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Dopo Gheddafi. Cosa vuol diventare la nuova Libia dopo l’assassinio dell’ambasciatore americano

Per gentile concessione dell’editore Fazi riportiamo l’introduzione del libro “Dopo Gheddafi, democrazia e petrolio nella nuova Libia” di Gerardo Pelosi e Arturo Varvelli – Attraverso un generoso welfare (finanziato da rendite petrolifere) il rais manteneva in equilibrio la società: anche per questo la rivoluzione libica è diversa dalle altre primavere arabe

Dopo Gheddafi. Cosa vuol diventare la nuova Libia dopo l’assassinio dell’ambasciatore americano

La morte dell’ambasciatore americano in Libia Chris Stevens, avvenuta nel consolato USA di Bengasi nella notte tra l’11 e il 12 settembre scorso alla vigilia della nomina del nuovo premier libico Abu Shagur, getta nuove e inquietanti ombre sulla transizione politica del paese in seguito all’uscita di scena di Gheddafi. Nella città simbolo della lotta al regime gheddafiano – la stessa in cui i Fratelli Musulmani avevano in passato dato alle fiamme il consolato italiano per protestare contro la maglietta anti-islam del leghista Calderoli – una folla di manifestanti della milizia Ansar Al-Sharia ha attaccato con granate e armi da fuoco il consolato USA. La protesta era rivolta contro il film Innocence of Muslim, realizzato da un israelo-americano, Sam Bacile, appoggiato dal pastore americano Terry Jones, noto per aver bruciato in passato alcune copie del Corano. L’ambasciatore americano sarebbe morto per le inalazioni dei fumi provocati dall’incendio. Oltre a Stevens, altre tre persone hanno perso la vita.

Si tratta di un episodio di estrema gravità, che modifica il quadro del processo democratico in corso e dei suoi sviluppi futuri e richiama alla memoria la guerra di Sirte dell’86. Allora il presidente americano Roland Reagan bombardò la caserma di Tripoli dove si trovava Gheddafi. Questa è indubbiamente una brutta storia per il presidente americano Obama, che, dopo l’abbraccio del 2009 ai giovani musulmani riformisti dell’università Al Ahram aveva poi concentrato l’attenzione sulla politica interna e sull’Asia, abbandonando al suo destino Europa e Medio Oriente. Ora può succedere di tutto e il corso degli eventi non potrà non rimettere in gioco le relazioni tra Italia e Libia.

Sembra una vita fa ed invece era solo il 30 agosto del 2010. Il colonnello Muammar Gheddafi atterrava a Ciampino, con trenta cavalli berberi al seguito, per festeggiare il secondo anniversario dell’accordo di amicizia e cooperazione italo-libico siglato con l’“amico” Silvio Berlusconi (quello che, un anno dopo, commenterà la sua morte con un indecifrabile «sic transit gloria mundi»). Tutto sembrava girare per il meglio. L’Italia, dopo anni di tira e molla, aveva finalmente pagato il prezzo richiesto da Tripoli (5 miliardi di dollari) per quel “grande gesto” definitivo di riconciliazione indispensabile a cancellare il passato coloniale. Allo stesso tempo, Roma accoglieva con favore gli investimenti libici in Unicredit, Eni e Finemeccanica e diventava interlocutore privilegiato per tutti i lucrosi affari della Jamahiriya sulla sponda nord del Mediterraneo, petroliferi e non, con qualche appendice più che segreta di business parallelo, molto chiaccherato ma assolutamente non tracciabile, tra il colonnello Gheddafi, il premier Berlusconi e forse anche il premier della Federazione Russa, Vladimir Putin. Si stipulava un’alleanza su cinema e televisioni ma soprattutto sulla gestione delle risorse energetiche (che avrebbe irritato non poco Germania e Francia), Eni-Gazprom-Noc, dietro alla quale traspariva in controluce una nuova rete di potere sovranazionale (e personale) che univa nella stessa sorte soggetti politici resi distanti dalla storia ma ancora di più dalla geografia. Un leader rivoluzionario anticoloniale divenuto despota, un premier populista teorico dell’antipolitica e del “partito dell’amore”, un ex agente del KGB divenuto contrappeso essenziale del nuovo nazionalismo nella lotta tra oligarchi della Russia odierna.

Eppure, accordi segreti a parte, quel “sistema” di alleanze sembrava incrollabile. Il 30 agosto del 2010, quel “carosello” di cavalli arabi nella caserma dei Carabinieri di Tor di Quinto a Roma (de!nito una “pagliacciata” dall’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni solo a Gheddafi liquidato) poteva apparire il coronamento di lunghi anni di negoziati sotto la tenda nella caserma Bab el Azizia di Tripoli (bombardata dagli americani nell’86) o a Sirte, quando Gheddafi congedava i suoi interlocutori italiani, dopo interminabili attese, regalando loro qualche vecchio e arrugginito moschetto 91 del periodo coloniale – un modo come un altro per sottolineare la ferita dell’occupazione italiana, tenuta accuratamente aperta dalla Jamhayiria per alimentare un sentimento di unità nazionale altrimenti inesistente tra le tre diverse entità territoriali di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.

