Condividi

Gilardoni (Bocconi): “Non fare le opere pubbliche previste costa 530 miliardi”

INTERVISTA AD ANDREA GILARDONI, docente della Bocconi e fondatore dell’Osservatorio sui Costi del Non fare nelle infrastutture – “Il dibattito di questi giorni sulle opere pubbliche è un po’ lunare e le forze politiche devono assumersi le loro responsabailità sulle opere pubbliche senza nascondersi dietro un uso distorto dell’analisi costi-benefici” – Che cosa significherebbe rinunciare alla Tav e alla Tap – Il caso Brebemi – VIDEO.

Gilardoni (Bocconi): “Non fare le opere pubbliche previste costa 530 miliardi”

Andrea Gilardoni, docente della Bocconi e fondatore e animatore dell’Osservatorio sui Costi del Non fare sulle opere pubbIiche, sollecita da anni una svolta per le infrastrutture e la fo con la forza dei numeri, basati sull’applicazione scientifica dell’analisi costi-benefici. Che non sarà il vangelo ma è pur sempre un punto di riferimento cruciale. Soprattutto perchè è valsa a chiarire un punto essenziale: fare  le opere pubbliche costa (e talvolta troppo), ma non farle costa ancora di più. Se il Governo di oggi e di domani rinunciasse a realizzare le infrastrutture già previste dalle leggi e dalle norme nazionali ed europee, il costo per l’Italia sarebbe abnorme: 530 miliardi di euro da qui al 2035. Naturalmente l’analisi costi-benefici non spiega tutto ma, come manda a dire Gilardoni nell’intervista rilasciata a FIRSTonline, di cui è anche socio fin dalla nascita, non può diventare un paravento di comodo per le forze politiche che sulla infrastrutture devono mettere la faccia e assumersi fino in fondo le loro responsabilità. E sarà interessante, dopo le polemiche di questi giorni su Tav e Tap, vedere cosa diranno le forze politiche al convegno che su questi temi l’Osservatorio di Gilardoni ha organizzato alla ripresa politica a Roma, il 12 settembre, proprio davanti alla Camera dei deputati.

Professor Gilardoni, nella primavera scorsa il suo Osservatorio sui Costi del Non fare ha quantificato in ben 530 miliardi di euro il costo che l’Italia dovrebbe accollarsi da qui al 2035 se non si facessero le opere pubbliche già programmate e già previste dalle leggi vigenti: può spiegare come si è arrivati al calcolo di una somma così abnorme?

“Su questi temi ci stiamo lavorando da quasi tre lustri. L’idea è semplice ma certamente forte: se un progetto infrastrutturale al netto dei costi è destinato a creare benessere e ricchezza, non farlo genera un costo-opportunità per la collettività, una sorta di tassa occulta. Il Costo del Non Fare punta a stimare quanta ricchezza si perderebbe se nulla si facesse nei prossimi 16 anni. Per fortuna, qualche infrastruttura la realizziamo… Negli scorsi 15 anni abbiamo messo a punto una metodica che si basa sull’ Analisi Costi-Benefici (ACB) che abbiamo applicato a una serie di infrastrutture nel settore energetico (elettricità, gas, rinnovabili, ecc.), della mobilità dolce e non (strade, autostrade, ferrovie, ecc.), nella Banda Ultralarga, del servizio idrico. Oggi l’Analisi Costi-Benefici è di moda, ma credo che ad essa vada data il giusto peso. Basti pensare che non c’è un solo valore della ACB che sia certo al 100%: tutti dati prospettici, soggetti a indeterminatezza, assunzioni, stime soggettive. Ma ne parleremo al convegno annuale dell’Osservatorio in Sala Capranichetta a Roma il prossimo 12 settembre”.

Cosa intende dire esattamente? Buttiamo a mare l’Analisi Costi-Benefici proprio adesso anche che il Ministro grillino delle InfrastruttureToninelli invoca come riferimento assoluto alle decisioni?

“Guardi, per noi l’Analisi Costi-Benefici, fin da tempi non sospetti, costituisce un elemento centrale ed imprescindibile. È di grande aiuto, ma bisogna farla bene e in modo indipendente. Essa aiuta a mettere a fuoco gli impatti, a ipotizzare la rilevanza economica e sociale ma anche ambientale dell’opera, serve nel processo decisionale anche per modificare l’infrastruttura affinchè meglio risponda alle istanze. Ma la decisione alla fine è sempre politica e qui i politici non si devono tirare indietro”.

In questi giorni i Cinque Stelle hanno messo in discussione tutti i principali progetti di opere pubbliche, dalla Tav alla Tap e dalla Pedemontana al Terzo Valico Valico: se questi progetti, molti dei quali in stato di avanzata realizzazione, dovessero interrompersi quale sarebbe il costo economico e finanziario per il nostro Paese?

“Direttore, non mi coinvolga in un dibattito un po’ lunare ove sono stati sparati numeri spesso a caso citando Analisi Costi-Benefici vecchie, non contestualizzate, spesso fatte da chi ha anche altri interessi !! Ogni situazione ha sue peculiarità e non si può generalizzare. Le opere si devono inquadrare in un contesto di strategia-paese che è il vero punto da considerare. Circa i costi economici e finanziari, interrompere delle opere avviate è normalmente molto oneroso, poiché si sommano investimenti fatti e non utilizzati, opportunità perse di sviluppo economico e sociale (ma spesso anche ambientale), più revoche di finanziamenti e anche sanzioni e risarcimenti danni. Insomma, si fa in fretta a raggiungere le decine di miliardi di costi. Ma io non penso che i Cinque Stelle siano così folli da volere veramente abbandonare le opere in discussione; vogliono forse riguardarle a fondo e su questo non si può dare loro completamente torto…”.

