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Elezioni, identikit di liste e candidati: cosa svela la ricerca dell’Istituto Cattaneo

ISTITUTO CARLO CATTANEO – Molte le pluricandidature, soprattutto per le donne e per i partiti minori – Tante new entry ma spesso in fondo alle liste – Trasformisti collocati soprattutto nei collegi uninominali.

Elezioni, identikit di liste e candidati: cosa svela la ricerca dell’Istituto Cattaneo

Da alcuni giorni sono disponibili sul sito del Ministero dell’Interno gli elenchi dei candidati dei diversi partiti alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Da quegli elenchi è possibile trarre alcune utili indicazioni sulle strategie dei partiti, almeno relativamente alle pluricandidature, alla rappresentanza di genere, al tasso di innovazione dei partiti nel reclutamento dei candidati. L’Istituto Cattaneo ha analizzato questi aspetti, relativamente alle liste più importanti, integrando i dati del Ministero con altre informazioni provenienti dai siti della Camera dei deputati e del Senato. Ecco che cosa è emerso.

Le pluricandidature

Relativamente alle pluricandidature, la legge elettorale prevede la possibilità di candidarsi in più collegi plurinominali (fino a un massimo di cinque), oltre, eventualmente, ad un collegio uninominale. Rimane fermo il divieto di candidarsi in entrambe le Camere. I pluricandidati possono quindi prendere parte ad un massimo di sei competizioni diverse. Come hanno utilizzato questa possibilità i maggiori partiti?

In primo luogo, c’è da notare che i partiti hanno fatto ricorso alle pluricandidature con moderazione, almeno nella sua versione più estrema. In totale, fra Camera e Senato, i candidati delle liste che prendiamo qui in considerazione sono 2970. Di questi solo 472 candidati sono presenti in più di un collegio. I partiti ricorrono più spesso alla formula 1+1, ossia una candidatura uninominale affiancata da una in un collegio plurinominale, come ad esempio il M5s, per il quale le pluricandidature ricadono tutte in questa fattispecie. I partiti minori ricorrono invece più frequentemente alle pluricandidature «estreme». Ad esempio Fratelli d’Italia ricorre in otto casi alla formula 5+1.

I candidati presenti nel maggior numero di collegi sono tipicamente leader nazionali (Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Daniela Santanché, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, tutti presenti in sei competizioni, Matteo Salvini, Giulia Bongiorno, Laura Boldrini, Roberto Speranza in cinque), dai quali ci si attende un effetto traino a favore di candidati meno noti. È interessante inoltre che la gran parte di queste pluricandidature riguardi candidate donne. Tutte le 16 candidate impegnate in 5+1 competizioni sono donne; sono donne anche 12 dei 14 candidati in 4+1 collegi e 9 dei 14 candidati in 3+1 collegi.

Si potrebbe vedere in questo un tentativo dei partiti di dare maggiore visibilità e importanza alle candidature femminili; al contrario, più realisticamente, c’è da aspettarsi che queste pluricandidature apriranno la strada, per ogni candidata eletta, a cinque (o quattro, o tre) eletti uomini. Dato l’obbligo di alternanza uomo/donna nei listini proporzionali infatti, le pluricandidate che otterranno il seggio uninominale lasceranno inevitabilmente il loro posto ai colleghi uomini che le seguono nelle liste dei collegi proporzionali.

Quanto ricambio?

Il secondo dato che analizziamo riguarda il grado di innovazione che i partiti hanno deciso di introdurre nelle loro candidature. Per approfondire questo fenomeno, abbiamo preso in considerazione l’«anzianità di servizio», ovvero il numero di mandati parlamentari che i diversi candidati hanno svolto nella loro carriera politica. Oltre il 75% dei candidati nei collegi uninominali – dove il risultato è più incerto o meno prevedibile rispetto ai collegi plurinominali – non ha alle spalle alcun mandato da parlamentare. Questo trend è particolarmente marcato per i due partiti più «nuovi», come LeU e il M5s: rispettivamente, il 92% e l’86% dei loro candidati nella competizione uninominale può essere definito come una new entry nel circuito dei potenziali parlamentari.

