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“Dazi, l’accordo con la Ue è un tributo a Trump. E il suo trionfo sta in quel fondo sovrano che sosterrà l’economia Usa”: l’analisi di Debach (eToro)

Intervista a Gabriel Debach, market analyst di eToro, dopo l’accordo Usa-Ue sui dazi: “Più che un accordo, è un tributo. Il vero trionfo di Trump sta nel fondo sovrano implicito alimentato da capitali stranieri e indirizzato a settori chiave dell’economia Usa. L’Europa mastica amaro. I mercati? La vera bussola di queste giornate sono le trimestrali”

“Dazi, l’accordo con la Ue è un tributo a Trump. E il suo trionfo sta in quel fondo sovrano che sosterrà l’economia Usa”: l’analisi di Debach (eToro)

Più che un accordo, è un tributo. Il vero trionfo di Donald Trump non è solo nelle tariffe, ma nel meccanismo che ha innescato: un “fondo sovrano implicito”, alimentato da capitali stranieri e indirizzato verso settori chiave dell’economia americana. È in questo modo che Gabriel Debach, market analyst di eToro legge i recenti accordi commerciali tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Europa e Giappone si sono impegnati a investire 1.150 miliardi di dollari entro il 2028, prevalentemente in energia, semiconduttori e manifattura. È soprattutto questo l’elemento che farà la differenza nella crescita delle economie sui due lati dell’Atlantico.

Debach, come valuta per il momento l’accordo Usa-Ue del weekend scorso che prevede una tariffa del 15% sui beni europei importati in terra statunitense?

“All’indomani dell’accordo Usa-Ue, la reazione europea è univoca solo nella forma: il disappunto. Prevale il disagio, accompagnato da un’incertezza diffusa. I governi restano cauti, in attesa di dettagli operativi, mentre le opposizioni si scagliano contro gli esecutivi nazionali, come se fossero stati loro a trattare direttamente con Washington”.

Ci sono diverse interpretazioni riguardo l’esito degli accordi. Il Financial Times ironizzava con l’acronimo Taco – Trump always chickens out – per indicare che il presidente Usa finisce sempre, all’ultimo minuto, per tornare sui suoi passi per paura. È d’accordo con questa interpretazione?

“Siamo sicuri che questa volta sia stato Trump a fare marcia indietro? A guardare i fatti, sembra piuttosto che sia il resto del mondo ad aver ceduto il passo. A parte Canada e Cina, nessuno ha risposto all’offensiva americana con contromisure concrete. L’Europa, come il Giappone, il Regno Unito, il Vietnam e l’Indonesia, ha preferito la via della trattativa. Non un passo avanti, ma un passo indietro, anche se meno doloroso del previsto. Eppure, da europei, continuiamo a illuderci di avere una posizione dominante, mentre i fatti dimostrano il contrario: stiamo perdendo colpi”.

Quindi come chiamerebbe la formula strategica di Trump?

“Trump ha messo in campo un divide et impera da manuale, colpendo tutti: apparentemente con la stessa forza, ma in realtà trattando ognuno separatamente e isolandolo sul piano negoziale. Il risultato? Tariffe, sì, inferiori alle minacce iniziali, ma comunque elevate rispetto allo status quo. Unico risultato positivo è che gli accordi hanno messo fine all’incertezza sul quantum. E questo ai mercati piace. Sempre, ovviamente, prima di dover fare i conti con l’oste degli effetti reali. I dettagli dell’accordo potrebbero fare la differenza e rendere il possibile quadro futuro meno incerto: non è un patto tra pari, ma ha evitato l’escalation. Ma il prezzo lo pagano l’export, la crescita e la coesione interna europea”.

Non è solo una questione di tariffe. Negli accordi ci sono anche capitoli pesanti come macigni, che riguardano centinaia di miliardi di investimenti che Trump ha chiesto ai partner commerciali. Come vede l’impatto di questi investimenti sulle economie di Usa ed Europa?

“Più che un accordo, lo chiamerei un tributo. Il vero trionfo di Trump non è solo nelle tariffe, ma nel meccanismo che ha innescato: un “fondo sovrano implicito”, alimentato da capitali stranieri e indirizzato verso settori chiave dell’economia americana. Europa e Giappone si sono impegnati a investire 1.150 miliardi di dollari entro il 2028, prevalentemente in energia, semiconduttori e manifattura. Una cifra colossale, che equivale a una spinta da +0,3/+0,5 punti di Pil annui negli Usa, con creazione stimata di fino a un milione di posti di lavoro diretti e indiretti. In più, i dazi rappresentano una nuova fonte di gettito che potrebbe finanziare, almeno in parte, le prossime spese federali. A giugno, il Dipartimento del Tesoro ha incassato 27 miliardi di dollari in entrate doganali, quasi il quadruplo rispetto a un anno fa. Fondi che serviranno a finanziare spesa interna e incentivi industriali. Certo, non tutta l’industria americana ne beneficerà. Alcuni settori subiranno costi più alti che sarà difficile trasferire al consumatore. Ma la traiettoria generale è chiara e per Trump è una vittoria da prima pagina: più investimenti, più autonomia strategica, meno dipendenza esterna e ancora: reshoring industriale, vendite energetiche garantite, flussi di capitale estero e tariffe solide“.

