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Coronavirus, lavoro: ecco chi è più a rischio

L’impatto maggiore del virus sull’economia sarà sull’occupazione sostiene l’economista Simona Costagli nel Focus settimanale Bnl – A rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro tra le categorie più fragili – Ecco tutti i dati

Coronavirus, lavoro: ecco chi è più a rischio

La ferita inferta dal Coronavirus alle economie mondiali sarà difficile da rimarginare. Le previsioni che si susseguono di giorno in giorno sono le peggiori mai viste dai tempi della Seconda guerra mondiale. Il Pil globale scenderà del 3%, il commercio registrerà una flessione compresa tra il 13 e il 32%, gli investimenti diretti esteri crolleranno tra il 30 e il 40% . Secondo le stime (nemmeno le più pessimistiche) “500 milioni di persone a livello mondiale rischiano di cadere in povertà, 170 paesi registreranno un calo del reddito pro capite” sottolinea l’economista Simona Costagli nel focus settimanale del Servizio Studi Bnl.

Come da tradizione, a subire le conseguenze più eclatanti di quelle che a primo acchito potrebbero sembrare solo cifre e percentuali saranno i lavoratori. “L’impatto maggiore del virus sull’economia sarà sull’occupazione – spiega il report – con una perdita stimata di posti di lavoro notevole”. In base ai calcoli dell’Ocse, nei Paesi più sviluppati, in Cina, Brasile e Russia, i posti di lavoro a serio rischio sarebbero tra il 15 e il 35% del totale. 

“Il periodo di chiusura delle attività – sottolinea Simona Costagli nel Focus Bnl – ha evidenziato in particolare la presenza in tutti i paesi di una fascia di lavoratori molto fragili che difficilmente potranno reinserirsi nel mercato del lavoro in assenza di politiche mirate”.

Parliamo in particolare di lavoratori poco qualificati che in Italia rappresentano circa un terzo del totale (il doppio della media europea). Il 39% di questa forza lavoro è infatti impegnata in attività rimaste chiuse durante i lockdown, mentre il 45% lavora in settori “non essenziali”. Rilevante anche l’aspetto riguardante i contratti più diffusi nei settori rimasti chiusi: il 33% del totale di questi lavoratori ha un contratto a tempo determinato contro l’11% nelle occupazioni attivabili in telelavoro.

“In media, nel complesso dei paesi della Ue (più il Regno Unito), nella fase più acuta del contagio gli occupati nei settori sottoposti a chiusura e senza possibilità di usare il telelavoro erano il 10% del totale,3 ma il dato presenta una discreta variabilità: in Spagna si è arrivati al 14,5%, in Grecia e Irlanda al 13%, in Italia all’11,5%, in Francia al 9,5% e in Germania all’8,3%”, si legge nel report. 

Tra i soggetti più a rischio figurano anche le donne, la cui presenza è predominante nei settori soggetti alle chiusure. A mitigare parzialmente  l’impatto negativo dell’epidemia sull’occupazione femminile potrebbe però contribuire il fatto che in media le donne sono predominanti nelle attività che a marzo e aprile hanno continuato ad operare grazie al telelavoro. “Ciò non costituisce una regola: in Italia, ad esempio, è donna il 56% degli occupati nei settori chiusi il 42% nelle attività essenziali e il 50% in quelle attivabili in telelavoro”, precisa Costagli.

A livello anagrafico a rischiare di più sono i giovani con un età compresa tra il 15 e i 29 anni. Ancora una volta, un quarto degli occupati nei settori chiusi (28%) appertiene a questa fascia, mentre la presenza degli under 29 è minore sia nei settori essenziali (circa 16%), sia in quelli attivabili da remoto (circa 15%).

Perché questi dati sono importanti? Perché “i settori chiusi durante il lockdown non saranno in grado di tornare a operare ai ritmi pre crisi finché non ci sarà un allentamento significativo delle misure di distanziamento sociale e una ripresa consistente del movimento turistico, cosa che in assenza di vaccino potrebbe richiedere un periodo di tempo lungo”. 

Riassumendo: i settori rimasti chiusi, e dunque più soggetti degli altri a subire le conseguenze economiche della pandemia, sono anche quelli in cui prevale la presenza femminile, che contano sul maggior numero di giovani e che impiegano le categorie contrattualmente più deboli come gli autonomi e i contratti a tempo determinato. 

“Emerge dunque una caratterizzazione piuttosto chiara del tipo di lavoratori più penalizzati dalla pandemia. Sebbene in un contesto di estrema difficoltà, dopo la fase dell’emergenza le misure a sostegno del reddito dovrebbero essere affiancate da politiche mirate al supporto di questi lavoratori e da investimenti in formazione e più in generale nell’istruzione. Un tema questo che in molti paesi (tra cui il nostro) era considerato un’emergenza già prima della pandemia”, conclude il report.

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