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Gerolamo Rovetta, un siciliano meglio di Verga?

Il 24° episodio della serie degli autori best seller italiani vede protagonista Gerolamo Rovetta un autore di fine Ottocento di cui si è persa quasi completamente la memoria, insieme ai non molti che furono attivi in quegli anni. E la cosa rattrista anche perché non fu scrittore disprezzabile, per niente.

Gerolamo Rovetta, un siciliano meglio di Verga?

Non che sia stato un grandissimo, uno di quelli che poi si sarebbero studiati nelle scuole, ma in alcune opere sia di narrativa che di teatro, i due generi nei quali si cimentò, raggiunse risultati di discreta qualità letteraria, che ne imporrebbero una meritata riconsiderazione, al di là del fatto che ai suoi tempi sia stato un autore di grande successo popolare.

Era dotato di una naturale vena descrittiva, che lui seppe affinare da autodidatta con la lettura attenta e profonda dei maestri della narrativa, soprattutto francese, Daudet e Zola per primi. Giunse così ad un suo stile personale, non molto lontano dal verismo, anche se diverso da quello di Verga. Il suo fu piuttosto un verismo teso a rappresentare gli infiniti e variegati sentimenti del cuore umano, nell’ambiente da cui provenivano, che non era ovviamente lo stesso del Verga.

Un verismo “particolare”

Amava documentarsi molto prima di comporre un romanzo, specie se voleva ricostruire un contesto storico: leggeva, si informava, interrogava la gente, ricercava i testimoni. Anche per questo veniva definito uno scrittore verista. E poi con la sua grafia tondeggiante buttava giù il testo, che leggeva al gruppo di amici dei quali si circondava e con i quali si confrontava spesso, per portare l’opera a quel garbo e a quella perfezione stilistica, che fu quasi un suo marchio di fabbrica.

Ne veniva fuori una ricostruzione fedele e per niente banale del mondo che voleva ritrarre, venata di arguzia, di calore e di simpatia, che trasfondeva poi anche nella vita reale, fra gli amici e i conoscenti, che, come ci raccontano le cronache del periodo, presero l’uso di chiamarlo amichevolmente: Momi.

Successo di pubblico e qualità letteraria

Ai suoi tempi ottenne un grande successo di pubblico, documentato dalle tirature dei suoi libri e dalla folla che si accalcava nei teatri dove si rappresentavano le sue opere, a ulteriore conferma che successo di pubblico e qualità artistiche si possano coniugare.

E non è per volontà di un destino cinico e baro che debbano per forza essere disgiunti. Manzoni, in tal senso, ne è stato l’emblema primario e assoluto. Rovetta ne può essere una conferma, sia pure a un livello infinitamente più basso.

Di lui si potrebbe caso mai aggiungere con un eccesso di pignoleria che le opere più premiate dal pubblico, che furono fuori da ogni dubbio Mater dolorosa per il romanzo e Romanticismo per il teatro, non furono le più riuscite artisticamente, o quanto meno che altre sue opere, meno toccate dal favore popolare, rivelano una maggiore qualità artistica. Ma questo sarebbe solo un voler cercare il pelo nell’uovo.

Una critica non sempre benevola

La critica gli rimproverava una certa superficialità nel rappresentare gli animi e gli ambienti, una non eccessiva penetrazione nello spirito dell’epoca e nel contesto sociale, una certa mancanza di spessore e l’assenza di un suo stile personale. Sarebbe dovuto andare più a fondo nella trattazione dei personaggi, caratterizzarli meglio, portare a maturazione il suo stile, il suo tipo di scrittura.

Critiche non sempre condivisibili e comunque abbastanza generiche e adattabili a qualunque opera e a qualunque autore. Non tutti, ovviamente, la pensarono così. Pare che il Carducci, all’epoca deus ex-machina della critica letteraria umbertina, gli desse credito di buone doti letterarie, forse anche per differenziarlo dal Verga, per i cui romanzi nutriva un’avversione profonda.

La fortuna

Il suo maggior successo venne nel 1882 con Mater dolorosa, quasi all’inizio della sua carriera letteraria. Il romanzo ottenne subito un clamoroso successo di pubblico. Fu ristampato più volte e continuò ad esserlo per decenni e decenni, tanto che venti anni dopo era alla 18° edizione per Baldini e Castaldi, uno dei più importanti editori del periodo.