Sembra, appunto una vita fa. Perché ora, a quasi un anno di distanza dal 20 ottobre 2011, data della cattura e morte del rais, anche le ultime atroci immagini del suo cadavere dileggiato dai miliziani dopo la cattura a Sirte hanno perso gran parte del loro impatto emotivo. Tutti – forze politiche, osservatori e società civile libica (o quanto dietro a questa vaga definizione si nasconde in quel paese) – stanno già facendo scommesse su quale sarà il punto di caduta della formazione del nuovo governo, eletto democraticamente dopo 42 anni di dittatura, e sulle s!de che attendono i 200 membri del Parlamento nato dalle elezioni del 7 luglio. È stata, questa, un’estate incandescente di trattative tra le formazioni politiche più rappresentative – in particolare la vittoriosa (38 seggi) Alleanza delle forze nazionali del liberale Mahmud Jibril, possibile futuro premier, e la lista dei Fratelli Musulmani di Giustizia e Ricostruzione – e i 120 deputati indipendenti che rispondono a logiche di appartenenza tribale, più che politica, spesso sconosciuti anche agli stessi leader dei gruppi maggiori.

A ben guardare, il contesto libico è apparso per certi versi indecifrabile !n dalle prime mosse della nuova insorgenza anti-Gheddafi sorta nella primavera del 2011. Solo l’economia del petrolio può spiegare perché la rivoluzione libica è stata assolutamente diversa rispetto alle altre “Primavere arabe”, alla “Rivoluzione dei gelsomini” di Tunisi e ancor più rispetto alla “Piazza Tahrir” del Cairo. In quelle realtà, le dittature di Ben Alì e di Hosni Mubarak avevano prodotto effetti devastanti sul tenore di vita di larghe fette della società. Non è stato così in Libia, dove un’economia tutta incentrata sulle rendite petrolifere riusciva a sostenere un sistema di welfare assai generoso. Una stabilità apparente che poteva trarre in inganno, come trasse in inganno lo stesso ministro degli Esteri italiano di allora, Franco Frattini, che nel febbraio del 2011, quando già si stavano accendendo i primi fuochi nelle piazze arabe (assolutamente incompresi o sottovalutati dalla comunità internazionale e soprattutto da Francia e Stati Uniti), in un’intervista al «Corriere della Sera» indicò proprio nel “modello libico di Gheddafi” una soluzione per la nuova leadership tunisina ed egiziana.

Certo, i giovani libici, si è detto, hanno giocato un ruolo importante. Il popolo dei social network a Tripoli, come già a Tunisi e al Cairo, ha considerato intollerabile la sospensione di democrazia e libertà operata dal regime. Le polemiche post-elettorali contro i “gattopardi” delle vecchie élite, prima allevati alla corte di Gheddafi e ora pronti a presentarsi in veste di riformatori, rimbalzano anche in questi giorni, ma non sono tali da rappresentare una minaccia seria al processo di riforme democratiche in atto. Solo ora, con il nuovo governo, si potrà cominciare a capire cosa effettivamente vuole diventare la Libia: se un grande Qatar che difende il suo petrolio (e le rendite che ne derivano), affacciato sul Mediterraneo e in rapporto privilegiato con l’Unione europea e soprattutto con gli amici-nemici di sempre – ossia gli italiani – oppure qualcosa di diverso, più vicino al contesto geopolitico del Nord Africa e del Maghreb.

Dai nuovi connotati che assumerà la nuova Libia dipenderanno infatti anche le relazioni politiche e soprattutto economiche con l’Italia. In ballo c’è il futuro degli investimenti finanziari presenti sul nostro territorio e riconducibili al vecchio regime e al fondo sovrano libico, così come la riattivazione di quell’accordo Berlusconi-Gheddafi che è stato solo congelato, ma non cancellato, dal governo provvisorio. Consola però sapere che, quando Berlusconi si profondeva in baciamano al rais, non tutti si piegavano alla stessa logica. Non solo i rimpatriati dalla Libia che avevano un conto aperto con Gheddafi, ma anche i piloti delle Frecce Tricolori che nel 2009 si rifiutarono di effettuare le evoluzioni a Tripoli con il verde della Jamahiriya invece del tricolore, così come gli ufficiali a cavallo dei carabinieri che, nell’agosto 2010, nella Caserma D’Acquisto di Roma, non vollero esibirsi insieme ai cavalieri berberi pretendendo un carosello separato solo per loro. Almeno la carica di Pastrengo – solo quella – rimase allora salva e inviolata.

 

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