negativo al dibattito e non va presa in considerazione. Certo è che, se a parlare fosse un esperto di quella materia che si rifà ad altri esperti di quella stessa materia, non credo ci sia bisogno di dire che sarebbe il caso migliore.

4 – Cercare riscontri della stessa notizia provenienti da altre fonti affidabili

In questo frangente, la tecnologia ci aiuta. Una delle prime cose da fare è cercare quella stessa notizia su Google e vedere se ci sono altre fonti (affidabili, vedi punti sopra) che ne parlano. Il primo sospetto potrebbe venire apprendendo che la notizia letta ha un’unica fonte. Tale sospetto potrebbe essere confermato se la notizia viene riportata identicamente da altre fonti, ma schierate politicamente dalla stesa parte. A volte si è molto fortunati e si trovano siti di debunking (specializzati nella verifica dei fatti) che fanno il lavoro sporco per noi: analizzano le notizie (utilizzando proprio questo algoritmo) e spiegano perché si tratta di realtà completamente distorta, informazione non propriamente corretta o semplici ipotesi di parte che non hanno quindi alcun valore concreto. Altre volte succede qualcosa di straordinario: la notizia viene trovata su un sito che è spazzatura certificata al 100% da anni e anni di notizie false ospitate su questo sito. Beh, anche il quel caso, la probabilità di aver letto una fandonia o un’informazione pretestuosa sale alle stelle.

Quand’è che è possibile arrestare la ricerca di altre fonti? Quando si ha un quadro chiaro della situazione. Si tratta di elementi che vanno tenuti in stand-by. Non devono essere gli unici parametri di giudizio, ma devono contribuire correttamente all’analisi delle informazioni che si vogliono valutare. Occorre quindi inserire tutti i tasselli al posto giusto. Mai usare la sola disponibilità di altre fonti (magari solo dell’opposta fazione politica) per decretare l’inconsistenza di una notizia e prendere subito per buona la narrazione dell’unica altra campana.

5 – Valutare la notizia nel merito

Arriviamo finalmente all’aspetto centrale della questione: il contenuto della notizia, le affermazioni, tutto quello che è possibile verificare. Ecco, per fare questo tipo di analisi, purtroppo, serve un esperto in quel campo. Noi non possiamo fare nulla. La logica ci aiuta, ma se non conosciamo perfettamente anche tutti gli inganni che si celano nei possibili ragionamenti umani, corriamo il rischio – facendo da soli – di prendere grosse granchi. Per questo, dobbiamo necessariamente studiare, approfondire e mantenere un profilo molto cauto nel dare i nostri giudizi. Quello che possiamo fare – e non è affatto alla portata di tutti – è andare a cercare un esperto VERO (senza una storia pregressa di errori, falsificazioni, pretesti o altro) che spieghi e si addentri nel merito esatto di quello di cui parla l’informazione che abbiamo ricevuto.

Se si parla di scienza, purtroppo, il compito è molto, ma molto più complicato. Chi è lontano dal mondo della scienza e della ricerca non conosce molti meccanismi che si celano dietro a questi sistemi di conoscenze. Il primo e più importante meccanismo che molti ignorano e la cui mancanza può, da sola, scardinare qualunque tipo di argomentazione di cui si presume la validità è il cosiddetto “metodo scientifico“. Non si può prescindere da questo metodo se ci si addentra nella valutazione di un’informazione nel campo della scienza.

La primissima occasione che si ha d’imbattersi nel metodo scientifico è alle scuole elementari. Questo concetto viene spiegato in maniera semplice, con 5 passaggi individuati da: osservazione, sperimentazione, misura, produzione di risultati e verifica. Alle elementari non si hanno ancora tutti gli strumenti per capire a fondo il significato di ciascuna attività. A volte capita che si cresca e non si arrivi mai ad afferrare bene tutti questi concetti. Il rifugium peccatorum, in questi casi è il complottismo. Tutti i complottisti in buona fede (cioè quelli che proprio non ci arrivano) sono figli della non comprensione del metodo scientifico. Tutti gli altri sono semplicemente dei disonesti o dei banditi (truffatori).