E per l’Europa? Quali conseguenza per il Vecchio Continente a causa della politica di Trump?

“Per l’Europa, una ricetta amara: esportazioni penalizzate, maggiore dipendenza strategica e una coesione interna che rischia di sfaldarsi sotto il peso delle disparità. La Commissione ha già tagliato le stime di Pil dal 1,5% all’1,1% e, con le nuove barriere commerciali, l’export potrebbe contrarsi ulteriormente. In gioco non ci sono solo numeri percentuali, ma posti di lavoro, marginalità e fiducia industriale”.

Anche l’Europa, come il Giappone, deve versare un contributo agli Usa

“Per l’Europa si parla di 750 miliardi di dollari in acquisti energetici e 600 miliardi in investimenti Fdi (Foreign direct investment, vale a dire gli investimenti diretti all’estero, ndr) entro il 2028. Ma c’è una nota interessante: quegli investimenti sono impegni aggregati, non vincoli legali. La Commissione non può garantire quei numeri e la reale attuazione andrà monitorata”.

In molti temono ripercussioni dei dazi sull’inflazione. Che previsioni si possono fare?

“Nel valzer dei numeri, è difficile fare previsioni nette. Negli Stati Uniti l’impatto inflazionistico potrebbe essere contenuto: se i beni subiranno rincari, tuttavia, il vero motore dell’inflazione americana resta nei servizi, il che limita l’effetto macro. L’effetto è contenuto, ma non nullo. In Europa, lo scenario è più complesso. L’inflazione resta sotto controllo, ma la crescita è il vero tallone d’Achille”.

Che spazi hanno Fed e Bce per muoversi?

“L’accordo commerciale tra Usa e Ue agisce come acceleratore della divergenza monetaria tra Usa e Ue. La Fed può permettersi di attendere: l’inflazione è resiliente, i rischi da dazi sono noti e non incorporati e non c’è urgenza di allentare – salvo pressioni mediatiche provenienti dalla Casa Bianca. La Bce, invece, è bloccata in un limbo: ha anticipato i tagli per sostenere la ripresa, ma ora si ritrova con minori margini mentre la crescita rallenta e l’incertezza aumenta, cosi come le pressioni dei Governi su Francoforte, oltre che su Bruxelles”.

Come pensa si potranno muovere i mercati azionari? Quali settori per il momento hanno risentito di più della nuova situazione?

“Per ora, i mercati osservano e per lo più festeggiano. Lunedì scorso, subito dopo l’annuncio dell’accordo, il settore della difesa europeo ha pagato l’ipotesi di una riallocazione dei fondi a favore delle aziende americane, ma la reazione delle sedute successive – da Rheinmetall a Leonardo (favorita anche da trimestrali e operazioni straordinarie), passando per Thales e Hensoldt – è stata opposta, suggerendo che si sia trattato più di prese di profitto che non di un cambio strutturale nei flussi. Il comparto auto poi, che ha beneficiato parzialmente della riduzione delle tariffe rispetto alle minacce iniziali (dal 27,5% al 15% sui veicoli e componenti Ue verso gli Usa), ha comunque subìto un contraccolpo significativo, con pressioni sui margini e revisioni al ribasso delle guidance. Lo stesso vale per il settore siderurgico, con ArcelorMittal e ThyssenKrupp in flessione del 6-9%. Bene invece il comparto dei semiconduttori tornato protagonista su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma ora l’attenzione degli investitori si è rapidamente spostata sulle trimestrali. Ed è lì che si gioca davvero l’umore di queste giornate”.

La seduta di giovedì è stata una delle più affollate di dati delle ultime settimane: dalle decisioni e dichiarazioni della Fed e della Boj, ai dati macro, ai conti trimestrali di Meta e Microsoft. Come districarsi? Quali dati ritiene più significativi?

“Tante storie da raccontare, nessuna dominante. Ma proprio per questo, qualcosa si chiarisce: la complessità è tornata al centro e la selettività non è più una scelta, ma una necessità. La vera bussola sono state le trimestrali: Meta ha sorpreso in ogni metrica e Microsoft ha confermato la sua leadership come infrastruttura dell’AI. Le capex di Meta per il 2025 sono stato riviste a 66–72 miliardi, ma il mercato non si preoccupa (qui si parla di AI non di Metaverso): i margini tengono, il free cash flow è forte, la direzione è chiara. Per Microsoft il dato strategico è che investe come un hyperscaler (Capex trimestrale da 24 miliardi), ma con efficienza da software company. La monetizzazione dell’AI sta superando i costi di infrastruttura: una rarità nel panorama attuale”.

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