Almeno in parte, questo dato si spiega con le minori probabilità che hanno queste liste (soprattutto LeU) di conquistare seggi nei collegi uninominali. Al contrario, le due coalizioni di centro-destra e centro-sinistra – che controllano una quota di seggi «sicuri» superiore rispetto alle altre liste – riportano un livello di innovazione nel reclutamento dei candidati inferiore rispetto alla media. Ad esempio, per i partiti di centrosinistra la quota di new entry tra i candidati nei collegi uninominali si riduce al 57,5%, cioè di quasi 20 punti percentuali rispetto al valore medio. Questo dato mette in evidenza la decisione, per il Partito democratico e i suoi alleati, di puntare, anche nei collegi uninominali, su candidature politicamente note, tra le quali rientrano quelle dei ministri del governo uscente.

Se osserviamo i dati relativi ai candidati con un solo mandato parlamentare alle spalle, emergono almeno due aspetti rilevanti. Da un lato, nella coalizione di centro-sinistra sono all’incirca il 30% (106 su 346) i candidati nella competizione uninominale alla ricerca di una riconferma: il dato più elevato tra tutte le liste che si presentano al voto e che deriva dall’alto numero di parlamentari uscenti dalle fila del Pd. Dall’altro lato, il M5s si contraddistingue per l’assenza di candidati che siano stati in parlamento per più di un mandato. Del resto questo è conseguenza ovvia del fatto che nel 2013 gli eletti del M5s fossero tutti esordienti assoluti. Il vincolo dei due mandati elettivi auto-imposto dalle regole interne del Movimento inizierà a valere dalle prossime elezioni.

Infine, dalla nostra analisi emerge come i candidati caratterizzati da un livello più elevato di seniority parlamentare si trovino soprattutto all’interno della coalizione di centro-destra. Nello specifico, sono 53 i candidati del centro-destra nei collegi uninominali che sono stati in parlamento per almeno due o più legislature. Il più «esperto» fra i candidati uninominali è Pier Ferdinando Casini, candidato dal PD a Bologna. Se eletto, inaugurerà la sua decima legislatura (si è affacciato in parlamento per la prima volta nel 1983: è stato eletto otto volte alla Camera e una volta al Senato). Ignazio La Russa (FdI), Massimo D’Alema (LeU) ed Emma Bonino (+Europa) seguono, con sette legislature a testa.

Se ora osserviamo il livello di rinnovamento tra i candidati nei collegi plurinominali, possiamo notare che nel 79% dei casi (1561 su 1976) gli aspiranti parlamentari sono neofiti della professione, nel senso che non hanno mai seduto in passato tra i banchi del parlamento. Questo dato, però, si riduce notevolmente per i candidati nelle liste del Partito democratico, dove le new entry sono «soltanto» il 54% (185 su 341). Essendo il gruppo parlamentare uscente più numeroso della XVII legislatura, il Pd aveva infatti un bacino maggiore di deputati e senatori da ricandidare.

Per quanto riguarda le altre liste, il livello di ricambio degli aspiranti parlamentari raggiunge i livelli più elevati per i partiti minori. Infatti, i candidati nei collegi plurinominali senza mandato parlamentare alle spalle raggiungono quasi il 95% per Fratelli d’Italia, il 93% per la Lega e l’85% per LeU. Per Forza Italia e il M5s, il livello di ricambio tra i candidati nelle liste plurinominali si attesta invece a metà strada tra i due estremi, attorno al 75%. Abbiamo parlato finora di rinnovamento della classe politica, utilizzando come indicatore la percentuale di new entry. Ma è possibile analizzare anche la seniority perlamentare, cioè l’«anzianità di servizio» dei candidati già parlamentari.