A volte basterebbe avere un metodo per scoprire se un’informazione è valida oppure no. Non serve che sia scientifico. Eppure esistono tante persone che non riescono nemmeno ad arrivare ad applicare un metodo qualsiasi; pensano davvero che, andare a naso, a intuito, a sentimento porti sul serio da qualche parte. Certo, è vero, ci sono tanti casi in cui accade proprio “quello che uno sentiva”, ma il problema è che tutte le previsioni che hanno avuto un riscontro positivo nella realtà vengono poi inesorabilmente sommerse da quelle fallite. Una persona che non applica un metodo – ad esempio – nel valutare se una medicina è efficacie o meno, segue questa prassi: ha un male, prende il rimedio e poi stabilisce se “su di lui funziona”. Grazie a questo meccanismo, che non ha alcun tipo di valenza scientifica (si chiama: procedimento per aneddoti), molte aziende e molti professionisti che producono farmaci o terapie senza alcun tipo di fondamento scientifico, si garantiscono la loro fetta di mercato in quello che è il business della cosiddetta “medicina alternativa” (che non dovrebbe proprio essere chiamata “medicina”). Il “non metodo” degli stupidi, purtroppo, ha un grosso impatto nell’opinione pubblica e rischia spesso di influenzare anche chi un minimo di raziocinio ce lo ha. Un approccio non ripetibile come il non-metodo del su di me funziona è sovrapponibile al caso, cioè alle scelte e alle conclusioni arbitrarie. Per potersi chiamare metodo, deve essere riproducibile, deve seguire degli step, che devono essere sempre uguali, non variabili arbitrariamente.

La scienza, il concetto semplice di metodo, lo ha superato completamente “inventando” il metodo scientifico. Non solo si segue un algoritmo, ma l’algoritmo è sempre quello e in questo modo i dati e gli esiti sono confrontabili. Quando valuta l’efficacia di una medicina, ad esempio, il metodo scientifico non prescinde mai (tranne nei casi in cui non sia applicabile o quando non serva che sia così rigoroso) dai seguenti cardini:

  • la presenza di un numero statisticamente significativo di cavie
  • il doppio cieco (né chi somministra la medicina, né chi la prende sono a conoscenza della presenza del principio attivo all’interno della medicina che viene somministrata)
  • la presenza di un gruppo di controllo (cioè un numero statisticamente significativo di cavie alle quali viene somministrato un placebo, cioè qualcosa che sia indistinguibile dalla medicina sottoposta a verifica di efficacia), per vedere se il condizionamento psicologico del “prendere una pillola” si tramuti o meno in condizionamento psicosomatico, cioè guarigione “spontanea”.

Solo per fare un esempio: esistono pillole o terapie inutili che non sono stati sottoposti a questo tipo di test, ma si vendono ugualmente come rimedi possibili. Ce ne sono altri, come ad esempio i rimedi omeopatici (impropriamente chiamati “rimedi”) che sono stati sottoposti ad una quantità enorme di verifiche di questo tipo e tutte le volte la conclusione è stata che non funzionano più di un placebo. Eppure vengono venduti in farmacia e proposti da molti operatori del settore come “medicinali”. Il motivo per cui non si blocca la vendita è che male non fanno. Si tratta semplicemente di placebo diversi prodotti da diverse aziende. Ma sono tutti assolutamente inutili (ne basterebbe uno per tutti i mali), a prescindere dall’aneddotica (cioè dal fatto che a qualcuno effettivamente possa passare un mal di testa dopo aver preso una pallina di zucchero omeopatica). Per intenderci: i test fatti con l’aspirina non registrano il 100% delle guarigioni, cioè c’è qualcuno che prende l’aspirina e non gli passa alcun male, così come c’è qualcuno che prende la pillola omeopatica e il male scompare, ma è proprio grazie al numero statisticamente significativo di cavie che si stabilisce poi, con quei grandi numeri, il fatto che i rimedi funzionino o no: per dirlo, la loro efficacia deve necessariamente superare quella del placebo.

