Condividi

Contrattazione e produttività: una ricetta per il rilancio

Un incontro fra esperti sulle modalità per riattivare sentieri di crescita congiunti per salari reali e produttività – In discussione la proposta di un tasso di crescita programmato, da raggiungere anche con il contributo di innovazioni organizzative.

Contrattazione e produttività: una ricetta per il rilancio

La rottura del legame tra la dinamica della produttività e delle retribuzioni reali, seppur un  fenomeno comune  all’insieme dei Paesi sviluppati, assume in Italia una declinazione tutta particolare. Mentre altrove è avvenuto con una crescita della produttività, in Italia, tale separazione è stata invece accompagnata da un aumento pressoché nullo della produttività, come emerge da un rapporto della Commissione Europea risalente ad un anno fa. Inoltre la
crescita della produttività, quando c’è, è in gran parte spiegata dalla riduzione dell’occupazione e non dalla crescita della produzione: il lavoro soffre per riduzioni salariali e riduzione dell’occupazione. Come gestire queste problematiche? Il nodo è stato affrontato in un convegno che si è tenuto alla facoltà di Economia della Sapienza a Roma.

Anche perché sono risultate inefficaci nello stimolare la produttività sia la flessibilità, introdotta a partire
dal pacchetto Treu del 97, sia il ricorso alla contrattazione decentrata, ferma al 30% delle imprese industriali sopra i 20 addetti (Commissione Giugni), a cui non ha corrisposto l’auspicata riforma  strutturale del mercato del prodotto.

In questo scenario di declino, un panel di rinomati economisti si è interrogato, martedì 4 giugno, sulle iniziative da intraprendere per attivare un meccanismo virtuoso che inneschi e sostenga la crescita della produttività. Varie di queste si concentrano sul ruolo della contrattazione.

La tesi dibattuta consiste nella necessità che Governo e parti sociali si accordino per il raggiungimento di un tasso di crescita programmato della produttività, definito per settore, comparto, filiera e territorio, così da tenere conto delle eterogeneità del sistema produttivo italiano. Secondo Marcello Messori, dell’università Luiss di Roma, si tratta di fissare quegli incrementi medi di produttività del lavoro che possano ridurre i ritardi italiani rispetto ai Paesi concorrenti e di  trasferire una quota rilevante di tali incrementi alle remunerazioni correnti dei lavoratori. Il costo  del lavoro aumenta così per tutte le imprese per via della contrattazione nazionale, proseguono  Davide Atonioli e Paolo Pini, docenti a Ferrara, quindi le imprese che vogliono raggiungere e  superare gli obiettivi programmati, appropriandosi di più elevati profitti, dovranno imboccare un cambiamento tecnologico ed organizzativo con la partecipazione attiva della forza lavoro.

Particolare enfasi viene data al ruolo dell’organizzazione del lavoro come leva su cui agire per ottenere gli incrementi di produttività, oltre che facendo conto sul rinnovato potere di acquisto delle retribuzioni a sostegno della domanda interna. Relativamente a questo, Messori sostiene che le imprese italiane abbiano fallito nel far proprio il nuovo paradigma dell’innovazione, ossia quello organizzativo. Infatti, continua il docente della Luiss, le imprese italiane, che non sfigurano nei confronti internazionali quanto ad ammontare di investimenti compiuti, sono però state incapaci di
passare alle innovazioni organizzative dell’attuale era della «tecnologia dell’ informazione e della  comunicazione», che rendono necessari salti dimensionali e la piena integrazione fra manifattura e  servizi, rimanendo invece legate alle innovazioni incrementali degli anni Sessanta e Settanta.

Tra le cause del ritardo vengono citate la struttura proprietaria del capitalismo familiare, in termini di  mancata separazione tra proprietà e controllo più che di diritti di proprietà,  e l’ ambiente esterno sfavorevole,  che non offre elementi di sostegno (esternalità) a chi compete sul mercato, ma premia i percettori di rendite.  Se si guarda alle imprese che sono uscite dal mercato durante la crisi si nota come queste non siano le meno efficienti bensì le meno protette, spesso le migliori tra le imprese non esportatrici. 

Questi aspetti sono alla base del malfunzionamento della “distruzione creatrice”  schumpeteriana in Italia, che risulta fortemente distorta a causa di questi fallimenti di mercato, e a cui non ci si può affidare non solo per i seri danni che provocherebbe all’occupazione.  Importante è il carattere incentivante dell’obiettivo di produttività programmata proposto, elemento che sta alla base del circolo virtuoso atteso, e l’idea di distinguere gli aspetti relativi alla
distribuzione dei vantaggi della produttività da quelli relativi alle determinanti della produttività.

Commenta