[smiling_video id=”61303″]

[/smiling_video]

 

Le obiezioni che gli avversari delle maggiori opere pubbliche avanzano riguardano i costi del fare e il fatto che, specie nelle ferrovie, i costi in Italia sono mediamente tre volte più alti quelli di altri Paesi europei: come si spiega questa anomalia ? Colpa dell’orografia o della diffusa corruzione?

“Orografia, reperti storici e corruzione – lo abbiamo visto anche di recente a Roma con la Metro C – hanno un ruolo centrale nell’aumentare i costi (e i tempi). Ma anche gli oneri compensativi alle amministrazioni e alle popolazioni “danneggiate” dall’infrastruttura hanno un rilievo anche del 10-15% del costo dell’opera. In più, una certa tendenza alla megalomania e alla scelta delle soluzioni più onerose (magari anche perché più sicure); cosa che ovviamente non dispiace alle imprese costruttrici. In tal senso bisogna continuare la ricerca della sobrietà, oggi possibile anche grazie a tecnologie più economiche; in certi casi si è ridotto il costo dell’infrastruttura del 50% o anche di più. Ad esempio, le Ferrovie dello Stato hanno fatto un lavoro in tal senso che porterà a risparmi di miliardi, ma è solo un esempi tra molti. Circa la corruzione, essa può certamente spiegare certi forti aumenti dei costi: è il meccanismo della varianti in corso d’opera che determina la possibilità di caricare oneri addizionali. Qui la soluzione è spendere di più nella fase di progettazione dell’opera e poi appaltarla senza possibilità di varianti, cioè chiavi in mano. Ma guai a fermare tutto criminalizzando il settore e introducendo lacci e lacciuoli che impediscono lo sviluppo. Oggi sappiamo come è possibile ridurre i costi, consapevoli anche che altrimenti l’opera non si fa”.

In soli 8 anni l’Alta Velocità è già satura e così accadde, in pochi anni, anche per l’Autostrada del Sole…

“Ecco, questi sono due casi in cui l’impatto delle infrastrutture, nel complesso fortemente positivo, non era stato previsto da tutti, e molti erano i detrattori delle iniziative, troppo costose, inutili. La volontà politica ha prevalso. Ma io ho davanti agli occhi il caso recente della Brebemi che sembrava essere un fallimento totale (o forse qualcuno voleva farlo credere) e che oggi è già una delle prime autostrade italiane con effetti straordinariamente importanti sulla mobilità locale, regionale e anche nazionale. Ma anche sulla occupazione (si pensi alle importanti imprese globali che localizzano le attività grazie all’opera) e sull’ambiente. Insomma, difficile prevedere dinamiche che si sviluppano in decenni (tali sono gli usi di queste opere) fortemente condizionate da eventi imprevedibili. Ecco perché la visione politico-strategica per le grandi opere deve essere dominante, certo affiancata da Analisi Costi-Benefici credibili”.

Al di là dei costi, che effetti avrebbe sull’Italia e sulla modernizzazione del Paese lo stop della Tav e quello della Tap?

“TAV e TAP sono due cose completamente diverse. Rinunciare alla TAV significherebbe una minore integrazione nel sistema logistico su ferro europeo con rischi di parziale emarginazione dell’Italia; circa la TAP la rinuncia equivarrebbe a una fonte in meno di approvvigionamento di gas della cui rilevanza tuttavia si potrebbe discutere”.

Che ripercussioni ha la realizzazione delle infrastrutture in programma sulla crescita economica e sullo sviluppo dell’occupazione?

“Non necessariamente enormi ripercussioni, anche se sarebbe grave bloccarle. Ma il tema infrastrutturale non si limita ai grandi progetti; anzi, vi sono centinaia di progetti minori o piccoli, più agevolmente realizzabili, con impatti nel complesso assai rilevanti anche sul piano occupazionale locale. Poi vi è il tema della modernizzazione di infrastrutture datate ma ancora fondamentali (reti gas, rete idrica, ecc.). E poi, ancora, le nuove tecnologie che sono destinate in tempi non lunghi ad avere impatti straordinari: internet of things, autoveicoli senza guidatore, autostrade dedicate a tali autoveicoli, smart cities, smart grids, e potrei continuare. Questo dibattito sulle grandi opere mi sembra perciò un po’ superato e preferirei che si orientasse sul vero futuro delle infrastrutture. Cosa che faremo nel seminario del 12 settembre”.

Come s’è visto anche in occasione della bocciatura delle Olimpiadi di Roma, c’è una parte del Paese che non vuole le opere pubbliche e una forza politica (i Cinque Stelle) che interpreta e si fa carico di questo orientamento di paura: cosa si può fare per allargare la condivisione delle nuove infrastrutture e per sostituire i pregiudizi con decisioni chiare, trasparenti e razionali?

“Ormai sappiamo bene come va gestito un progetto infrastrutturale. Quali sono le condizioni di attuazione, come si fa a coinvolgere le popolazioni e le pubbliche amministrazioni, quali sono le fasi critiche, come si fa a finanziarle. E sappiamo bene anche che è la qualità del sistema politico-amministrativo che sta alla base delle realizzazioni. Gli interessi coinvolti sono sempre molti e delicati da gestire; ma accanto a stakeholders oppositivi, vi sono numerosi che invece sono favorevoli e che spesso costituiscono una maggioranza silenziosa”.

Commenta