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Demografia e welfare: un problema reale di cui la politica dovrà farsi carico

Le dichiarazioni di Mario Monti sulla sostenibilità della sanità pubblica in Italia hanno dato il via ad aspre polemiche e prese di posizione da parte di sindacati e forze politiche. Ma l’incrocio tra finanza e demografia esiste e va affrontato politicamente.

Demografia e welfare: un problema reale di cui la politica dovrà farsi carico

Le dichiarazioni di Monti sulla sostenibilità futura del sistema sanitario hanno suscitato notevoli polemiche da parte di sindacati e forze politiche: era ampiamente prevedibile.

In realtà, la sortita del premier arriva in seconda battuta rispetto al più noto commento di Mario Draghi sul welfare europeo, che bollò come “superata” la rete di protezione sociale di cui tutti godiamo.

Inevitabilmente, queste prese di posizione sono state cavalcate da alcune forze politiche e sociali, che hanno rimproverato alla “tecnocrazia liberista” l’intenzione di soggiogare i diritti alla sete di profitto dei mercati finanziari, delle banche, delle assicurazioni.

Come spesso accade, però, la realtà è molto più complessa, e la sostenibilità del welfare non è un ideologismo bensì un problema concreto, che la politica dovrà prima o poi affrontare. 

La demografia, da questo punto di vista, gioca un ruolo primario. Fino ad ora, nella gestione finanziaria del welfare, non si è tenuto abbastanza conto del tendenziale invecchiamento della popolazione, causato dalla decrescita dei tassi di natalità. La previsione fondamentale dell’economista Robert Malthus – ovvero che con l’aumentare del reddito pro capite si sarebbero fatti più figli – si è rivelata errata, dal momento che, al contrario, più il reddito aumenta più il tasso di natalità decresce, contribuendo a ribaltare la piramide sociale, che si assottiglia alla base (in corrispondenza delle fasce d’età più basse), e si allarga alla sommità, indicando che sul totale della popolazione la quota di anziani aumenta sempre di più. 

Potrebbe sembrare strano che, con l’aumentare della ricchezza, le famiglie tendano a far meno figli, ma in realtà i meccanismi economici che regolano il comportamento degli individui aiutano a capire questa bizzarra tendenza: più si lavora, più la donna si emancipa ed entra a far parte del ciclo economico di produzione-accumulazione, più il tempo da dedicare alla cura dei figli comporta la rinuncia a tempo di lavoro e, quindi, reddito. Al netto delle conseguenze congiunturali sulla natalità di una crisi economica (oggi si fanno meno figli soprattutto perchè non si possono mantenere), il meccanismo che regola le nascite è proprio questo, e nei paesi poveri è ribaltato: meno si guadagna più l’incentivo a proliferare (anche per ragioni culturali e sociali) cresce. 

I figli, spesso, diventano addirittura una sorta di investimento, dal momento che fin dalla tenera età contribuiscono all’unità e alla sopravvivenza della famiglia, ad esempio lavorando nei campi o nelle miniere. Malthus invece era convinto che l’unico freno alla natalità fosse la limitatezza delle risorse naturali (acqua, cibo, terra), e che raggiunto un punto limite nella disponibiltà delle risorse, la natalità avrebbe frenato spontaneamente. Al contrario, continuiamo ad assistere ad un incremento delle nascite nel terzo mondo, mentre nel relativamente ricco Occidente ci sono sempre meno bambini in circolazione.

Come si riflette tutto ciò sulle finanze pubbliche? Quando la popolazione invecchia, i costi crescono, e se i Governi – per vantaggi politici di breve termine – non “inventano” meccanismi per sostenere il welfare, si raggiunge un punto di rottura oltre il quale finanziare sanità e pensioni diventa impossibile: con l’allungamento della vita media e la diminuzione della natalità, la sanità (di cui si usufruisce soprattutto nella terza età) e le pensioni dovranno essere “pagate” da chi lavora, che trasferirà ricchezza a chi si è ritirato. Ma se – in virtù del declino della natalità – lavorano sempre meno persone, l’unica soluzione per mantenere in vita il welfare universalistico è indebitare le casse pubbliche: risulta politicamente sconveniente o semplicemente impossibile aumentare i contributi e le tasse a carico dei lavoratori.

Oggi siamo però a un punto di svolta. L’obbligo contratto dai paesi europei di porre un freno all’accumulo di debito pubblico rende impercorribile la via finora seguita, e obbligatorio individuare fonti di finanziamento della sanità diverse dal debito (o da tasse aggiuntive), quando le entrate non sono più sufficienti. In questo senso, in campo previdenziale, l’introduzione del metodo contributivo nel calcolo delle pensioni rappresenta un punto di non ritorno, ma il problema del finanziamento alla sanità permane visto che, una volta risolto il dilemma pensionistico, il declino della natalità scopre automaticamente il capitolo della sanità. Insomma, la coperta è troppo corta e scaldarsi diventerà sempre più difficile. 

Proprio in questo senso vanno lette le dichiarazioni dei due Mario nazionali. E l’ideologia c’entra molto poco: se il “welfare state” ereditato dal pensiero di William Beveridge è insostenibile nel lungo periodo, bisognerà trovare fonti di finanziamento alternative.

La storica (e spesso ideologizzata) contrapposizione italiana tra pubblico e privato presenta un dannoso effetto collaterale: nasconde il punto focale del problema, ovvero che proprio per mantenere un livello di assitenza pubblica realmente fruibile per tutti (i cosiddetti livelli essenziali di assistenza), il finanziamento privato sarà in futuro inevitabile. Nel mondo delle professioni ci si sta già attrezzando, proponendo strumenti assicurativi di natura privatistica che garantiscano trattamenti sanitari complementari adeguati, in previsione di una tendenziale riduzione dell’offerta pubblica. Nell’ambito delle pensioni, Raffaele Zenti ha già illustrato su FIRSTonline l’opportunità di considerare, fin da oggi, l’utilizzo della previdenza complementare (per chi può permettersi di risparmiare una quota dei propri guadagni), visto che l’improrogabile introduzione del metodo contributivo comporterà premi pensionistici molto ridotti per le generazioni future.

In alcuni paesi il declino della natalità sta già intaccando il funzionamento dei mercati finanziari: in Gran Bretagna, ad esempio, molti fondi pensionistici privati stanno riposizionando i loro portafogli sulle obbligazioni pubbliche, oggi vantaggiose in termini di rendimento rispetto ai mercati azionari, e meno volatili. Una recente ricerca del Financial Times, inoltre, ha rivelato come al declino della natalità si associ, storicamente, una riduzione dei corsi azionari, proprio perchè la necessità di stabilizzare gli incassi futuri (in previsione del pensionamento dei “baby boomers“) spinge i gestori a virare verso la stabilità dei titoli a reddito fisso. Non a caso, si inizia a parlare di una fine dell'”età dell’oro” dell’equity che, raggiunto il momento apicale tra anni ’80 e’90, potrebbe non tornare più ai fasti del passato.

Il quadro che si sta delineando è abbastanza evidente oltre che ineludibile, e se la presenza dello Stato nel welfare non potrà che diminuire in futuro, saranno i meccanismi e i garanti del mercato a dover assicurare la reale fruibilità dei diritti costituzionali, in particolar modo nel settore sanitario. Tra politica e finanza, la strada da percorrere è ancora lunga, come il caso della sanità americana sta a dimostrare.

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