Condividi

Elezioni Usa: Trump ancora in vantaggio ma Biden non s’arrende e la partita resta tutta da giocare

Il duello tra Trump e Biden si accende, con sondaggi incerti e la minaccia di contestazioni. L’esito, previsto sul filo di lana, potrebbe dipendere da un pugno di voti, definendo così l’epoca politica degli Stati Uniti

Elezioni Usa: Trump ancora in vantaggio ma Biden non s’arrende e la partita resta tutta da giocare

La stagione delle primarie americane ha creato negli Stati Uniti l’immagine di un Donald Trump vincitore. In Europa si vedono in tv folle festanti per lui, si vede un Biden dal passo ottuagenario e si conclude spesso che il gioco è fatto. Ma siamo ad aprile, inizio aprile, e di giochi fatti si potrà parlare solo a settembre, forse, per un voto fissato al 5 novembre. Il risultato sarà molto probabilmente sul filo di lana, con l’esito determinato da un pugno di voti, tra i 50mila e i 200mila voti popolari, ma negli Stati giusti, portando i “voti elettorali” di ciascuno di questi tre o cinque-sei Stati in dote al vincitore. La differenza di voti popolari potrà essere di milioni, ma potrebbe vincere anche chi ne ha presi molti di meno su scala nazionale, purchè si sia assicurato, sia pure per pochissimo, quel pugno di Stati in bilico.

Il puzzle degli “electoral votes”: come funzionano le elezioni Usa

Negli Stati Uniti per le presidenziali esistono come noto due tipologie di voti, quelli popolari, one man one vote, e i cosiddetti electoral votes o “voti elettorali”, che sintetizzano le scelte Stato per Stato, sono determinati da quelli popolari e vanno in genere a chi ha la maggioranza in quello Stato. Non è una singola elezione nazionale, ma sono 50 voti Stato per Stato, anche se il candidato è ovunque lo stesso. La regola non è stravincere, ma vincere anche per pochi voti in più Stati possibile. Naturalmente i più popolosi hanno più “voti elettorali”, ma non serve a nulla stravincere per averli, su 15 milioni di elettori bastano 7,6 milioni di voti e gli altri 7,4 non servono a nulla. Ogni Stato ha tanti “voti elettorali” quanta è la somma tra i due senatori e i deputati che manda a Washington. La California ha quindi 2+53 cioè 55 “voti elettorali” e il Wyoming 2+1 cioè 3. Il numero dei deputati dipende ovviamente dal numero dei residenti.

Il sistema risale alle origini della Repubblica e ha due obiettivi principali. Impedire che solo le aree più popolose decidano, annullando del tutto la volontà degli Stati con meno abitanti, e creare un sistema a due stadi per rendere meno facile l’ascesa di un demagogo che avesse saputo conquistare le folle. Queste votano, ma alla fine sono altri a concretizzare la volontà espressa dal popolo. Gli inconvenienti del sistema sono che le aree meno popolose hanno un potere elettorale in eccesso al proprio peso demografico. E che l’ascesa di un demagogo non è del tutto scongiurata, come il caso di Donald Trump porta a pensare. Due Stati, Maine e Nebraska, da decenni adottano un sistema forse migliore, che assegna a chi ha più voti nello Stato solo i due “elettorali” corrispondenti ai due senatori, e gli altri sulla base dei risultati in ciascuno dei collegi per la Camera di Washington. Finora gli altri 48 Stati non hanno seguito l’esempio.

Trump contro Biden: la battaglia dei voti elettorali nel 2016 e nel 2020

Nel 2016 Trump sconfisse Hillary Clinton, che ebbe 2,5 milioni di voti popolari più di lui, grazie a 44mila voti popolari in più in Pennsylvania, 11mila nel Michigan e 23mila nel Wisconsin, cosa che gli portò 66 “voti elettorali” nell’Electoral College consentendogli di arrivare a 304, con l’assicella della vittoria fissata a 270 e Hillary Clinton ferma a 234. Nel 2020 risultati analoghi garantirono sei stati a Joe Biden dandogli “74 voti elettorali” di maggioranza nell’ Electoral College; in particolare 44mila voti tra Arizona, Georgia e Wisconsin impedirono che finisse alla pari, 269 a testa nell’Electoral College, e che il tutto fosse deciso alla fine con un voto della Camera federale.

Nel 2020 anno di grande affluenza hanno votato 159 milioni di americani su 240 milioni aventi diritto. Secondo l’ultima analisi annuale Gallup sull’orientamento partitico, il 27% si identifica come repubblicano e un numero analogo come democratico, mentre il 43% si definisce indipendente. Di questi il 45% dice di essere più vicino ai repubblicani e il 43% ai democratici. Altri sondaggi dicono che il 20% o poco meno dei repubblicani non ama Trump e metà di questi non lo voterà mai, alcuni non lo hanno fatto già nel 2016 e altri non lo faranno più dopo il 2016-2020.

Trump: in testa nei sondaggi, ma con la minaccia delle tensioni post-elezioni

I sondaggi sono al momento a favore di Trump, ma non in mondo determinante. Il sito Real Clear Politics, che analizza i sondaggi e ha inoltre una sua redazione ed è decisamente sbilanciato da tempo a favore di Trump, rileva fra le dozzine di analisi una media che assegna a Trump il 46,5% delle scelte a Biden il 45,5. Nell’Electoral College, 219 a Trump e 215 a Biden, e 104 voti in bilico troppo incerti da assegnare, per ora.