Un’altra distinzione da avere ben chiara nella mente, quando si fa una valutazione nel merito, è quella tra correlazione e causalità. In questo caso, bisogna ammettere di essere in presenza di un concetto per niente banale e che non è possibile spiegare a chiunque. Serve un livello di istruzione superiore. In parole povere: il fatto che due fenomeni siano correlati, cioè che i loro valori – nel tempo – abbiano lo stesso andamento, non significa affatto che tra di loro esista un rapporto di causa-effetto e cioè che il verificarsi dell’uno sia causato dal verificarsi dell’altro. Quest’ultimo rapporto, infatti, va dimostrato con dei test che seguano il metodo scientifico (di cui abbiamo illustrato le “conditio sine qua non”). La correlazione, per dirla in maniera più rigorosa, è condizione necessaria, ma non sufficiente per la causalità.

L’ultimo concetto che va compreso in maniera profonda, per poter valutare una notizia nel merito, è quella di “comunità degli esperti“. Per spiegarlo nella maniera più agevole possibile, si può fare riferimento ad un caso particolare, che si può poi comodamente allargare al caso generale per semplice estensione, mutatis mutandis. Il significato di “comunità scientifica” – questo il caso particolare – porta con se una serie di altri concetti importanti, che fanno comprendere in che modo la scienza sia al riparo da eventuali sabotaggi e perché riesca sempre ad autoemendarsi senza dover demolire i suoi principi fondanti. La comunità scientifica non è l’insieme di tutti gli scienziati o di tutti i ricercatori che si occupano di questa o quella branca delle scienze. Piuttosto è un concetto astratto che coinvolge persone, cose e situazioni, partendo da un gruppo di esperti, che svolge attività di ricerca organizzata con procedimenti metodici e rigorosi. Alla comunità scientifica, ad esempio, non appartiene un medico radiato dall’albo per condotta antiscientifica o deontologicamente scorretta. Non vi appartengono quegli scienziati che non danno più alcun contributo alla comunità, perché non si aggiornano o perché non si confrontano con i pari, nemmeno quelli che, invece di dibattere con i colleghi (che hanno le competenze per criticarli), si rivolgono direttamente alle persone comuni (che il più delle volte non hanno gli strumenti per muovere obiezioni). Non appartengono alla comunità scientifica di una determinata branca della scienza, tutti quelli che commettono trasgressioni epistemiche, salendo in cattedra in ambiti in cui non hanno competenze, criticando il lavoro di tutti gli altri scienziati che invece rimangono nei ranghi della propria specializzazione. Va da se che non appartengono (più) alla comunità scientifica tutti quegli scienziati che smettono di utilizzare il metodo scientifico, per non parlare di quelli che vengono colti ad ingannare la stessa comunità, ad esempio, utilizzando dati falsi, parziali o falsati (esempi lampanti: Andrew Wakefield, Jacques Benveniste o Gilles-Éric Séralini). Va invece annoverata tra gli esempi positivi di come la comunità scientifica funziona e salva se stessa da eventuali errori di percorso, la figura di Paolo Zamboni, uno scienziato che, invece di innamorarsi della sua presunta scoperta, ha collaborato con i colleghi per metterla in discussione e, grazie a questo modo costruttivo di procedere, la scoperta è stata ridimensionata. Innamorarsi delle proprie tesi, purtroppo, porta contributi negativi alla comunità scientifica e, a volte, per questo motivo si finisce per rimanere ai margini, ma a ragion veduta. Uno scienziato che s’innamora (innocentemente) delle proprie presunte scoperte e tenta di imporle nonostante lo scetticismo dei rimanenti pari livello, rischia di compromettere la percezione che, dall’esterno, si ha della comunità scientifica. Uno scienziato che s’innamora delle proprie idee per scopi commerciali (forza le proprie tesi quando ancora non sono state verificate per vendere il prodotto di queste idee) è molto ai confini del comportamento corretto (si veda l’esempio di un medico e di un ingegnere che hanno brevettato e messo in commercio una lampada che elimina virus e batteri, ma che è stata testata solo in condizioni di laboratorio).

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