Il libro continuò poi a circolare e a far piangere generazioni di lettori, e soprattutto di lettrici, per altri decenni ancora, fino alla seconda guerra mondiale, quando il nome dell’autore e la sua opera entrarono rapidamente nel cono d’ombra dell’oscurità.

La vita

Quando esce Mater dolorosa, lo scrittore ha da poco compiuto 30 anni. È nato nel 1851 a Brescia, in una famiglia eminente e agiata, una delle migliori della città. Alla morte del padre, avvenuta nel 1860, allorché egli ha solo 9 anni, la madre, chiamata nell’ambiente la Rovettina, apre nella sua bella e nobile magione un frequentato salotto, dove riceve amici, conoscenti e i migliori cervelli della città e del paese, fra i quali Giuseppe Zanardelli, il celebre poeta Aleardo Aleardi e altri.

Sicuramente ancora giovane e attraente ella suscita sentimenti e passioni che vanno al di là della semplice amicizia e frequentazione, e sono più di uno i personaggi che perdono la testa per lei.

Il figlio cresce nell’ambiente salottiero e brillante che gravita intorno alla madre, poco preoccupata della sua formazione, che non è certo adeguata al rango e al livello che le floride condizioni familiari consentirebbero. Rimedia assegnandogli dei precettori privati come capitano, più per pulirsi la coscienza che per assolvere a un preciso dovere morale. Il giovane Gerolamo ha comunque modo di intrattenere rapporti con i frequentatori della sua casa e di vedere dal suo interno quella bella società che avrebbe poi ritratto nelle sue opere.

Nel 1867 la madre si risposa con il conte Almerico Pellegrini di Verona e si trasferisce col figlio nella nuova città. Ma i rapporti fra i due cominciano a incrinarsi, l’educazione del figlio non è certo la priorità della genitrice, insorgono malintesi, aumentano le incomprensioni, che spingeranno poi il giovane a staccarsi dalla madre. La cosa avviene a inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con la morte del nonno materno Giacinto, col quale Gerolamo aveva un rapporto particolare e che con ogni probabilità era quello per il quale non aveva troncato ancora prima i rapporti con la madre.

Ma adesso lo scrittore ha trent’anni, si sta affermando con le sue opere, non ha più niente e nessuno che lo trattenga, e mal sopportando alcune decisioni sulla spartizione dell’eredità del nonno, decide di lasciare Verona e di stabilirsi a Milano. Non tornerà più nella casa della madre e interromperà ogni rapporto con lei.

Il trasferimento a Milano

Nel capoluogo lombardo Rovetta entra presto in contatto con il mondo letterario e artistico della città, che è all’epoca particolarmente vivo. Frequenta Marco Praga, Giuseppe Giacosa, di cui sarebbe stato ritenuto quasi l’erede, e Giovanni Verga, i cui Malavoglia escono lo stesso anno di Mater dolorosa, nel 1882, ma con un successo di gran lunga inferiore al suo. Anzi, a dirla tutta e usando le stesse parole del romanziere siciliano, I Malavoglia furono un fiasco clamoroso e senza appello, che si sarebbe poi ripetuto sette anni dopo col Mastro don Gesualdo.

Due “strepitosi” insuccessi, si potrebbe dire, a dimostrazione di quanto sia cinica la storia della letteratura, mentre le opere di Rovetta, che cominciano a uscire con regolarità anno dopo anno, sono sempre presenti, e con grande risalto, nelle vetrine dei librai, quasi fossero delle primizie dalle quali non è possibile prescindere.

Il Rovetta va fiero di questa sua condizione. Si vanta di essere uno dei pochi che possa vivere agiatamente dei frutti del proprio ingegno, cosa assai rara all’epoca, senza dover chiedere nulla alla famiglia di origine. Il gruppo di amici, dato il suo carattere affabile, si allarga ulteriormente e comprende Eugenio Torelli Violler, il fondatore del “Corriere della sera”, Giannino Antona Traversi, Renato Simoni, Domenico Oliva, Arrigo Boito, Federico De Roberto e altri ancora.