Trump come si sa benissimo gridò e continua a gridare all’imbroglio per il 2020, e ha già messo le mani avanti dicendo che anche nel 2024 i democratici potrebbero imbrogliare. Può sembrare strano dopo che nessun tribunale, su una novantina di cause legali su presunti brogli, gli ha dato ragione. Ma Trump continua a dire che il voto del 2020 vinto da Joe Biden è stato un imbroglio. Aggiunge, anche in queste ore, che chi ha dato l’assalto al Congresso dove il 6 gennaio 2021 si stava ratificando la vittoria di Biden nel tentativo di impedirla, è “un eroe” e “un patriota”, un “ostaggio” che lui, Trump, appena rieletto scioglierà da ogni colpa. Sono stati condannati in 750, molti con qualche detenzione, da poche settimane a 22 anni, per sedizione violenta. Ma i trumpiani doc li chiamano “prigionieri politici”. E ogni tanto Trump aggiunge minaccioso che se non vincerà il prossimo novembre sarà, per il Paese, “una tragedia”.

Vi sono pesanti conseguenze istituzionali che però la Corte Suprema americana, con tre giudici nominati da Trump e sei su nove, in totale, di orientamento repubblicano, non sembra proprio voler affrontare, disattendendo il proprio mandato.

Trump, Biden e la Corte Suprema: il braccio di ferro che definisce un’era

Il massimo è stato raggiunto il 4 marzo, quando la Corte ha detto all’unanimità, e su questo non ci sono state particolari obiezioni, che lo Stato del Colorado non poteva togliere il nome di Trump dalle liste per le primarie repubblicane avendo lui tradito la Costituzione con l’istigazione dell’assalto al Congresso. Un singolo Stato non può fare questo. Ma la Corte è andata ben oltre: ha detto, a maggioranza, che il comma 3 dell’emendamento 14 della Costituzione, sull’insurrezione di un eletto dal popolo, non può essere applicato nel caso di un Presidente fino a quando il Congresso non avrà deciso le procedure. L’emendamento esiste dal 1868. La Corte ha poi messo a calendario nell’ultimo giorno possibile del calendario dei lavori l’esame dell’immunità che Trump reclama per i suoi atti da presidente, 6 gennaio 2001 in testa, esame chiesto sia da Trump sia dai magistrati federali che indagano su di lu. C’è il forte rischio che il verdetto arriverà ben dopo il 5 novembre. La strategia giudiziaria seguita da Trump in questo e in altri procedimenti che sta subendo è sempre quella del rinvio, e la Corte si è adeguata.

Ma la Corte si è auto smentita pochi giorni dopo quando, il 18 marzo, ha rifiutato di accogliere il ricorso di Couy Griffin, il capo dei Cowboys for Trump, che era a Washington il 6 gennaio 2001 e che un magistrato del Nuovo Messico ha fatto decadere dal suo ruolo di assessore di contea, nel Nuovo Messico, in quanto colpevole di insurrezione (comma 3 di cui sopra) e quindi indegno di reggere un pubblico ufficio. La Corte Suprema ha quindi confermato la sentenza, che è a vita. “Sappiamo tutti che è questo è contro la legge”, non poteva non dire l’avvocato di Griffin, Peter Ticktin, “ora che la Corte ha deciso sul caso Trump e sul tentativo di escluderlo dal voto in Colorado”. Danni potranno venire a Trump, e sono già venuti, da altri procedimenti giudiziari in corso. Ma non sarà la suprema magistratura federale a fermarlo.

Il voto cruciale per il futuro della democrazia

Il risultato elettorale dipende da quanti decidono che tutto questo non è degno di una grande democrazia. Esistono poi molte altre considerazioni, dalla fiducia o sfiducia in Biden, alla sua venerabile età, 82 anni il 20 novembre prossimo, a molte altre ancora. Ma un giudizio su Trump sarà cruciale, visto che l’uomo da un lato promette enormi cambiamenti (nel suo primo mandato ha più che altro navigato, in modo erratico, a vista), e dall’altro è decisamente anomalo come leader democratico, e narcisista fino al parossismo.

Trump e il neoisolazionismo: una nuova era politiica?

Per gli europei, e non solo, c’è anche il neoisolazionismo che Trump cavalca alla grande, una corrente carsica della politica americana vecchia di oltre un secolo (congenita, peraltro, alla nascita del Paese), e riemersa in forze negli ultimi 20 anni. È un “facciamoci i fatti nostri” che sembra una fuga in un mondo che non c’è e che nemmeno c’era in passato, quando l’America, ormai potente, per due volte fu coinvolta in una grande guerra europea, e mondiale.

Uno fra i tanti sostenitori di Trump, un avvocato di Cleveland a nome Paul F. Petrick, prolifico autore di commenti su vari fogli della galassia filo-Trump, ha scritto in questi giorni che dopo il New Deal di Roosevelt, e il Fair Deal di Truman, c’è l’Art of the Deal di Trump, dal titolo di un noto libro firmato da Trump, scritto da altri, su come essere ricco e potente. “Consiste nel totale rifiuto del consenso bypartisan su immigrazione, commercio e politica estera, e nell’offerta agli americani di ciò che doveva essere offerto dopo la vittoria nella Guerra Fredda: un Governo nel nome degli interessi nazionali”. Nulla di più vago. Già nel 2016 Garrison Keilor, noto anchorman radiofonico del Minnesota che interpretò se stesso nell’ultimo film di Robert Altman, uscito in Italia come Radio America e in originale A prairie home companion, scriveva un articolo satirico su Trump per il Chicago Tribune, titolo: “Quando tutto questo sarà finito, non avrai avuto nulla di quello che vorresti”.

Commenta