Da questa prospettiva, sono le liste di Forza Italia e, in secondo luogo, quelle del Pd a includere con maggiore frequenza candidati con un numero di mandati pari o superiori a due. Nel partito di Berlusconi, all’incirca il 19% dei candidati è già stato in parlamento in almeno due legislature, mentre per il Pd questa percentuale si riduce al 12%. Si conferma ovviamente anche nell’analisi dei candidati nei collegi plurinominali il dato particolare del M5s, nelle cui liste non si trovano – per le ragioni esposte in precedenza – aspiranti parlamentari con due legislature già svolte. Fra i candidati al proporzionale con la più lunga carriera parlamentare alle spalle, spiccano, oltre ai già nominati D’Alema e La Russa, Maurizio Gasparri, Elio Vito (FI) e Roberto Calderoli (Lega), con sette legislature a testa.

…ma sarà vero ricambio?

I dati appena presentati, sia per i collegi uninominali che per quelli plurinominali, potrebbero suggerire un elevato tasso di rinnovamento e turnover nella classe parlamentare in vista delle prossime elezioni politiche. Anche se è ancora troppo presto per stabilire in che misura i candidati neofiti entreranno effettivamente in parlamento, possiamo tuttavia analizzare in quali posizioni delle liste nei collegi plurinominali siano collocati i candidati senza una precedente esperienza parlamentare. Le new entry sono nettamente più presenti nelle ultime posizioni delle liste (al terzo o al quarto posto), quelle cioè dove l’elezione è meno probabile.

Questo aspetto vale per tutti i partiti qui analizzati e, in maniera decisamente più marcata, per Forza Italia, Pd e M5s, vale a dire per quelle liste che molto probabilmente avranno la rappresentanza parlamentare più ampia nel prossimo parlamento. Di conseguenza, il livello particolarmente elevato di rinnovamento della classe parlamentare che osserviamo «all’ingresso», cioè nella fase di reclutamento dei candidati, è destinato ad essere ampiamente ridimensionato «in uscita», una volta concluso il processo elettorale.

I «trasformisti»

Per finire, l’Istituto Cattaneo ha analizzato anche la presenza, all’interno delle liste per il voto del 4 marzo, dei candidati che nella legislatura appena trascorsa hanno cambiato «casacca», transitando da un gruppo parlamentare all’altro. Quanto sono stati premiati, e da chi, i parlamentari che hanno cambiato partito durante la legislatura? Esaminando separatamente le candidature uninominali e quelle plurinominali. Iniziando dai collegi uninominali, si nota che i parlamentari che hanno cambiato gruppo nella XVII legislatura risultano complessivamente 66, collocati in tutti gli schieramenti ad eccezione del M5s.

Il gruppo più consistente si trova all’interno della coalizione di centro-destra, dove sono 27 (pari al 7,8%) i parlamentari che hanno ottenuto la ricandidatura nonostante (o grazie al) cambiamento di gruppo in parlamento. Al secondo posto troviamo il Pd, nelle cui liste uninominali trovano spazio 20 parlamentari che hanno cambiato casacca, in gran parte provenienti da Sel o dal gruppo, poi disciolto, di Scelta civica. Nel caso di LeU, per la parte uninominale i parlamentari uscenti che hanno cambiato affiliazione partitica nel corso della legislatura sono 19, pari al 5,5% del totale.

Questi numeri, riferiti ai deputati o senatori uscenti che hanno modificato il loro gruppo di appartenenza parlamentare, si riducono notevolmente se vengono prese in considerazione le liste dei candidati nella parte proporzionale della competizione. Come si può spiegare questa differenza? L’ipotesi più verosimile è che i partiti maggiori abbiano preferito candidare i parlamentari cosiddetti «trasformisti» nelle competizioni più incerte, ossia quelle nei collegi uninominali dove la rielezione è tendenzialmente più complicata. Tuttavia, è opportuno segnalare il caso, in controtendenza, di LeU: i parlamentari che hanno cambiato schieramento nell’ultima legislatura sono più numerosi tra i candidati dei collegi plurinominali rispetto a quelli nei collegi uninominali. Essendo composta in gran parte da parlamentari fuoriusciti dal gruppo del Pd, è probabile che la nuova formazione (LeU) abbia deciso di mettere a disposizione dei deputati o senatori ex-Pd le posizioni più sicure nella componente proporzionale della competizione elettorale.

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