Diventano loro il gruppo sociale cui fare riferimento per il sempre più noto e affermato romanziere. Nel capoluogo lombardo Rovetta trascorrerà pertanto il resto della sua vita, circondato dall’affetto dei lettori e dalla vicinanza degli amici.

Una produzione di tutto rispetto

In tutto compone una decina di romanzi, alcuni volumi di racconti, e oltre 25 testi per il teatro, equamente divisi fra commedie e drammi. Sono oltre 40 opere, frutto di un’attività quotidiana, tenace, attenta, continua, ma mai forsennata come in quegli anni stava capitando a Salgari.

Suoi “pezzi” compaiono anche sui giornali e i periodici più prestigiosi del periodo, come “Il Corriere della sera”, “La stampa”, “Il capitan Fracassa”, “La Tribuna”, “La lettura”, “La Nuova Antologia”. Quella sua prosa misurata e garbata sa intrattenere piacevolmente i lettori, quasi fosse un riflesso della sua personalità.

Ma non è sempre così. Quando la narrazione si allarga ai temi politici e storici, ecco che i toni si fanno più duri, cupi, pessimistici e profondamente amari sulle sorti di quella nazione nella quale gli ideali risorgimentali, nei quali lui e buona parte del paese avevano tanto creduto, sono così miseramente falliti.

E proprio questo senso di fallimento del moto storico del nostro risorgimento lo porta a comporre nel 1892 Le lacrime del prossimo, un romanzo ambientato nella Milano austriaca prima del 1859, dal quale ricaverà poi il nucleo originario del suo dramma maggiore, Romanticismo.

Anche questo romanzo ottiene un buon successo presso i lettori, come pure i successivi Il primo amante del 1892, La baraonda del 1894, Il tenente dei lancieri del 1896, L’idolo del 1898, La signorina del 1900, e altre opere ancora, fra le quali la commedia La trilogia di Dorina del 1891 e i racconti di Casta diva del 1903.

Il teatro

L’altro settore artistico al quale Rovetta si dedica è il teatro, dove si era fatto un certo nome giovanissimo, poco più che ventenne, con Un volo dal nido rappresentato nel 1877. Poi erano venute altre opere, tra le quali non possiamo dimenticare I disonesti del 1892. Ma il suo maggior successo sarebbe venuto proprio con Romanticismo nel 1901, un dramma in 4 atti che è la rivelazione dell’anno.

L’opera ripercorre le tappe del lungo cammino dell’Italia verso l’unità nazionale in toni talvolta enfatici, ma venati di profondo disincanto e amarezza, di sicuro effetto sul pubblico.

Il dramma viene messo in scena dalla compagnia di Tina di Lorenzo e Flavio Andò, cofondatore con Eleonora Duse di una celeberrima compagnia teatrale. E riscuote subito uno straordinario successo di pubblico. Per tutta Italia ottiene una lunga scia di consensi, ovazioni, applausi interminabili. Quando presenzia alla rappresentazione, Rovetta viene portato in trionfo dal pubblico. L’opera rimane a lungo in cartello e riesce a fare sempre il tutto esaurito.

Rappresentata anche da altre compagnie, all’autore vengono versate somme altissime di diritti d’autore. Voci ufficiose parlano addirittura di ben 50.000 lire in un anno, cifra di tutto rispetto per i tempi.

In seguito il dramma sarebbe stato trasposto anche al cinema, con l’interpretazione di Amedeo Nazzari e Clara Calamai: come dire, il meglio dell’epoca!

I dubbi sulla morte

Muore all’improvviso nel 1910 a 59 anni, suscitando un sincero disappunto nella città e un profondo cordoglio fra i suoi numerosi amici e conoscenti, sottolineato dalle tante testimonianze scritte.

In tutti i repertori, enciclopedie e storie letterarie in cui si parla di lui è riportato che il decesso avvenne per suicidio, avendo sperperato l’ingente patrimonio personale e familiare. Ma circola anche la voce di una sua morte naturale, per un accesso di nefrite di cui soffriva da tempo. Attendiamo che la voce relativa alla sua figura sia completata e compaia nel Dizionario biografico degli Italiani della Treccani per avere una parola definitiva.

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